venerdì 15 novembre 2013

Gli algoritmi di Bruxelles hanno riempito il vuoto dei riformatori italiani, di Franco Debenedetti

Usa la metafora del “robot” Giuseppe Guarino per descrivere la situazione in cui sono stati posti i membri dell’Unione monetaria, quando lo spazio della politica economica degli stati è stato sostituito dall’obbligo di stare dentro i famosi parametri di Maastricht. Per Antonio Pilati – lo ha ribadito ieri sul Foglio – è l’algoritmo a limitare la sovranità degli stati europei. Un’immagine che a me sembra più appropriata: il robot esegue, a contare sono le istruzioni.
Per Guarino, si è trattato di un golpe. Certamente è stata una devoluzione di poteri, e quella siamo in molti a volerla, seppur con intenti diversi. C’è l’intento di chi, per rimediare ai danni provocati e alle sofferenze imposte dalla “robotizzazione”, propone ulteriori devoluzioni. E ci sono i fautori di uno stato minimo che “devolva” compiti all’iniziativa privata senza gravare sui conti pubblici. C’era anche Gary Baker alla riunione della Mont Pelerin Society a Vienna nel 1996, quando il progetto dell’euro venne considerato positivamente, proprio perché al suo centro ci sarebbe stata la più indipendente di tutte le Banche centrali, a cui gli stati avrebbero devoluto la politica monetaria. E’ una questione di separazione: la Banca di 17 sovrani ha più padroni e quindi nessun padrone. La Banca di un solo sovrano ha un padrone da cui non si può affrancare.
C’è un senso positivo di devolvere, far fare ad altri ciò che non c’è motivo che faccia lo stato. E ce ne è uno negativo, far fare ad altri ciò che lo stato dovrebbe fare e non sa (o non vuole)  fare. Non c’è niente di male a usare i robot per lavori pesanti o precisi, a usare algoritmi per orientarsi nel caotico succedersi degli eventi: purché non lo si pensi surrogato della politica. L’uso del vincolo estero come sostituto della politica non è nuovo. Nel ’400, per risolvere una disputa successoria, l’Italia delle signorie chiese a Carlo VIII di invaderci. Oggi c’è chi pensa all’arrivo della Troika per far seguire i tagli alle spending review. Il debito non preoccuperebbe i mercati se intanto mettessimo in atto politiche per attaccare le cause per cui si è formato, dal mercato del lavoro al funzionamento della giustizia; il debito si ridurrebbe se si privatizzasse e non si scoraggiasse chi vuole investire in Italia: ma c’è chi invece preferisce evitare di affrontare i problemi con una bella patrimoniale, un taglio e via.
Guarino vede nella “robotizzazione” della politica la causa di una soppressione della democrazia. Io credo che essa sia una conseguenza della debolezza della politica e del governo. Abbiamo avuto un governo, quello di Mario Monti, in cui si è teorizzato che per fare le riforme si dovesse sospendere la dialettica politica destra-sinistra. Oggi ne abbiamo uno che la “dialettica”, e chiamala dialettica!, se la trova servita tutti i giorni: mostra di saper tenere il mare, ma difficilmente arriverà a fare le riforme. Quella della governance è il passaggio obbligato per affrontare e non subire i problemi, compreso quello indicato da Guarino. Noi abbiamo una Costituzione specificamente voluta e disegnata per avere governi deboli. E’ vero che Giuliano Amato, in pochi mesi, ha avviato riforme di banche, pensioni e partecipazioni pubbliche; che con Carlo Azeglio Ciampi abbiamo eletto i sindaci; che Lamberto Dini ha riformato le pensioni; che Romano Prodi ha privatizzato e introdotto le liberalizzazioni di Tiziano Treu. Ma solo a prezzo di compromessi e presto restando vittima della debolezza di coalizioni eterogenee: come è successo pure a Silvio Berlusconi alla sua prima prova di governo. Nel suo secondo governo invece, godette di un consenso di proporzioni irripetibili, in Parlamento e nel paese. Sia chi la rimpiange come un’occasione perduta, sia chi vi vede una dimostrazione di incapacità, non sempre ricorda che in quella legislatura fu approvata una riforma della forma di governo in senso presidenzialista. Non eravamo neppure pochi, sui banchi della sinistra, a pensare che quella riforma aveva cose apprezzabili, che si sarebbero potute migliorare emendando anziché bocciando per principio. Anche questo è da mettere in conto all’antiberlusconismo armato. Poi la Costituzione del ’48 diventò “la più bella Costituzione del mondo”, e il referendum del 2006 spazzò via quella votata l’anno prima.
Il pamphlet di Guarino adotta “nell’analisi e nello svolgimento, [il] metodo sistemico-formale con identificazione delle fonti giuridiche utilizzate”. Lo fa, dichiara, “per evitare riflessi emotivi”. Si inserisce quindi con un approccio diverso nel filone di quelli che cercano soluzioni ai problemi dell’Europa nell’allentamento dei vincoli anziché nel loro irrigidimento, o che addirittura, con François Heisbourg, pensano che solo con l’abbandono dell’euro si riesca a salvare l’Europa nella “fin du rêve Européen”. Intanto a Bruxelles la Commissione ha avviato “un’analisi approfondita sull’elevata eccedenza di bilancio” della Germania; a Berlino Cdu e Spd discutono per trovare una piattaforma del nuovo governo; a Strasburgo potrebbero essere molti i parlamentari euroscettici; e da Karlsruhe, un giorno o l’altro, arriverà la sentenza sulla costituzionalità dell’Omt, il piano di acquisto illimitato di titoli di stato predisposto dalla Bce per sostenere la moneta unica.

