La seconda puntata del saggio del professor Guarino
Indagine giuridica attorno a un codicillo illegale che ha frenato la nostra economia dal 1999. Effetti economici e politici di una decisione presa nelle stanze di Bruxelles. Una svolta in stile rivoluzione francese o bolscevica, col feticcio della stabilità
Quella di oggi è la seconda puntata di un lungo saggio “no euro” scritto dal professore Giuseppe Guarino. (La prima puntata l’abbiamo pubblicata ieri sul Foglio, la terza e ultima uscirà domani). Guarino, subito dopo la Seconda guerra mondiale, divenne uno dei primi ordinari di Diritto pubblico nel 1953. Insegnò a Sassari (suo assistente fu anche Francesco Cossiga), poi a Napoli, infine alla Sapienza di Roma. In politica fu con la Democrazia cristiana, e proprio con il sostegno della Dc divenne ministro delle Finanze nel 1987 e dell’Industria nel 1992-’93.
Secondo il giurista, il tentativo comunitario di creare una moneta unica a immagine e somiglianza del marco, deragliò presto. In prima battuta, infatti, il Trattato di Maastricht aveva assegnato agli stati l’obiettivo fondamentale di perseguire “la crescita”, offrendo loro anche la possibilità di indebitarsi (a certe condizioni stringenti). Poi però, a ridosso della creazione dell’euro, la Commissione stilò un regolamento, il numero 1466/97, che contraddiceva lo stesso Trattato di Maastricht, spingendo gli stati sulla strada rigorista del pareggio di bilancio a ogni costo. Per Guarino si è trattato di un “golpe”, tecnicamente inteso: i Trattati furono di fatto cambiati, senza dibattito pubblico e senza nemmeno seguire le procedure giuridiche corrette. Stesso discorso, per Guarino, si è ripetuto di fatto con il Fiscal compact siglato dai capi di governo nel 2012.
Il saggio rifugge accuse generiche e complottistiche, è ricco di tesi e argomentazioni controllabili, dunque falsificabili. Alla vigilia del voto europeo, e in una fase convulsa del processo di integrazione comunitaria, una buona lettura per euroscettici ed euroentusiasti, purché consapevoli. (mvlp)
La differenza tra il Trattato sull’Unione europea (Tue, o Trattato di Maastricht) e il regolamento 1466/97 attiene al vincolo che nelle discipline occupa la posizione “centrale”. Il Tue fissa un obiettivo, uno sviluppo conforme al disposto dell’articolo 2, il cui conseguimento è affidato alle politiche economiche di ciascuno degli stati membri, ciascuna delle quali avrebbe dovuto tenere conto della specificità delle concrete condizioni della economia del proprio paese. Le politiche economiche avrebbero potuto utilizzare all’occorrenza, quale strumento per realizzare l’obiettivo, l’indebitamento nei limiti consentiti dall’art. 104 c), da interpretare e applicare in conformità ai criteri fissati negli alinea e nei commi 2 e 3 del punto 2 dell’art. 104 c).
Il regolamento però abroga tutto questo. Le politiche economiche degli stati sono cancellate. E’ cancellato conseguentemente qualsiasi apporto degli stati. Il ruolo assegnato dal Tue [art. 102 A, 103 e 104 c)] all’obiettivo dello sviluppo, che l’attività politica degli stati avrebbe conseguito, realizzandolo in conformità a quanto prescritto negli artt. 2 e successivi del Trattato, è cancellato. All’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato consistente nella parità del bilancio a medio termine. Gli stati, secondo il Tue, avrebbero conseguito l’obiettivo, valutando nella propria autonomia i limiti, le condizioni e le strutture del proprio paese. Il grado di conseguimento sarebbe stato necessariamente diverso da paese a paese, e per ciascun paese di anno in anno. Il risultato che il regolamento sostituiva all’obiettivo avrebbe dovuto invece essere eguale per tutti i paesi e in tutti gli anni per ciascun paese. Se le strutture o le condizioni monetarie non avessero consentito di conseguire la crescita, la politica economica dello stato ne avrebbe tenuto conto. All’opposto, nella disciplina del regolamento, se strutture o condizioni avessero ostato alla realizzazione del “risultato” della parità, si sarebbero dovute modificare le strutture e incidere sulle condizioni, non si sarebbe potuto venire meno all’obbligo perentorio della parità nel bilancio. Un totale capovolgimento, dunque, nel rapporto tra moneta e realtà. Secondo il Tue, se vi è contrasto, è la gestione della moneta a doversi adeguare alla realtà. Secondo il regolamento, è la realtà che deve adeguarsi alla moneta.
