martedì 21 gennaio 2014

Processo liberista all’euro e all’Italia che non sa crescere, di Luigi Zingales

La moneta unica finirà male se rimarrà un meraviglioso ideale di una piccola élite che vuole imporlo a tutti. Ma le sue regole sbilenche non sono la causa dei nostri mali. Un manifesto per reagire

Quello che pubblichiamo è il testo del discorso che Luigi Zingales ha tenuto venerdì scorso alla commissione Finanze della Camera dei Deputati, in occasione di un’audizione “sulle prospettive della politica tributaria e del settore bancario, nel quadro dell’euro ed in vista del prossimo semestre di Presidenza italiano dell’Unione europea”. Zingales è forse uno dei pochi personaggi pubblici italiani che, senza troppe ritrosie, accetterebbe l’etichetta di “Chicago boy”. All’Università di Chicago – bastione dell’anti-keynesismo sin dagli anni 50 e poi fino agli anni 90, grazie a studiosi del calibro di Ronald Coase, Eugene Fama e Milton Friedman tra gli altri (tutti premi Nobel) – l’economista ha infatti iniziato a insegnare nel 1992, fino a diventare nel 2006 “Robert C. McCormack Professor of Entrepreneurship and Finance” alla Chicago Booth Business School. Nel 1987, Zingales si laureò alla Bocconi di Milano, nel 1992 ottenne il suo dottorato in Economia al Massachusetts Institute of Technology. Editorialista del Sole 24 Ore, nel 2012 Zingales è stato l’unico italiano – assieme a Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea – nella lista dei 100 pensatori più influenti redatta da Foreign Policy. Nel 2003 ha scritto “Salvare il capitalismo dai capitalisti” assieme al collega Raghuram G. Rajan, diventato di recente il governatore della Banca centrale indiana. Nel 2012 ha invece pubblicato “Un capitalismo per il popolo”, tradotto in Italia da Rizzoli con il titolo “Manifesto capitalista. La rivoluzione liberale contro un’economia corrotta”.
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Vorrei cominciare la mia presentazione con fatti molti semplici, ma spesso dimenticati nel dibattito politico. Se voi guardate la prima slide (vedi grafico numero 1, qui a lato) che presento, questa è una illustrazione molto semplice di cosa è successo ai principali paesi europei – ci sono anche Stati Uniti e Giappone – nel periodo che va dall’introduzione dell’euro a oggi. E come voi vedete, mentre la Germania ha avuto un aumento del proprio reddito pro capite del 21 per cento, e gli Stati Uniti o l’Inghilterra del 17, l’Italia ha avuto una riduzione del proprio reddito pro capite del 3 per cento. Quindi non stupisce se il consenso verso l’Unione europea in Italia sia sceso drammaticamente: guardate la percentuale di persone che dicono che l’Italia ha beneficiato dal fatto di appartenere all’Ue (grafico 2, prossimo capoverso); passiamo da un 85 per cento della fine degli anni 80 a circa il 50 per cento oggi. Questo, secondo me, è un problema molto forte di consenso verso l’Europa.
Ma se è vero che questa riduzione del reddito pro capite è avvenuta nel periodo successivo all’introduzione dell’euro, non è colpa dell’euro se siamo in questa situazione. Sono altri i problemi che l’Italia ha. Purtroppo la coincidenza con l’introduzione dell’euro fa sì che la gente tenda ad associare questo slow-down italiano all’euro. Ricordo sempre una vecchia storia: nella Russia zarista, quando c’era un’epidemia di vaiolo, venivano ammazzati i medici. Questo accadeva perché nei paesi sperduti i medici arrivavano solo quando c’era il vaiolo, per curare la malattia; e siccome molto spesso la gente tende a confondere “correlazione” con “causazione”, i cittadini russi vedevano i medici ogni volta che c’era il vaiolo, perciò pensavano che i medici causassero il vaiolo invece che curarlo. E un po’ questa è l’immagine che noi abbiamo dell’euro. L’euro ha coinciso con un rallentamento della nostra crescita produttiva, anzi con lo stallo della stessa, però non è la causa. Vorrei brevemente dire perché e poi passare a quello che penso debba essere fatto per il futuro dell’Ue e in particolare nel semestre di presidenza italiana.