Il “no euro” magistrale del prof. Guarino. Oggi l'ultima parte, di Marco Valerio Lo Prete

In questi giorni il Foglio pubblica a puntate un magistrale saggio “no euro”.
L’autore è Giuseppe Guarino, giurista classe 1922, uno dei primi professori ordinari di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, dove esaminò tra gli altri Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, poi anche ministro delle Finanze (1987) e dell’Industria (1992-’93).
Mercoledì scorso è uscita la prima parte, introdotta da un articolo di Antonio Pilati. Ieri, accompagnata da questo approfondimento di Franco Debenedettila seconda parte. Nel numero di oggi la terza e ultima parte.
Guarino già nel 2012 pubblicò analisi lucide e controcorrente sugli accordi legali con cui l’Unione europea – soprattutto su spinta del paese leader, la Germania – stava cercando di vincolare i suoi conti pubblici. Fonti giuridiche alla mano, il professore sostenne – anche in una lunga intervista a questo giornale – che l’impegno a mantenere il bilancio in pareggio o in avanzo era semplicemente “inapplicabile”. Gli articoli del Fiscal compact, infatti, contraddicevano gli stessi trattati costitutivi dell’Unione europea su cui si fondavano; questi ultimi fissavano al 3 per cento il limite di indebitamento netto possibile per ogni stato, cioè garantivano una discrezionalità della politica fiscale che invece sull’onda della crisi è stata requisita. Con effetti economici, argomentava in seconda battuta Guarino, disastrosi. A un anno di distanza da quel primo saggio, il professore – le cui tesi sono state discusse anche dalla stampa tedesca, oltre che da economisti e giuristi italiani – ha approfondito ulteriormente la sua analisi giuridica del processo di integrazione comunitaria. Arrivando a datare, al 1° gennaio 1999, un “colpo  di stato”, espressione “usata quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato – scrive – con violazione delle norme costituzionali vigenti”. Come si realizzò dunque questo golpe? Attraverso un regolamento comunitario, il numero 1466/97 per la precisione, con cui “in ciascuno degli stati membri viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati”. Già quel regolamento, imponendo il pareggio di bilancio contro la stessa lettera dei Trattati, per di più alla chetichella e senza quella pubblicità che perlomeno caratterizzò la stipula del Fiscal compact oltre dieci anni dopo, privò di fatto gli stati democratici della loro politica fiscale. Il tutto in funzione dell’introduzione della moneta unica. Con l’entrata in vigore del regolamento, però, “la democrazia è stata soppressa”, scrive Guarino guidando il lettore tra ricostruzione storica e analisi del diritto, tra responsabilità politiche e colpe individuali, fino a immaginare possibili vie d’uscita.
La scrittura del giurista è piana e lineare, le sue argomentazioni approfondite e mai reticenti, attraenti ma pur sempre falsificabili. Tutto ciò rende il testo “magistrale”, per l’appunto, che lo si condivida o meno. Nell’attesa delle elezioni europee, che secondo molti dovrebbero sancire l’avanzata senza precedenti dei partiti anti euro, il saggio costituisce un utile banco di prova per quelle élite che – come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – non vorranno limitarsi a “esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passe-partout (che non spiegano nulla) come il termine ‘populismo’”. Una sfida intellettuale per classi dirigenti pronte a guidare l’opinione pubblica, certo, ma non imprudenti a tal punto da inscenare una insostenibile “ribellione delle élite”.