Qui potremmo anche fermarci. Ai fini della dimostrazione che al 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati una moneta diversa da quella progettata da Pöhl, Delors e Carli, quanto detto è più che sufficiente. La moneta, quale disciplinata dal Tue, era stata giudicata dal suo diretto responsabile e utilizzatore, il presidente Pöhl, corrispondente al preesistente “marco”. Per forza logica l’“euro” oggi circolante, disciplinato da norme diverse da quelle del Tue, non può per definizione considerarsi simile al vecchio “marco”.
Sarebbero dovuti sorgere immediati dubbi sulla idoneità dell’euro voluto dal regolamento a produrre crescita. Il marco era stato fattore di sviluppo. L’“euro falso” ha cancellato i poteri e i mezzi di cui gli stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi per produrre sviluppo. Il regolamento non li ha sostituiti con altri poteri e mezzi. L’effetto di crescita, quale avrebbe dovuto prodursi in conseguenza naturale dell’obbligo imposto come permanente a tutti indistintamente gli stati, era affermato in via “assiomatica”. Non trovava conferma in alcuna esperienza. Il debito pubblico del Regno Unito nel secolo della rivoluzione industriale e della espansione imperialistica superò quello antecedente o contemporaneo di qualsiasi altra economia. L’indebitamento statunitense, negli anni dal 1939 al 1945 aumentò vertiginosamente da poco più del 40 per cento a oltre il 100 per cento. Furono immediatamente riassorbiti quindici milioni di disoccupati. Consentì agli Stati Uniti di uscire dalla guerra quale principale potenza politica, militare, economica e scientifica nel mondo. Se non sono reperibili esperienze storiche conformi, se non vengono addotte a sostegno argomentazioni basate su rapporti di causa ed effetto oggettivamente verificabili, la fiducia nell’obiettivo assiomatico deve restare necessariamente e unicamente affidata ai risultati. Dal 1999 a oggi sono trascorsi 15 anni. Un periodo che nelle attuali condizioni storiche può considerarsi un tempo lungo, più che medio.
Le risultanze statistiche sono inequivocabili. Italia, Germania, Francia, nei quattro decenni dal 1950 al 1991, con tassi medi del pil pari rispettivamente a 4,36, 4,05 e 3,86 per cento (elaborazioni su dati omogeneizzati Maddison) risultavano nello sviluppo i primi tre paesi democratici occidentali, precedendo Stati Uniti (3,45 per cento) e Regno Unito (2,08 per cento). Nei sei anni anteriori alla entrata in vigore del Tue (1987-1992) le medie, in conseguenza degli effetti costrittivi derivanti dall’ultima fase di attuazione del Piano Werner, risultarono rispettivamente del 2,68, 2,05 e 2,91 per cento. Sarebbero risultate superiori ai dati del sessennio della fase transitoria della omogeneizzazione (1,34, 1,32 e 1,40 per cento). Le medie complessive dei 15 anni successivi al 1° gennaio 1999 sono state per i tre paesi dello 0,38, dell’1,36 e dell’1,38 per cento. A partire dal 2000, i tre maggiori stati membri, oltre a beneficiare della ormai consolidata disciplina della eliminazione anche fisica delle dogane, sarebbero stati avvantaggiati dalla eliminazione nell’ambito dell’area euro dei costi di transazione e anche dall’aumento del numero dei partecipanti all’Unione (tredici in più) e distintamente all’euro (cinque in più). Ebbene, in una graduatoria insospettabile (v. Pocket World in Figures dell’Economist, edizione 2013, pag. 30) degli stati con minore sviluppo nel mondo nel decennio 2000-2010, l’Italia figura come terza peggiore economia, la Germania come decima peggiore economia, la Francia come quattordicesima peggiore economia. Ancora più significativa è la presenza di dodici stati europei, se consideriamo anche quelli dell’Unione, tra i primi trentacinque della graduatoria dei peggiori nel