Se voi guardate questa slide (grafico 3, qui a lato), la crescita della produttività italiana si ferma intorno alla metà degli anni 90, e coincide con un rallentamento dell’Europa in generale, e un’accelerazione degli Stati Uniti. Tuttavia rimane un fenomeno abbastanza sconvolgente. Se noi decomponiamo il differenziale produttivo italiano in tre fattori – la specializzazione statica, la specializzazione dinamica (che chiamo “strategic”) e il gap produttivo (vedi grafico 4, prossimo capoverso) – vediamo che l’Italia si è sempre specializzata in fattori a bassa produttività, ma questo elemento non è peggiorato negli anni. Quello che è peggiorato è il gap produttivo che comincia ad emergere a metà degli anni 90. Se noi guardiamo la variazione settoriale della produttività, e la variazione della bilancia dei pagamenti dei vari settori, vediamo una nuvola praticamente confusa: questa nuvola confusa ci dice che non esiste alcuna correlazione tra i due fattori. Cioè non è vero che i settori particolarmente colpiti da competizione cinese o europea sono stati i settori che hanno visto rallentare maggiormente la competitività italiana.
La mia interpretazione è che il problema della crescita in Italia sia un problema principalmente dovuto alle difficoltà dell’Italia di adattare i vantaggi della rivoluzione tecnologica – quella che si chiama Information and Communication Technology. E questo secondo me è il vero nostro problema, non l’euro.
Se voi guardate la media dei consensi per l’Unione europea tra i paesi dell’Europa tradizionale, in tutti i paesi dell’“Europa a 6” il consenso verso l’Europa è sceso. Allora qual è la causa di questa riduzione di consenso? Secondo me è dovuto al modo in cui l’euro è stato introdotto. Esso è stato introdotto principalmente come una creazione politica, nonostante il fatto che non ci fossero le condizioni economiche strutturate per introdurlo. La teoria economica ci dice che un’area diventa un’area ottimale per avere una moneta comune, sotto tre condizioni: la prima è che sia relativamente simile dal punto di vista della specializzazione produttiva, per cui gli choc sono choc comuni all’intera area; il secondo fattore è che sia possibile un’ampia mobilità del lavoro; la terza che ci sia una redistribuzione fiscale per attutire i colpi delle varie aree. Nessuna di queste tre condizioni è presente in Europa.
Abbiamo una struttura produttiva molto diversa, per cui gli choc produttivi del Portogallo sono molto diversi da quelli della Finlandia; però per essere sinceri questo succede anche negli Stati Uniti, cioè il Texas e il Massachusetts hanno economie profondamente diverse. Quello che differisce è che negli Stati Uniti la mobilità dei lavoratori tra Texas e Massacchusetts è molto elevata. In Europa non solo questa mobilità è molto più bassa, ma è anche qualcosa che non si vuole incentivare, nel senso che la maggior parte degli italiani non vuole andare a vivere in Germania, né la maggior parte dei tedeschi vuole andare a vivere in Italia, quindi la tensione è elevata. E manca, anzi è quasi assente, il terzo fattore secondo me importante, quello di un aiuto fiscale ai paesi in difficoltà. Quando il Texas, un’economia molto petrolifera, alla metà degli anni 80 affrontò una crisi dovuta alla caduta dei prezzi del petrolio, i disoccupati del Texas ricevettero sussidi federali che li aiutarono ad affrontare il problema. E all’inizio degli anni 90, quando è stato il Massachusetts ad avere una crisi forte, il Texas invece era in un periodo di boom economico e perciò ha aiutato con le proprie entrate fiscali a pagare per i disoccupati del Massachusetts. Questo secondo me è quello che manca nel meccanismo odierno in Europa.
