lunedì 14 gennaio 2013

Così Blanchard è diventato l’icona dell’anti austerity, di Michele Masneri


Ritratto di un contrarian

Economista francese del Fmi e bestia nera di Merkel. I ricordi di Giavazzi

Keynesiano, scorretto, controcorrente. Socialista con tratti liberisti. Anti austerity, sempre. Non ha stupito più di tanto nei giorni scorsi l’ennesimo intervento di Olivier J. Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, sui danni che le politiche di austerità avrebbero provocato in questi anni. In un paper intitolato “Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, l’economista ha ammesso che il moltiplicatore fiscale, cioè il rapporto tra tagli al deficit e diminuzione della crescita, è molto più alto di quanto si pensasse. Una conferma di quanto il Fmi a guida tecnica di Blanchard aveva già annunciato a ottobre, suscitando un putiferio. Sia scatenando conflagrazioni politiche non secondarie – il Portogallo che corre a ammorbidire i suoi obiettivi di bilancio proprio grazie alla nuova dottrina Blanchard – sia provocando incrinature nella Troika (Bce, Fmi e Commissione europea) e costringendo Bce e Commissione a sconfessare la sua analisi. Intanto Blanchard diventa testimonial degli sviluppisti e di economisti radical: nuovo guru del silenziando Stefano Fassina, responsabile economico Pd, che considera la svolta Fmi di ottobre come le colonne d’Ercole del pensiero liberista.
L’economista francese, uno dei più stimati studiosi di macroeconomia a livello mondiale, non è nuovo a posizioni creative. I suoi contributi principali riconosciuti in dottrina sono due: una modernizzazione del pensiero keynesiano, con l’integrazione del tema delle aspettative; e gli studi sull’origine della disoccupazione in Europa. Ma i suoi interventi più gustosi sono quelli più “politici”, e  riguardano soprattutto la lotta al “sacro graal” anti inflazionistico al quale si abbevera la Troika. Blanchard, sessantaquattro anni, nativo di Amiens, studente all’Università di Lilla, allievo e poi seguace dell’ex premier Lionel Jospin, e suo consulente, fu chiamato al Fmi da Dominique Strauss-Kahn. E’ francese ma soprattutto americano, avendo ottenuto un dottorato al Mit di Boston, ateneo dove attualmente insegna Macroeconomia. Molto americano è anche il suo modo di gestire il doppio ruolo di membro Fmi e di pubblicista non felpato. Seppure il chief economist del Fondo sia – come dice un suo collega parlando con il Foglio – in realtà più un super consulente che non un dirigente della “ditta”, con obblighi di riservatezza, si può dire che Blanchard ha sempre utilizzato questa libertà con la massima disinvoltura.
Prima dell’abiura sul moltiplicatore fiscale, l’uscita anche più clamorosa fu nel 2010,quando pubblicò uno studio insieme a Giovanni Dell’Ariccia, “Rethinking Macroeconomic Policy”, in cui sosteneva che in tempi di crisi si può barattare un po’ di inflazione per un po’ meno depressione e che è assurdo rimanere impiccati a un 2 per cento (il target scolpito nelle tavole di Francoforte), mentre sfondare quota 4 per cento non porterebbe alcuna catastrofe ma solo un po’ di pil in più. Keynesismo in purezza, e una vera bomba atomica soprattutto perché proveniente da un esponente della Troika che impone ricette lacrime e sangue in giro per il mondo. Ma coerente col pensiero blanchardiano, che nei suoi paper (e negli articoli non paludati su Libération) da sempre piccona sull’ortodossia di Francoforte.