mondo! Nella analoga graduatoria del decennio antecedente (1990-2000), non figurava nessuno stato europeo. Si deve dedurre che il fattore cruciale ampiamente responsabile della depressione europea, e specificamente dell’area euro, deve avere cominciato ad operare poco prima o poco dopo l’inizio del nuovo millennio. In astratto avrebbe potuto trattarsi tanto di un fattore interno alla Ue e/o alla zona euro, quanto di un fattore a questa esterno. Un’altra statistica esclude la seconda ipotesi. La media di crescita del pil nel mondo nel ventennio 1975/95 era stata del 2,8 per cento (v. Rapporto sullo sviluppo umano, 1999), la popolazione totale nel 1997 era pari a 5 miliardi e 741 milioni. E’ oggi di oltre 7 miliardi. Il tasso di sviluppo è stato superiore al 4 per cento negli anni dal 2004 al 2013. Ha superato il 5 per cento negli anni 2006 (5,3 per cento), 2007 (5,4) e 2010 (5,1). L’intero mondo si caratterizza attualmente per una crescita continua e generalizzata in tutti i continenti. La media di crescita del pil nell’area euro nel decennio 1991-2003 è stata del 2,2 per cento. Quella del 2013 (previsioni per l’ultimo anno) è del meno 2 per cento.
La causa era dunque interna. Il fattore nuovo accertato nell’anno 1999 e/o nell’anno antecedente o in quello successivo, è l’immissione nei mercati dell’euro “falso” disciplinato dal reg. 1466/97, a partire dal 1° gennaio 1999. Non possono esservi dubbi. Il reg. 1466/97 è causa prima e unica del fenomeno depressivo in corso nei singoli paesi e nell’intera area euro dal 1° gennaio 1999.
Vi è un ulteriore e distinto effetto diretto del reg. 1466/97 che supera per rilievo qualsiasi altro. E’ la soppressione della “democrazia”. E’ garantita, al livello massimo, la libertà individuale. A livello normativo sono garantiti anche diritti sociali. La libertà individuale e il godimento di diritti sociali sono tuttavia presupposti necessari, ma non sufficienti della democrazia. Un regime può qualificarsi come democratico soltanto se gli individui, formanti una unica collettività, possono tutti in condizioni di assoluta parità influire sugli indirizzi politici attinenti all’esercizio della sovranità o comunque di carattere prioritario. Nelle condizioni attuali di sviluppo, sono da considerarsi prioritari gli indirizzi economici di base.
L’influenza dei cittadini può essere esercitata in modo diretto o indiretto. Nelle grandi collettività, di norma in modo indiretto con il voto. Il voto deve essere espresso in condizioni di parità, nello stesso giorno (eccezioni sono ammesse per categorie che versino in condizioni particolari), con identiche modalità, in luoghi prestabiliti.
Il regolamento 1466/97 ha soppresso l’unico spazio di attività politica soggetto all’influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e della Unione. La competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere politico. In sua vece è stato previsto l’obbligo degli stati membri di realizzare un risultato specificamente definito (il bilancio in pareggio) di carattere primario ed eguale per tutti, la cui realizzazione si risolve in obblighi e doveri individuali, soggetti a poteri di vigilanza, a controlli e a direttive, e i cui caratteri e obiettivi sono prescritti. Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico.
Le direzioni di marcia dell’Unione e degli stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i “governi devono fare i compiti” a essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti. Atti dimostrativi come salire su torri e sostarvi al freddo per intere notti, e persino i gesti estremi quali il suicidio per tutelare la dignità personale offesa per il non poter pagare i salari ai propri dipendenti o non poter provvedere ai bisogni della propria famiglia, sono privi di effetto.