La scelta di entrare nell’euro ha avuto un enorme vantaggio per l’Italia: qui (nel grafico 5, qui a lato) faccio vedere quali sono i differenziali di tassi d’interesse pre e post-euro. Come sappiamo bene, questi differenziali si sono ridotti a livelli minimi dall’entrata dell’euro fino alla crisi finanziaria; e questa riduzione ha permesso una riduzione dei costi di finanziamento del debito pubblico che, se utilizzati opportunamente, avrebbero messo oggi l’Italia in una situazione diversa. Se noi avessimo utilizzato il risparmio dell’introduzione dell’euro non per aumentare la spesa ma per ridurre il debito – quindi non sto parlando di “tagli fiscali” ma semplicemente di non utilizzo degli avanzi dovuti alla riduzione dei tassi – oggi avremo un rapporto debito pubblico/pil dell’80 per cento e non del 130. Perciò noi abbiamo avuto un grosso vantaggio dall’entrata nell’euro, lo abbiamo sprecato, e oggi ci troviamo in una situazione estremamente difficile.
L’altro aspetto che secondo me è importante ricordare è che noi siamo entrati nell’euro come meccanismo di credibilità della nostra politica monetaria e della nostra politica fiscale. Se avete fatto gli studi classici, ricorderete l’esempio di Ulisse che si fa legare all’albero maestro della nave per non farsi attrarre dalle sirene, è un esempio bellissimo di quello che si chiama una politica di legarsi le mani in anticipo per un fine strategico. La nostra entrata nell’euro ha avuto esattamente questa funzione.
Questa è stata pensata contro un rischio di inflazione e di eccesso di spesa. Oggi però ci troviamo in una situazione molto diversa, dove i rischi maggiori sono i rischi di fallimento dello stato e di deflazione. Il grosso rischio è dire: noi ci siamo legati le mani per non fare certe strategie, però se Ulisse fosse andato contro gli scogli per colpa della strategia di legarsi all’albero, quella si sarebbe rivelata la strategia peggiore visto che sicuramente, finendo contro gli scogli, non si sarebbe potuto liberare. In qualche senso noi siamo oggi in questa situazione: da un lato abbiamo ottenuto grossi vantaggi che abbiamo sprecato, e dall’altro lato non abbiamo una flessibilità di cui abbiamo bisogno – di cui l’Europa avrebbe bisogno – in questo momento. Allora quali sono le cose che si possono fare in un semestre europeo a presidenza italiana per cercare di cambiare questa situazione? La mia visione è che senza un cambiamento radicale della politica europea, questa situazione non sia nel lungo periodo sostenibile. Dopo di che questo non vuol dire che non possa essere sostenuta per molti anni, ma se sostenuta per molti anni ha dei costi che vi illustrerò a breve. Allora, cosa si può fare?
Secondo me. ci sono tre canali importanti su cui operare. Il primo è molto semplice, è stato iniziato, ma non è stato realizzato in maniera corretta: ovvero come permettere una Unione bancaria che tratti tutti nello stesso modo. Qual è il problema? Lo sapete ormai tutti, c’è un circolo vizioso tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, per cui in un mondo in cui le banche hanno implicitamente un supporto da parte dello stato, gli stati ricchi hanno le banche solide, gli stati poveri hanno delle banche non solide. E delle banche non solide creano problemi economici che rendono gli stati ancora meno solidi; è un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Quindi l’idea di dire “facciamo un’assicurazione sui depositi a livello europeo”, come è stato iniziato con l’Unione bancaria, e “facciamo una vigilanza bancaria a livello europeo”, secondo me è corretta. Come è corretta la posizione tedesca di dire: “Noi non vogliamo semplicemente fare chi paga per gli errori altrui”. Il modo più corretto per risolvere questo problema è di recidere radicalmente questa connessione tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, e questa garanzia implicita dello stato nei confronti delle banche. Con un collega di Harvard, ho lavorato a un meccanismo di pronto intervento sulle banche per evitare che si arrivi alla situazione in cui gli stati devono intervenire. Se noi avessimo una situazione di “pronto intervento” uguale per tutti gli stati europei, avremmo due vantaggi: il primo, interromperemmo questa spirale tra banche e stati; secondo, metteremmo tutte le banche europee sullo stesso piano. Invece il meccanismo che ha prevalso nell’Unione europea è un meccanismo in cui inizialmente – è vero – sono i creditori delle banche a pagare il costo, però alla fine c’è anche un fondo comune e in parte però rimane la possibilità per gli stati di intervenire. Perciò oggi, implicitamente, le banche tedesche hanno una maggiore solvibilità delle banche italiane.