L’alleanza per cambiare l’euro, di Giuseppe Guarino

La terza e ultima puntata del saggio del professor Guarino


Ristabilire la legalità dei Trattati e rivitalizzare la democrazia. La strategia in un saggio di diritto

Il 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati la moneta disciplinata dal regolamento 1466/97. Se si accerterà che la disciplina del regolamento è diversa, anzi opposta rispetto a quella del Tue, bisognerà concludere che l’euro circolante dal 1° gennaio 1999 è un’altra moneta rispetto a quella del Trattato. Questa nuova moneta usa il nome e i simboli di quella voluta dal Trattato. La moneta disciplinata dal Trattato è l’unica “autentica”. Non essendo avvenuto il suo lancio né alla data stabilita, né in qualsiasi altra successiva, l’“euro autentico” è una moneta mai nata. Quella che usurpa il suo nome, e che è stata presentata come se fosse quella del Trattato e in quanto tale accettata nei mercati, è una moneta falsa che, nascoste le proprie natura e identità, si appropria di quelle dell’euro autentico.

Cosa fare, dunque? 
Non è facile a dirsi. Vi è un ostacolo che potrebbe considerarsi dirimente. Si aggiungono ostacoli connessi. L’ostacolo dirimente è conseguenza diretta della inesistenza di un vertice politico. L’Ue e l’Eurozona costituiscono un organismo “robotizzato” complesso. I titolari degli organi, a tutti i livelli, compresi quelli più elevati, sono tenuti a osservare e a far osservare le norme in vigore. L’avrebbero dovuto fare i titolari degli organi negli anni 1996-1999. Non lo fecero. Purtroppo lo fanno oggi. Vi sono costretti!
Per derobotizzare il sistema occorrerebbe un colpo di stato, diretto alla creazione di un nuovo regime (democratico) o quanto meno per reintrodurre, sia pur tardivamente, quello soppresso nel 1999. Appare difficile che avvenga.
Un ostacolo, se ne è fatto già cenno, potrebbe essere rappresentato dal coinvolgimento di attuali detentori della titolarità degli organi costituzionali dell’Unione e in particolare degli stati membri, nella adozione degli atti con i quali fu attuato il golpe del 1999 (ipotesi, dato il tempo trascorso, che potrebbe riguardare oggi un numero limitato di soggetti) ovvero nell’adozione e nella emanazione di atti applicativi o comunque derivati dal regolamento 1466/97 e da quelli a esso successivi, e/o che a tali abbiano dato seguito, mentre sarebbe stato loro dovere istituzionale impedirne l’adozione o rimuoverne gli effetti. E’ un gruppo probabilmente folto. La questione va considerata avendo riguardo non alla sola Unione, ma anche e forse soprattutto, ai singoli paesi membri senza deroga (per “stati con deroga” s’intende invece quelli che hanno potuto conservare la propria moneta, ndr).
Il passato coinvolgimento nell’adozione degli atti illegali e/o nella loro esecuzione di titolari attuali di organi costituzionali degli stati membri che nella ipotesi già esaminata appariva un ostacolo, potrebbe alternativamente trasformarsi in fattore favorevole. Molti, specie qualcuno degli anni più recenti, sono stati influenzati dai precedenti, cui in buona fede potrebbero avere ritenuto di doversi attenere. Scoperta “la verità”, stimolati dalle loro attuali posizioni di autorità, potrebbero proporsi essi stessi come attori e protagonisti del processo di restaurazione innovativa.
