mercoledì 9 gennaio 2013

Crisi e destre nel mondo, di Antonio Pilati


In occidente oggi i conservatori le prendono. Perché? Dipende dalla struttura economica traumatizzata. Individuo e mobilità in affanno, vince la tutela di stato

In almeno cinque fra gli stati che componevano il G7 e tuttora costituiscono le principali economie dell’occidente, l’area politica di centrodestra è consegnata da tempo a una fase di scontri interni, divisioni entro la base sociale, altalene elettorali (ma prevalgono gli insuccessi). Il fenomeno appare troppo diffuso per essere classificato come una fortuita sommatoria di casi nazionali e forse può essere letto come il riflesso politico di una crisi – economica in primo luogo ma anche ideologica e istituzionale – che incide con maggior forza sulle classi medie e in generale sul retroterra sociale del mondo conservatore e liberale (nel senso continentale).
Sulla scena europea la Francia, all’indomani della sconfitta di Sarkozy, registra entro la destra di governo un’aspra frattura, strategica quanto personale, che replica e aggrava il conflitto endemico con la destra lepenista di protesta; l’Italia vive gli spasmi di dissoluzione dell’area che aggregava il 40 per cento dei votanti e ora, frantumata la sintesi berlusconiana, si divide fra opzioni antitetiche (ortodossia germanica condivisa dalle classi dirigenti contro adesione all’irritato scoramento popolare); la Gran Bretagna vede di nuovo i Tory dibattersi, con crescente acutezza in concomitanza con lo sbandamento continentale, nella divergenza fra tradizione oceanica e integrazione europea. In tutti e tre i paesi il nesso fra sentimento popolare – l’anima profonda della nazione – e visione strategica dell’establishment, che da sempre costituisce il cuore della politica di centrodestra e ne eleva il partito leader a forza-cardine del governo, si sfrangia e lascia i vari gruppi interni oscillanti e incerti. Casi diversi sono Spagna e Germania: nella prima il Partito popolare di Rajoy si mantiene piuttosto coeso, ma la tensione si trasferisce nelle aree non castigliane dove l’impulso secessionista si rafforza e mette a rischio la stessa unità nazionale, mentre nella seconda la condizione di stato egemone imbriglia, tenendole sotto la soglia di guardia, le spinte di classe media avverse alla linea Merkel sul tema dell’euro e compatta la nazione intorno a una visione che coniuga molti vantaggi materiali e una soddisfatta superiorità morale.
Fuori dall’Europa, gli Stati Uniti sperimentano un contrasto acuto, che non riesce per ora a comporsi in sintesi politica, come mostrano le presidenziali di novembre, tra gli impulsi prevalenti nella base popolare del Partito repubblicano, colmi di rivolta antitasse e revival dei motivi della tradizione, e la propensione centrista, incline alla manovra politica e alla salvaguardia di interessi settoriali, che domina fra le élite del mondo conservatore, mentre il Giappone, che manifesta un ciclo temporale sfasato rispetto agli altri paesi (la crisi si è avviata con largo anticipo), ha già vissuto il periodo di sbandamento del centrodestra e ora ne cristallizza, in un quadro di larga supremazia nazionalista innescata dalla crescente tensione aggressiva della Cina e dalla confusa prova di governo del centrosinistra, la duplice offerta politica che include la versione pragmatica dei liberaldemocratici (maggioranza assoluta alle elezioni di dicembre) e quella nuova e radicale dell’ex governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara (11 per cento dei voti).
Perché la crisi dell’economia colpisce i partiti di centrodestra così duramente? Le sconfitte si tramutano in tracolli dell’impianto ideologico (McCain 2008; Ldp 2009; Berlusconi 2011; Sarkozy 2012), i successi, dovuti soprattutto alla fase favorevole del ciclo elettorale (sinistra al governo nel momento più pesante della crisi), sono vittorie dimezzate e fragili (Cameron senza maggioranza costretto all’accordo con la sinistra liberale e pressato dai nazionalisti antieuropei; Rajoy ferito e quasi affondato dal rilancio separatista), la base sociale si scompone quasi subito. Al confronto il centrosinistra regge molto meglio: Obama ottiene nel pieno della crisi una netta riconferma, Hollande vince facile (e Bersani sembra avviato a fare altrettanto), Ed Miliband riorganizza i laburisti con rapida efficacia dopo il difficile periodo di Gordon Brown; a parte il Giappone, solo la Spagna vede un’eclissi duratura della sinistra. Una risposta facile ricorda che la sinistra, dalle origini, si organizza per tutelare il quarto stato da condizioni avverse: il disastro della crisi la riporta alle fonti d’ispirazione. Una risposta meno facile ma complementare rimarca che la recessione appare avviata soprattutto da errori delle banche e che gli stati, anche se largamente responsabili (ma questo è meno visibile) e gravati di debito, dispensano comunque rassicurazione, speranze e cash (non nell’area euro).