Ricordatevi che i tedeschi, che sono contro tutti i “bailout” (o salvataggi, ndr) degli altri paesi, hanno fatto un bailout enorme delle loro banche, specie di quelle locali, all’indomani della crisi. Queste banche erano piene di titoli tossici americani e lo stato tedesco ha trasferito un grosso ammontare di risorse verso tali istituti di credito. Quindi la prima cosa da combattere è questo sistema di due pesi e due misure. Di fronte alle difficoltà altrui i tedeschi dicono “no bailout”, e io sono il primo a sostenerlo; però poi, di fronte alle difficoltà proprie, questa legge cambia, e siccome se lo possono permettere loro fanno il bailout delle loro banche. Questo dà un vantaggio competitivo alle loro banche che poi si trasmette in un vantaggio competitivo a livello europeo, con conseguenze estremamente negative per quanto riguarda la nostra crescita economica.
Il secondo punto importante è un meccanismo di redistribuzione fiscale. Durante la crisi, in Italia c’è stata una forte pressione verso gli Eurobond. Questa mi pare una strategia sbagliata. Noi non possiamo, a livello europeo, andare a dire “voi dovete pagare i nostri crediti”, perché è una strategia che non funziona. Siccome nessun paese ha un grosso interesse a pagare i crediti altrui, noi possiamo chiedere quello che vogliamo ma non andremo da nessuna parte. Invece possiamo fare una differenza – e il semestre europeo a presidenza italiana per questo è un’enorme opportunità – dicendo: quello che noi vogliamo non è un meccanismo permanente di redistribuzione dal nord al sud, considerato che nessuno al nord vorrà questo meccanismo. Tuttavia un’area comune con una moneta comune deve avere dei meccanismi di stabilizzazione automatica con fondi comuni, quindi meccanismi che assicurino un certo “smoothing” del ciclo economico tra le varie aree europee.
Qual è il meccanismo automatico di stabilizzazione migliore che noi conosciamo? Sono i sussidi di disoccupazione; quindi la vera battaglia che noi come italiani dobbiamo fare durante il semestre europeo, è di dire: “Noi vogliamo un meccanismo di assicurazione della disoccupazione a livello europeo pagato con dei fondi europei”. Il bello di questo meccanismo è che non è un meccanismo permanente di trasferimento dal nord al sud. Ricordiamoci per esempio che nel 2004-2005 la Germania aveva molta più disoccupazione della Spagna, e quindi il trasferimento sarebbe andato dalla Spagna alla Germania e non viceversa. Tra l’altro i meccanismi di stabilizzazione funzionano in entrambe le direzioni; noi pensiamo sempre che i meccanismi funzionino solo per aiutare i paesi in difficoltà, ma i meccanismi funzionano anche per ridurre l’eccessivo riscaldamento delle economie in fase di espansione. Durante la prima metà degli anni 2000, la Spagna era in una bolla immobiliare con ritmi di crescita non sostenibili che causavano, a livello locale, una forte inflazione dei prezzi. Se in qualche modo ci fosse stata una tassazione europea per questo eccesso di crescita, essa avrebbe rallentato un po’ la crescita spagnola in quel momento, con un vantaggio nell’avere dei prezzi locali che non sarebbero saliti troppo e che quindi avrebbero reso più facile l’assorbimento in questi anni. Perché purtroppo quello che noi osserviamo, soprattutto in Spagna, è la necessità di una deflazione per compensare l’inflazione locale sviluppata nella prima parte degli anni 2000. Quindi la vera battaglia che noi dobbiamo fare a livello fiscale è per un meccanismo di assicurazione sulla disoccupazione a livello più europeo. Tra l’altro il grosso vantaggio di una iniziativa di questo tipo è anche di tipo politico, se posso permettermi di dirlo visto che io non sono un esperto in materia: nel senso che oggi l’Europa soffre una crisi di consenso generalizzato; nella misura in cui i disoccupati vedessero arrivare un assegno con il simbolo dell’Europa sopra, essi avrebbero una passione per l’Europa sicuramente molto maggiore di quella che è presente oggi. E di fronte agli estremismi che vedono l’Europa come una creazione di un’élite molto limitata, avere invece un meccanismo come quello di assicurazione contro la disoccupazione, riduce questo rischio.