Già a fine anni Novanta, prima dell’introduzione dell’euro, metteva in guardia da una futura Bce più realista del re che “ritiene che l’unico modo per garantirsi credibilità è quello di adottare una politica estremamente severa. Il che è sciocco”. Francesco Giavazzi è stato compagno di studi di Blanchard al Mit, oltre che curatore della versione italiana della celebre “Macroeconomia” edita dal Mulino. Giavazzi ricorda come “formidabili quegli anni” tra il 1974 e il 1978, quando sotto le querce bostoniane studiavano economia un gruppo di ragazzi tra cui lo stesso economista della Bocconi, Blanchard, l’attuale governatore della Fed, Ben Bernanke, quello della Bce, Mario Draghi, e il premio nobel Paul Krugman; figura quest’ultima che per appartenenza liberal e verve pubblicistica spesso viene accostata a Blanchard. Giavazzi però vede poche somiglianze; perché il commentatore del New York Times e premio Nobel appare più ideologico, mentre Blanchard anche nelle sue uscite recenti porta sempre contributi scientifici empirici, anche se “recentemente è diventato più keynesiano degli inizi”.
Il professor Giavazzi dissente anche sul tema dell’austerità; lo ha scritto in diversi studi insieme all’economista dell’Università di Harvard, Alberto Alesina. La posizione dei due economisti italiani è che in realtà il moltiplicatore fiscale non sia ancora stato abbastanza studiato. Se sul moltiplicatore in negativo delle tasse Alesina e Giavazzi sono d’accordo con Blanchard – un punto di pressione in più fa scendere il pil in misura maggiore di uno –, su quello simmetrico (e che si vorrebbe positivo) della spesa, secondo i due economisti non siamo distanti dallo zero. Detto altrimenti: i tagli alla spesa non trascinano così in basso il pil. La versione Mulino della “Macroeconomia” non è l’unico legame che Blanchard ha con l’Italia. L’economista tenne le sue “Lezioni Paolo Baffi” molto acclamate nel 1998. Alle lezioni in onore dello storico governatore della Banca d’Italia, il chief economist del Fmi venne invitato in quell’anno con molto entusiasmo dal Comitato scientifico – dove poi è entrato e oggi siede accanto all’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, che ne è presidente – ma un rapporto di stima lo legava soprattutto all’allora governatore Antonio Fazio. In un’intervista al Sole 24 Ore, Blanchard si trovò a tesserne gli elogi. Esprimendo i suoi dubbi sulla futura struttura della Bce, l’economista diceva che “non è questione di nomi. Non mi fiderei di Jean-Claude Trichet – allora numero uno della Banca di Francia – né di Duisenberg. Forse mi fiderei di più di Antonio Fazio e della Banca d’Italia”. Non si trattò solo di una frase di cortesia verso il suo ospite romano. Come spiega al Foglio un esperto di via Nazionale, Blanchard era molto ammirato della politica monetaria messa in atto in quegli anni da Fazio.
Si veniva infatti dalla crisi messicana del 1995-1996, vi erano alte aspettative inflazionistiche, il quadro generale era pericolante e l’Italia non faceva eccezione, anzi era nel mezzo di una pericolosa crisi strutturale. Lo spread, allora tema per specialisti, era quasi a quota 800, con il paese già alle prese con un debito-monstre. Fazio, grazie al potere decisionale ancora detenuto da Bankitalia, mise in atto una decisa politica monetaria restrittiva, intervenendo sui tassi ma anche sulle riserve bancarie, e attivandosi con una forte moral suasion sulle banche e sul Tesoro perché acquistassero titoli di stato. Ciò contribuì a far sì che in un anno lo spread con i titoli tedeschi scendesse da quasi 800 a 300 punti.
In quel ciclo di lezioni, Blanchard trattò del mercato del lavoro in Europa. Anche qui, posizioni non scontate e non ortodosse. La sua teoria è che per crescere, l’occupazione ha bisogno di avere un mercato del lavoro flessibile, altrimenti choc temporanei diventano strutturali. Lungi dall’essere solo un teorico, Blanchard tradusse per le masse il concetto: parlando della disoccupazione italiana, disse che il vero problema era il divario tra nord e sud, e che per superarlo bastava semplicemente “accettare salari più bassi nel mezzogiorno: una strada difficile dal punto di vista politico, ma non economico”.

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