Le condizioni disastrate della economia si sono riflesse sulla classe politica e nelle condotte comuni. La classe politica attuale risente della assenza di prospettive, effetto della robotizzazione. Ci sarà qualcuno pronto ad alzare la bandiera della “rivoluzione”, cioè di quanto si dovrebbe fare per spalancare le porte che si aprono sul futuro (la rinascita)? Sì, è possibile. Nel 1945 il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Unione sovietica, continuavano a essere governate dagli artefici della vittoria. Germania, Italia e anche la Francia in qualche misura ebbero governanti nuovi. Alcuni di questi erano all’inizio sconosciuti. Avrebbero retto le responsabilità collettive con prestigio e successo. Sono le grandi emergenze storiche a creare i grandi personaggi, non l’inverso. Emerse le prospettive, un politico di antica esperienza, o giovane già affermato, o anche uno del tutto nuovo, potrebbe assumere il ruolo di protagonista.
E’ possibile derobotizzare legalmente il sistema? La robotizzazione si lega alla peculiarità del singolo sistema. Per dipanare le componenti, bisogna individuare innanzitutto il principio primo ante robotizzazione e confrontarlo con quello del sistema robotizzato. Il principio primo va desunto dalla disciplina. Quale è la disciplina “legale” oggi in vigore? E’ quella del Trattato di Lisbona, stipulato il 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. E’ una fonte di rango massimo. Abroga, se anteriori, tutti gli atti con essa incompatibili, di rango pari o inferiore. Preclude l’osservanza, con effetto immediato, degli atti inferiori successivi, se incompatibili. Prevale su quelli successivi affetti da “inesistenza”. Nel Trattato di Lisbona gli artt. 102 A, 103, 104 c) del Trattato dell’Unione europea sono riportati testualmente negli artt. 120, 121 e 126. Non basta tuttavia che si individui con esattezza il diritto vigente. Occorre che sul punto si formi un fermo e diffuso convincimento generale.
Ne consegue che, tanto per cominciare, ogni operatore giuridico pubblico di qualsiasi livello non deve farsi suggestionare da falsi idoli o da non dovuti rispetti.Le imposizioni, i suggerimenti o anche le semplici manifestazioni di opinioni che siano espressione di princìpi, o applicazione di norme e di atti che non siano riconducibili al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue, Lisbona), devono essere respinte con fermezza. Bisogna essere implacabili nell’esigere che qualsiasi atto o anche semplice manifestazione di opinione di titolari di funzioni nell’Unione o in singoli stati membri che prenda iniziativa o faccia dichiarazioni sui paesi diversi dal suo, specifichi in modo formale e preciso la norma del Tfue sulla quale ritiene di poter basare la sua condotta. Se la indicazione non risulta esatta va richiesto con fermezza il riconoscimento dell’errore, riservandosi di farne valere le responsabilità.
Dopo quindici anni di diffusa e dominante illegalità il primo passo, assolutamente necessario, deve essere diretto a ricondurre la generalità delle condotte al rispetto della legalità.

Come fare?

