Storia di un’agenda sviluppista e di risposte non pervenute
Perdere le illusioni? Terribile, ma peggio ancora è perdere le occasioni. Gli ultimi otto mesi sono una sequenza impressionante di chance gettate al vento. E’ vero, le esportazioni manifatturiere hanno ripreso a muoversi. Smaltite le scorte, molte imprese ricominciano a produrre e riducono, sia pur lentamente, la cassa integrazione. L’Italia, però, cammina più lenta di una lumaca, la produttività langue e con essa il reddito pro capite. Sono questi i macigni che portano in basso la fiducia nella possibilità di far fronte alla servitù del debito.
Quando il Foglio iniziò a parlare di “frustata”, nel gennaio scorso, in molti, troppi, si baloccavano ancora con l’idea che il paese galleggia comunque, guscio di noce nella tempesta. Un primo segnale di svolta era arrivato sul mercato del lavoro. L’ad di Fiat, Sergio Marchionne, aveva girato l’interruttore, a modo suo, da amerikano. Per più di un mese, a cominciare dalla prima settimana di dicembre, questo giornale ha ospitato decine di interviste, articoli, interventi polemici e contributi positivi. Non tutto convince nella “rivoluzione Marchionne”, ma la cosa peggiore era far finta di niente. Come invece è avvenuto. La responsabilità ricade anche sugli imprenditori, a cominciare dalla Confindustria. Marchionne propone ritmi, orari, efficienza germanica e salari tedeschi. Un bluff? Sempre meglio giocare fino in fondo la mano e dire vedo. Oggi il ministro dell’Economia parla di “libertà di licenziare”, addirittura. Non era meglio cominciare a discuterne allora? Lo stesso vale per la “scossa” in senso liberalizzatore proposta dal Foglio nel gennaio scorso. Un termine che aveva suscitato il sorriso di chi oggi vuole non solo altri tagli, ma nuove tasse.
A volte ritornano, come certi arnesi mai dismessi: l’euro-imposta di prodiana memoria o la patrimoniale rilanciata da Giuliano Amato che nel 1992 l’attuò d’imperio sui conti correnti e sulla casa. Inutile ricordare, citando studiosi seri e senza pregiudizi nei confronti della sinistra, che il prelievo forzoso non servì a salvare la lira né a rilanciare l’economia. La patrimoniale finanziaria portò appena 5.600 miliardi di lire nelle casse dello stato. I mercati si allarmarono ancora di più, la speculazione si accanì. La sequenza temporale è impressionante e non va mai dimenticata. A luglio c’è la patrimoniale. Ad agosto la lira raggiunge il punto minimo verso il marco. La Banca d’Italia resiste e per difenderla perde 48 miliardi di dollari falcidiando le proprie riserve. Il 16 settembre viene sospeso il cambio. Il giorno dopo Amato vara una manovra da 93 mila miliardi di lire. “Inutile, inefficace, iniqua”: così, secondo l’economista Alessandro Penati, è la patrimoniale che colpisce solo i contribuenti che già pagano, i ceti medi e non i ricchi.
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Una manovra sviluppista usando il fisco, invece, per il Foglio era ed è possibile. Anche su questo il giornale ha raccolto pareri e proposte, nella maggioranza e fuori (Antonio Martino -Francesco Giavazzi - Alberto Quadrio Curzio - Alberto Alesina - Vito Tanzi - Victor Uckmar -Giorgio Tonini ). L’idea di spostare progressivamente il prelievo dai redditi ai consumi, di finanziare una riduzione dell’Irpef attraverso l’Iva a parità di gettito, ma con una spinta espansiva che incrementa automaticamente le entrate, ha raccolto consensi, rimasti sulle pagine del quotidiano. Adesso si sente parlare di rincarare dell’un per cento l’Iva; un aggravio netto, senza incentivi dalla parte della produzione e del lavoro. Otto mesi fa, era possibile avviare tutt’altra operazione. Occasione perduta, anch’essa. Come le liberalizzazioni.
Dopo un paio d’anni di polemiche ideologiche contro i mercatisti, alla fine vince l’evidenza: solo aumentando la concorrenza e allargando il mercato si riesce ad abbassare i prezzi dei servizi e migliorare l’efficienza. Nella seconda metà degli anni 90 è stato avviato un ingente processo di privatizzazione dell’impresa pubblica, guidato dalla necessità di far cassa. Quindi senza un vero progetto industriale e soprattutto senza prima aver liberalizzato i mercati. Risultato: la cassa è stata prosciugata dal ritorno delle spese assistenziali, mentre ai monopoli pubblici si sono sostituiti monopoli privati. Non sempre e non ovunque, ma nella sostanza è così, lo lamenta ogni anno l’autorità per la concorrenza. Adesso si vuol ripetere anche questo errore? Vendere altre quote dell’Eni e dell’Enel, o le municipalizzate, è importante se si accompagna a quella apertura che finora è mancata.
Qualche segnale il governo l’ha mandato, ad esempio l’apertura dei negozi la domenica. Ma insieme ad altri passi indietro, come sulle professioni, sotto la spinta di lobby e gruppi di interesse potenti. Una pressione che già si sente sulle pensioni. Anche in questo caso, sarebbe stato meglio discuterne in modo sereno otto mesi fa. E’ vero, il governo ha avviato un percorso virtuoso che dal 2014 lega l’età pensionistica alla dinamica demografica. Occorre, però, anche una soluzione di breve periodo, anticipando il percorso, un segnale importante e un risparmio considerevole dal lato delle spese. Ora se ne riparla, sotto i colpi della speculazione finanziaria, con la Lega contraria e i sindacati divisi. In realtà, si poteva benissimo preparare un ampio consenso su una proposta non punitiva. E’ vero che sono stati fatti miglioramenti considerevoli: per la prima volta la spesa corrente si ridurrà quest’anno in rapporto al prodotto lordo. Ma la cadenza del passo è ancora lenta. C’è bisogno di accelerare e mettere in sicurezza il bilancio. Una considerazione di buon senso. Eppure un’altra occasione perduta. Fino a quando?
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