Il mormorare, il chiacchiericcio diffuso sono liberi, ma dopo essersi affievoliti, si esauriscono. Sono efficacissimi invece per influire sui sistemi autoritari, fino a determinarne il crollo! (le barzellette!). Nel regime “Ue più euro” sono libertà private, prive di effetti pubblici. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto.
L’eliminazione della fascia della politica provoca un effetto ulteriore. L’assenza di un potere politico di carattere generale e la sua assenza in tutte le parti attinenti alla sovranità e ai princìpi fondamentali, comporta che tutte le condotte degli organi e dei loro titolari, formino oggetto di norme, singole o integrate, che ne determinano il carattere, ne precisano l’oggetto, ne determinano il se, il come e il quando della concretizzazione. Il sistema risulta formato da fattispecie di carattere costrittivo, aventi a oggetto condotte dalle quali promana il movimento delle singole parti e dell’insieme dell’organismo.
Ne segue che nel momento in cui gli indirizzi e il movimento complessivo siano stati sottratti a ogni decisione “politica”, cioè libera, il sistema risulta autoprotetto. Il suo movimento può essere solo quello derivante dall’insieme delle condotte prestabilite. L’organismo si è robotizzato. Il più potente dei calcolatori può effettuare operazioni altrimenti impossibili. Ma perché ciò accada deve essere stato progettato a questo scopo. La macchina “Ue più Eurozona” comprende opzioni. Sono opzioni da esercitarsi entro ambiti, in condizioni e tempi, e con modalità direttamente o indirettamente predeterminate. Se sono stati commessi errori nella progettazione e se la macchina provoca danni, questi si produrranno sino a quando la macchina funzionerà. Funzionerà, continuando a produrre danni, fino a quando non imploda.
Ogni effetto, una volta prodottosi, si trasforma in causa di effetti. Gli effetti del regolamento 1466/97, dato il loro rilievo e la lunga durata, sono alla base di distinte serie causali produttive di effetti anche autonomi a ciascun livello, che in parte si cumulano e si intrecciano.
Un primo effetto si collega alle modalità usate per pervenire all’adozione del regolamento, tutte dirette a impedire che venisse percepita la portata delle innovazioni. Il regolamento, in vigore dal 1° luglio 1998 (v. art. 13), era destinato ad applicarsi a partire dal 1° gennaio 1999. I programmi di stabilità avrebbero dovuto essere presentati prima del 1° marzo 1999 (art. 4). Se si voleva ottenere che non se ne diffondesse la conoscenza, il risultato è stato raggiunto al cento per cento. Ancora oggi l’esistenza, la natura e gli effetti del regolamento, non sono generalmente conosciuti dai titolari degli uffici, le cui competenze nei singoli paesi membri vi si connettono. E’ ipotizzabile che i ministri che parteciparono al Consiglio che adottò la proposta della Commissione recante la data del 18 ottobre 1996 (v. G.U. Comunità C/368/96) e che ne approvarono il testo definitivo il 7 luglio 1997, non si siano resi minimamente conto della portata del voto che esprimevano in rappresentanza dei rispettivi governi.
Prodottosi il fenomeno depressivo a partire dal 1° gennaio 1999, nessuno ha pensato al reg. 1466/97, le cui norme, e in seguito i princìpi, sono rimasti in vigore per tutto il quindicennio successivo. Non essendo nota la causa originaria e quelle prodottesi anno dopo anno in conseguenza degli effetti cumulativi, si sono verificati effetti ulteriori che sono sotto gli occhi di tutti. Economisti, tra i quali un buon numero di premi Nobel, di tutte le parti del mondo, ci bombardano con consigli e ricette. Gli esperti dell’Eurozona e quelli europei fanno altrettanto. Ma non conoscendola, e non potendo risalire alla causa, una causa peraltro così singolare e imprevedibile, ci si limita a indicare risultati che si vogliono ottenere (sono i soliti: aumento della occupazione, sostegno alle imprese, stimolazione della domanda, diminuzione del carico fiscale, rilancio della economia, e simili). Nessuno spiega come e con quali mezzi conseguirli.