Il terzo punto che è spesso ignorato ed è molto importante, riguarda chi e come disegna la regolamentazione. Naturalmente ogni paesi fa i suoi interessi; però essendo la Germania, e in parte la Francia, molto influenti, sia per dimensione sia anche per qualità del proprio personale burocratico, noi abbiamo oggi una situazione in cui la regolamentazione a livello europeo è una regolamentazione franco-tedesca. A differenza degli Stati Uniti, dove la regolamentazione centrale è molto limitata, per cui ogni stato fa la sua regolamentazione e compete, l’Europa ha scelto un meccanismo centralista per cui la stessa regolamentazione si deve applicare dalla Finlandia, alla Grecia e al Portogallo. Questo penalizza fortemente le nostre imprese, soprattutto le nostre piccole e medie imprese. Perché queste ultime non hanno la capacità di lobbying a livello europeo, non dico per volgere le norme a favore dell’Italia ma almeno affinché esse non vadano contro gli interessi delle imprese italiane. Quindi la terza cosa che andrebbe fatta in questo semestre è un ripensamento degli effetti competitivi della regolamentazione, soprattutto sulle imprese del sud Europa.
Per concludere, vorrei fare un’analogia pericolosa ma suggestiva. L’idea di Europa, dal mio punto di vista, è una meravigliosa idea, come l’idea di unificazione italiana fu a suo tempo una meravigliosa idea. Il problema però è che l’unificazione italiana fu fatta rapidamente da una piccola élite che la impose al resto della nazione; il risultato fu un dominio politico, economico del nord, in particolar modo del nord-ovest, sul resto d’Italia, con conseguenze economiche devastanti per il Sud. L’unificazione europea è molto simile: un meraviglioso ideale, portato avanti da una piccola élite che ha deciso di imporlo al resto del continente, non preoccupandosi del livello di consenso che questo aveva, con delle conseguenze che oggi l’Europa è principalmente un’Europa franco-tedesca che impone le sue regole al resto del continente, con conseguenze devastanti in quello che si chiama il Sud Europa. E siccome noi ora siamo tutti in questa situazione, il rischio di non cambiare queste regole, di non cambiare il modo in cui si gioca in Europa, è quello di avere una meridionalizzazione e una desertificazione dell’intera Italia. Il vero grande problema dell’Italia è l’emigrazione dei cervelli che ha assunto dimensioni enormi; io sono uno che è andato via 25 anni fa, in un tempo in cui voleva andare via soltanto chi voleva fare degli studi avanzati; oggi quando vado nelle scuole, la prima domanda che le persone mi fanno è “come posso andare via?”. Tutte le persone di un certo talento oggi cercano di lasciare l’Italia, ricorda esattamente il sud Italia della prima parte del Ventesimo secolo. E il risultato è stato devastante, un depauperamento di capitale umano da cui è difficile riprendersi.
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Alla metà degli anni 90, succedono tre cose molto molto importanti. La prima è l’introduzione dell’euro, con la fissazione dei cambi; poi nel 1999 c’è l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), il che apre le porte dell’Europa all’export cinese; infine c’è un aspetto che generalmente viene considerato come meno importante che è la Ict Revolution, cioè l’uso massiccio dell’economia digitale per cambiare anche i metodi produttivi.