Tuttavia ciò che conta è la lacerazione nel nucleo ideale della politica di centrodestra: la crisi logora le condizioni essenziali su cui per molto tempo si è retto il patto fra establishment e classi medie della produzione e delle professioni. Da un lato si dissolve l’idea secondo cui l’ascesa sociale è possibile e il singolo grazie ai propri sforzi può sempre migliorare status perché a chi applica con tenacia il suo talento si schiude in un modo o nell’altro il vasto campo di opportunità insite nella società aperta. Dall’altro lato diviene incerta e si consuma di giorno in giorno la visione confortante di essere parte di una nazione (o di un contesto di nazioni, come in Europa) che sa porsi come guida materiale ed esempio morale per il resto del mondo: la crisi e il debito si formano soprattutto negli Stati Uniti e si acuiscono in Europa, la Cina e in generale i Bric trainano a lungo l’espansione mondiale e assorbono una parte ingente del debito. In questa duplice erosione finisce quel patto di sviluppo fra individuo e sfera pubblica che nel Dopoguerra ha guidato la crescita in occidente e che i partiti maggiori del centrodestra hanno sancito quali garanti ideologici e promotori pratici rinnovandone contenuti e promesse durante i grandi cambi di fase dell’economia (Thatcher e Reagan al debutto della rivoluzione digitale; Berlusconi al tramonto dei governi di debito e clientela).
Senza il tessuto connettivo fornito dalla prospettiva dell’espansione individuale e da un sentimento di rassicurata (Welfare) appartenenza le polarità ideologiche e sociali che formano il campo d’azione dei partiti di centrodestra si separano e la sintesi politica che finora le ha tenute insieme va in pezzi. Sono almeno tre le polarità che entrano in tensione. La principale è quella che oppone la protesta sociale delle classi medie, sospinta dall’aumento del debito pubblico e della tassazione che cerca di tamponarlo, alla responsabilità politica che vuole mantenere l’attuale assetto dello stato, messo sotto pressione da più parti (demografia e banche in primis), anche mediante un uso pesante dello strumento fiscale. Al fondo riecheggia un contrasto antico, soprattutto negli Stati Uniti, quello fra il buon senso di Mr. Smith, l’uomo comune, e il sapere ingannevole di chi sta a Washington. La protesta stile Tea Party lascia sfocato sullo sfondo il tema cruciale della forma stato in un’epoca di demografia sfavorevole e quello connesso della sicurezza che promana dalla garanzia pubblica e costituisce oggi il principale freno ai tagli di spesa (ovvero alla loro accettazione su larga scala), ma dall’altro lato l’ala centrista della responsabilità trascura la perdita di legittimità di un apparato pubblico che all’interno continua a estendere funzioni, all’esterno perde rilievo e nel nesso con l’economia inceppa, a causa dei propri costi, la produzione di ricchezza. Senza la prospettiva dello sviluppo le due visioni restano incomplete, confuse e – soprattutto – non riescono a ritrovarsi: sotto la pressione della crisi la visione politica perde capacità di integrazione, non fa più sintesi.
La seconda polarità ora sconnessa è quella fra orizzonte largo (mondiale) e orizzonte stretto, ripiegato all’interno. Declinata in forme diverse a seconda dei paesi e della loro storia, l’antitesi concerne il tema della vocazione internazionale, ovvero dell’integrazione con l’esterno: i partiti di centrodestra hanno quasi sempre enfatizzato il ruolo della propria nazione nel mondo propugnando, nelle forme dettate dai tempi, un’essenziale dimensione internazionale (in Europa concepita nella forma dell’integrazione comunitaria, negli Stati Uniti espressa con la formula del Manifest Destiny); nell’ultimo lustro tuttavia, sotto la spinta della crisi, riprendono forza tendenze in passato laterali – isolazioniste negli Usa, localiste in Europa. Quando il pericolo si riassume nell’idea di contagio, allora l’integrazione appare una minaccia e la dimensione globale della finanza – spesso vista come il reale agente patogeno – spinge a guardare con sospetto i nessi dei mercati e delle alleanze.