Ma responsabili ce ne devono essere. Non potendo risalire alla fonte, vengono indicati sempre gli stessi: la classe politica, gli sprechi, la spesa sanitaria, la inefficienza della Pubblica amministrazione, i lacci della burocrazia, l’evasione fiscale, ecc. E poiché è il governo che dovrebbe eliminarli e non li elimina, il responsabile ultimo è sempre il governo. I governi precedenti e poi, né potrebbe essere diversamente, il governo in carica. Il governo, poveretto, fino a quando il paese non verrà liberato dalla gabbia in cui si è rinchiuso, con reintegrazione dello stesso governo nella sua potestà politica, non può fare nulla.
Gli effetti prodotti da quelli antecedenti trasformatisi in cause sono parecchi.Innanzitutto una grande confusione. Si aggiunge la diversità degli effetti prodotti nei vari stati. La Germania, cui apparteneva la moneta (il marco) alla quale l’euro avrebbe dovuto assimilarsi, essendo stata assunta a modello ai fini della omogeneizzazione, non ha ricevuto quale effetto della stabilità danni emergenti. Ne ha probabilmente subiti di maggiori come lucro cessante, che però sono meno percepibili. Tanto basta perché venga ritenuta responsabile delle misure costrittive cui altri sono stati assoggettati. Ne seguono invidie, risentimenti, persino odi. All’inverso la Germania guarda con aria di superiorità, con sospetto e anche con disprezzo i paesi in peggiori condizioni. I Trattati europei esaltano la coesione. Non è stata raggiunta. Probabilmente, se continuerà ad applicarsi l’attuale regime, non lo sarà mai.
Mentre pervenivano sollecitazioni da ogni parte del mondo, gli organi dell’Unione non potevano restare inerti. La crescita, quale risultato della parità del bilancio imposto con norme di applicazione generale, costituiva l’effetto di un assioma. Così è stato in medicina fino a tutto il ’700. Non disponendo di strumenti per risalire alle cause, se si avvertivano sintomi gravi di cui non si conoscessero le cause, si ordinava il salasso. Se la prima applicazione non recava sollievo, se ne accrescevano le dosi. E così una terza e una quarta volta. Lo stesso è accaduto per l’Europa. Poiché l’atteso sviluppo non si produceva, si deduceva che il principio della stabilità non era stato applicato con il necessario rigore. Sulla scia del primo regolamento ne è stato emanato quindi un secondo (reg. 1055/2005), poi un terzo (reg. 1175/2011), infine il Fiscal compact. Fino a prevedere, per essere più sicuri nella applicazione delle ricette, che modifiche strutturali venissero prescritte e imposte da organismi esterni. Un “commissariamento”!
Nei quindici anni trascorsi dal 1° gennaio 1999, sono stati ratificati e sono entrati in vigore nuovi Trattati: Nizza, Amsterdam, Lisbona. I Trattati sono pieni di affermazioni enfatiche. Sono stati creati nuovi organi. Si poteva abbondare. La disciplina continuava a essere di fatto quella del reg. 1466/97 integrata dalle modifiche successive. Dove possibile, si è cercato di rafforzarla con parole accuratamente collocate, ma sempre evitando di dare nell’occhio. In quindici anni si sono accumulati centinaia di atti, di livello normativo o applicativo, ai quali ha partecipato un considerevole numero di titolari di funzioni connesse ai problemi europei, sia nell’Unione che nei paesi di appartenenza. Molti politici e amministratori hanno fatto carriera. Sono stati titolari o lo sono tuttora di uffici ai quali si connettevano responsabilità massime a livello europeo o negli ordinamenti costituzionali interni. La loro presenza in ruoli connessi all’Unione e/o all’euro è rassicurante. Genera speranza e fiducia. Un ulteriore ostacolo a che si comprenda come stanno effettivamente le cose!
Ultimo ma non minore effetto derivato da questi intrecci è un “vuoto di potere”. Il vuoto viene colmato da istituzioni e da titolari che, a livello europeo e nazionale, siano posizionati in condizioni che consentano loro di avvalersene. Abbiamo così titolari di organi comunitari che impartiscono lezioni non richieste a governanti degli stati membri. Lo stesso fanno, con autorità persino maggiore, titolari di organi di altri paesi. In ciascun paese organi, specie del livello più elevato, si espandono in aree contigue, a volte sinanche inferiori.