La cosa interessante è che a metà degli anni 90 succedono due cose. Primo, gli Stati Uniti crescono più velocemente dell’Europa; mentre dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni 90 l’Europa cresceva in termini di produttività a dei livelli più elevati degli Stati Uniti, questo trend si inverte alla metà degli anni 90. Secondo punto: proprio in quello stesso momento, l’Italia rallenta e si ferma.
Sono legati questi fattori? Secondo me sì, ed è una difficoltà strutturale dell’economia italiana, per come è strutturata dal punto di vista produttivo, di proprietà e anche di abitudine alle regole e alla standardizzazione, che fa fatica ad accettare i benefici dell’economia digitale. Gli Stati Uniti sono i più bravi a farlo, l’Europa stenta, l’Italia è una forma estrema del male europeo. Questo dal mio punto di vista non ha nulla a che fare con l’Euro. Capisco che la coincidenza è suggestiva.
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Sugli aspetti di politica economica e del ciclo: noi abbiamo purtroppo una coincidenza della crisi strutturale con quella attuale. La prima comincia nel 1995, ma non ha niente a che vedere con la recessione attuale e niente a che vedere con mancanze di politiche di domanda. Comunque è una crisi che va in qualche modo risolta. In aggiunta a questa crisi strutturale, abbiamo una crisi congiunturale molto forte. La combinazione delle due ovviamente è devastante, perché una riduzione del pil del 10 per cento, dopo anni in cui già non crescevamo, porta a una forte riduzione del reddito pro capite. Com’è che si esce da questa crisi?
Secondo me la leva fiscale può essere utilizzata per alleviare temporaneamente il problema, ma non risolve i problemi di fondo. Il modo migliore è avere una medicina che ti curi nel breve periodo ma che non renda peggiore la malattia nel lungo periodo. Di fronte alle varie proposte che sono state menzionate, io sono sicuramente a favore di una detassazione come meccanismo per dare un po’ di respiro temporaneo. Perché il cuneo fiscale è di nuovo una politica di svalutazione con le conseguenze che questo ha in genere; per quanto riguarda gli investimenti, l’Italia ha sicuramente bisogno di investimenti di protezione del territorio, che credo lo stato debba e possa fare, mentre sono titubante verso una politica grandiosa di investimenti pubblici per due motivi.
Primo, inevitabilmente il livello di corruzione che questo porta. Un mio collega dell’Università della Pennsylvania ha dimostrato che la camorra è esplosa ulteriormente in Campania dopo il terremoto, perché gli investimenti pubblici e i trasferimenti pubblici alla Campania dopo il sisma dei primi anni 80 sono aumentati mostruosamente, e dove ci sono investimenti pubblici la criminalità prospera. In secondo luogo, la capacità dello stato di selezionare i settori vincenti per me non esiste. Parlare di espansione del ruolo dello stato in Italia è da masochisti: uno stato che non è in grado di amministrare la giustizia civile in tempi civili, che non è in grado di mettere in galera i criminali e fare le cose più basilari che uno stato di diritto deve fare, questo stato deve andare a selezionare i settori delle biotecnologie che avranno un futuro? Meglio ridurre la tassazione su lavoro e imprese e lasciar individuare al mercato come cambiare.