L’ultima polarità contrappone centralismo e federalismo, rafforzamento dello stato – che per tutelare meglio razionalizza concentrando – e diffusione dei poteri verso il basso, a minore distanza dai cittadini. Di fronte alla crisi che toglie certezze e diffonde scoramento, il sentimento collettivo muove in direzioni diverse: da un lato verso la garanzia centralista (previdenza, tutela del lavoro), dall’altro verso un rapporto intensificato con i sistemi pubblici (regioni, comuni) a più diretto contatto. Il risentimento nei confronti dello stato che diventa più costoso e meno largo di prestazioni si esprime anche come ritorno alle radici locali: in quanto partiti della nazione che da sempre si identificano con lo stato e valorizzano le tradizioni storiche, le formazioni maggiori del centrodestra vivono con particolare intensità questa divaricazione.
La crisi, che si manifesta da anni come un drammatico fatto economico, ha – nei moventi e nelle origini – un’essenza del tutto politica. Si forma con le enormi iniezioni di liquidità decise dalla Fed di Greenspan per evitare svalutazioni degli asset e scoppi delle bolle gonfiate a ripetizione dalla fine del secolo scorso, con i programmi per estendere al di là della classe media la platea americana dei proprietari di casa e infine con l’intesa di politica economica fra Stati Uniti e Cina (irruzione asiatica sui mercati mondiali compensata da acquisti su larga scala di titoli del debito americano). Queste scelte, intensamente politiche, costituiscono la risposta traballante ma sistemica agli sconvolgimenti indotti dalla rivoluzione digitale con la sua fortissima accelerazione tecnologica, all’evoluzione dei mercati verso dimensioni globali con l’ingresso nel circuito ormai illimitato della produzione di miliardi di persone e milioni di nuove imprese, alla concorrenza globale che diventa sempre più acuta e dissolve o mette in tensione una parte rilevante degli assetti industriali dell’occidente. E’ una risposta, fondata sull’espansione del debito, che dura per anni, ma alla fine, quando nel decennio scorso incontra inevitabili limiti strutturali, travolge in gran numero i suoi sostenitori, soprattutto quelli di prima fila: classi medie, ceti imprenditoriali, promotori politici.
La rivoluzione digitale, alla fine degli anni 70, prolunga e rivitalizza non solo il ciclo quasi trentennale di espansione economica avviato in occidente con la ricostruzione del Dopoguerra e bloccato dagli choc petroliferi ma anche il suo sostrato socio-politico, ossia quel modello di convivenza civile basato su consumi in crescita costante, classe media in estensione e pervasivo ruolo dei media come organizzatori dell’esperienza di vita. Oggi, dopo trent’anni di innovazione e quindici anni di risposte politiche nocive, questo mondo è frantumato: il debito, Google, la mutazione mondiale dell’industria lo disgregano di giorno in giorno. Lo sbandamento è forte soprattutto sul fronte sociale, dove incidono l’indebolimento e la dispersione anche ideale della classe media. Le origini politiche della crisi sboccano per questa via in conseguenze politiche: è avviato un aspro e lungo periodo di transizione, scandito dall’emergenza, che sarà superato solo quando un ciclo innovativo fresco (ingegneria genetica, robot, spazio) saprà organizzare praticabili sistemi d’uso (nella medicina come nella vita quotidiana ciò sembra ancora lontano) e vitali modelli di business – qualcosa di simile a una seconda rivoluzione digitale. Solo allora, a quest’altezza della trasformazione strutturale, la convivenza civile, ossigenata di nuovo da un orizzonte espansivo, potrà lasciare alle spalle la delusione e ritrovarsi in una piattaforma di speranza capace di alimentare una demografia diversa da quella attuale. Fino ad allora appare un’impresa difficile per i partiti di centrodestra, che hanno incarnato il modello civile ora logorato, recuperare una sintesi politica e riprendere il ruolo centrale di garanti della comunità nazionale in crescita.

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