La confusione è grande, grande il rumore. Ma la macchina robotizzata dell’Europa e dell’euro continua a macinare flussi di risultati negativi, e tranquilla e indifferente, prosegue indisturbata e inesorabile nella direzione che le è stata imposta.
Una osservazione conclusiva su quanto è accaduto il 1° gennaio 1999. La dottrina distingue tra due ipotesi. La instaurazione di fatto di un nuovo governo (ossia del detentore dei poteri pubblici di vertice) e l’instaurazione di fatto di un nuovo regime.
La “democrazia” è (deve essere) il principio fondamentale del regime degli stati aderenti all’Unione europea. La democrazia è stata soppressa nel 1999 nell’Eurozona e negli stati senza deroga. In ciascuno degli stati membri senza deroga, viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati. Nell’Eurozona perché non vi sono stati previsti organi politici responsabili nei confronti della totalità dei cittadini delle collettività che ne fanno parte assunti come entità unitaria. Ciò che è accaduto deve qualificarsi come “instaurazione di fatto di un nuovo regime”. Era accaduto in Francia con la rivoluzione francese, in Russia, nel 1917, con la rivoluzione bolscevica. Con queste differenze, che la rivoluzione francese, affermando i principi della libertà degli individui e delle imprese, sprigionò enormi energie esistenti. Quella collettivista creò vincoli che sarebbero risultati più stringenti di quelli anteriori, dei quali ci si voleva liberare. La rivoluzione francese e quella russa imposero, con la introduzione di nuovi regimi, anche l’introduzione di vertici di un nuovo tipo. La rivoluzione, operata dal “falso euro”, concretizzatasi nel principio della stabilità, ha creato un regime autoreferenziale. In quello sovietico l’autoreferenzialità abbracciava larga parte della organizzazione. Ma il vertice ne era escluso. Con l’ulteriore differenza che in quello sovietico si proclamava la conquista del potere da parte del proletariato. In quello della stabilità, manca un vertice politico e, accantonato l’obiettivo della crescita, domina, quale “dio” insondabile e assoluto, un principio astratto che genera un movimento che inesorabilmente produce depressione e forse, alla fine, implosione.
Altra considerazione. Va valutata attentamente. Potrebbe sconsigliare l’applicazione tardiva della disciplina della moneta del Tue e oggi del Tfue (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, Lisbona). Con l’esperienza del “poi” si può oggi affermare che la richiesta che la nuova moneta somigliasse al marco era a sua volta inficiata da un “errore”. Si era tenuto conto della stabilità interna, non di quella esterna. La collettività tedesca era fortemente coesa. Non può trascurarsi che vi vigeva da quasi un secolo un sistema di stato sociale, il più solido e avanzato nel mondo. Intese collaborative tra imprenditori e classe operaia esistevano tanto a livello di organismi centrali quanto in forme istituzionalizzate, all’interno delle imprese. Non si tenne conto dell’ambiente esterno. Era stato fino a quel tempo a sua volta stabile. La stabilità esterna persisteva da oltre cinquanta anni. Appariva naturale e destinata a durare. Costituiva invece il prodotto di una situazione storica peculiare, la divisione del mondo in due grandi blocchi contrapposti, quello del mondo libero, che si avvaleva del regime di mercato, e quello collettivista che raggruppava i paesi la cui organizzazione si ispirava, in varia misura, al modello amministrativizzato dell’Urss. Anche le regolazioni tra gli stati, nel blocco collettivista, erano in qualche misura rigide. Era la stabilità esterna a garantire la stabilità interna, obiettivo e nello stesso tempo condizione per il successo della moneta e dell’economia tedesca.
La stabilità esterna, proprio negli anni in cui vennero stipulati i due Trattati, dell’Atto unico europeo e del Trattato sull’Unione europea, cominciava a vacillare. Nel 1999 sarebbe mancata del tutto. Oggi le condizioni del mondo esterno sono l’opposto della stabilità. (continua domani)