Ovviamente la crescita è il meccanismo che risolve tutti i problemi, però dobbiamo stare attenti perché la crescita nasce fondamentalmente da tre fattori: il primo è la crescita della popolazione, il secondo è la crescita della forza lavoro rispetto alla popolazione, il terzo è la crescita della produttività. L’Europa, come sappiamo, ha una crescita della popolazione che è zero o negativa, e questo ha un effetto negativo sulla crescita; il livello di crescita degli anni 60, se noi scomponiamo quel dato, era dovuto ai tre fattori, cioè tutte e tre le cose andavano nella direzione giusta. Oggi abbiamo l’andamento demografico che rema contro. Potremmo fare di più in termini del rapporto tra forza lavoro e popolazione totale, soprattutto in Italia, dove abbiamo una partecipazione femminile molto bassa, e qui c’è un discorso culturale, e anche il trattamento sul posto di lavoro dell’universo femminile, perché oggi in Italia le donne sono fortemente discriminate e fortemente demotivate ad entrare nella forza lavoro. Infine c’è il terzo fattore da tenere presente, cioè la produttività. Com’è che si risolve il problema della produttività? Sicuramente non si risolve con una politica continua di sussidi o di spesa pubblica. Un aumento della domanda interna può avere temporaneamente un effetto positivo, e secondo me deve averlo, ma nel lungo periodo non cambierà le cose in maniera radicale.
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Dato che siamo nell’euro, è possibile uscirne a dei costi limitati? La mia visione è “no”. Ovvero l’unica possibilità relativamente non traumatica sarebbe un’uscita del nord Europa dall’altro. Ovvero la Germania e l’area tedesca che abbandona l’euro creando un euro diverso, più forte, che si rivaluta rispetto all’euro esistente. Non so se sia la strategia giusta, e soprattutto non so se l’euro del sud sopravviverebbe come moneta comune o si disgregherebbe. Però la transizione sarebbe più facile. In ogni caso, la transizione sarebbe molto costosa, e dobbiamo domandarci quali sarebbero i benefici. In un paese come l’Inghilterra, che ha una tradizione di moneta indipendente, la flessibilità del cambio ha aiutato mostruosamente durante la crisi. Se l’Inghilterra non avesse potuto svalutare il 30-40 per cento rispetto all’euro, oggi sarebbe in una situazione molto peggiore di quella in cui è. Il vantaggio dell’Inghilterra è però che si è permessa, ha svalutato solo quando ne aveva bisogno, e non come politica strutturale continua, come ha fatto l’Italia negli anni 70 e 80. Come politica strutturale continua, è pericolosa e induce alla specializzazione sbagliata. Quindi secondo me sarebbe la soluzione sbagliata. Avere la flessibilità di usare il cambio solo in alcuni momenti, è un grande vantaggio; è un grande vantaggio che noi abbiamo dato via, ma abbiamo dato via a ragione perché l’abbiamo usato male, e non avevamo la credibilità di usarlo solo bene. L’esempio inglese è un esempio di un paese con un’enorme credibilità. Purtroppo per motivi storici il nostro paese questa credibilità non l’aveva, ma oggi saremmo un paese a rischio di continue svalutazioni; perciò la soluzione non è in questo momento l’uscita dall’euro, specialmente un’uscita unilaterale che sarebbe devastante.
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Che cosa sarebbe successo se noi non fossimo entrati nell’euro?
 Probabilmente l’Italia sarebbe fallita prima: ricordatevi – e qui torno ai grafici precedenti – che prima dell’introduzione dell’euro noi pagavamo un tasso di interesse reale molto elevato; quel tasso di interesse reale, con quel debito, non era nel lungo termine sostenibile. Noi abbiamo fatto degli errori su come entrare nell’euro, non a entrare nell’euro. Il mio collega Merton Miller, premio Nobel purtroppo defunto, all’epoca disse che il problema dell’Italia è il seguente: è entrata nell’euro, aveva fatto delle promesse in lire e le ha tramutate in promesse in Deutsche Mark, senza fare alcun taglio a queste promesse. Questo è il vero problema. Cioè noi avevamo un debito, delle pensioni, tutto pensato per una moneta che in prospettiva valeva sempre meno perché costantemente svalutata. L’abbiamo trasformata in una valuta fissa, pesante, quella generazione si è presa un vantaggio enorme a scapito delle generazioni future. Perché le nuove generazioni se ne vanno? Perché la generazione precedente si è presa tutti i vantaggi, dopo aver lasciato i costi a quelle esistenti.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/21558

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