Ristabilire la democrazia e diffondere il convincimento della necessità del ritorno alla legalità sono passi necessari. Ma non può essere trascurato il fattore tempo. Servono decisioni, che se arrivano tardi, potrebbero non essere più sufficienti, forse nemmeno più idonee.
Tutti gli stati a partire da quelli con deroga potrebbero essere interessati alla questione che si va a esaminare. Lo sono principalmente i paesi membri senza deroga, in numero di 17. Potrebbero decidere di mettere in comune la loro sovranità creando una nuova entità politica, cui affidare la gestione di una moneta comune a sua volta di nuova creazione. Nessuna norma del Tfue lo vieta. Gli stati conservano la piena titolarità della loro sovranità. Ne possono far uso in piena libertà, sempre che non vi ostino disposizioni di diritto europeo. La moneta comune creata dai 17 stati avrebbe titolo a circolare con valore legale all’interno dell’Unione alla stregua delle monete nazionali di singoli paesi dell’Unione, quali ad esempio la sterlina inglese e la corona svedese. L’originario Tue e i Trattati successivi non fanno distinzione tra l’una e l’altra moneta degli stati senza deroga in base alle dimensioni e alle peculiarità delle economie.
Vi sono però due difficoltà. L’una è rappresentata dalla urgenza. Se non si raggiunge un accordo in tempi brevi, si rischia di arrivare in ritardo. L’area dei paesi che si avvicinano in modo preoccupante al punto di rottura si va allargando. Una implosione, singola o plurima, accrescerebbe le divisioni.
La seconda consiste nel mancato conseguimento della “coesione”. La Germania, il paese con maggiore popolazione, con la più forte economia, non ha dovuto soggiacere a modifiche rilevanti della propria conformazione. E’ stata una delle tre economie chiamate a costituire il modello al quale, nella fase della omogeneizzazione, le altre economie dovevano conformarsi. Ha subìto danni consistenti della specie del “lucro cessante”. Gli altri paesi danneggiati in misure generalmente minime per lucro cessante, hanno subìto danni emergenti, in misura rilevante. La diversità dei risultati ha in qualche misura deteriorato i rapporti. Alla soluzione ottimale si perverrà. Ma richiederà tempo.
Il risultato, se conseguibile in astratto dai 17, potrebbe essere raggiunto in minor tempo e minore difficoltà da un piccolo gruppo.
Difficoltà ve ne sarebbero egualmente, ma di tipo diverso. I singoli paesi euro, se decidessero di agire da soli, sarebbero esposti alle pressioni dei mercati, e anche di qualche paese estraneo all’Unione che aspirasse ad acquisirne il controllo economico e/o politico. La soglia minima, presupposta la creazione di un vertice politico comune, è rappresentata dal raggiungimento di un livello di pil sufficiente per reagire in modo adeguato alle pressioni esterne. Lo si potrebbe ipoteticamente indicare in un livello da collocarsi tra il sesto e il settimo posto nel mondo.
Sono almeno tre i paesi senza deroga per i quali la distanza dal punto di non ritorno si è accorciata in modo preoccupante. Ovviamente non si fanno nomi. Dell’Italia si può parlare. Il raggiungimento del punto di non ritorno richiederebbe ancora un buon tratto di cammino, almeno così si spera. Aggiungendo l’Italia ad altre tre ipotetiche economie dell’area euro si raggiungerebbero dimensioni che in una classifica mondiale collocherebbero le nuove entità intorno al decimo posto per popolazione e probabilmente intorno al quarto nel pil. Se vi si aggiungesse la Francia, per popolazione potrebbe ipotizzarsi un posto tra il quinto e il sesto, mentre per il pil sarebbe quasi sicuro il secondo posto, inferiore solo agli Stati Uniti.

Perché l’Italia e perché la Francia?
L’Italia è stata faro di civiltà per millenni. Dopo la stupefacente unificazione dell’Europa, realizzata dall’impero romano, prolungatasi per secoli, nel ’400 e nel ’500 del primo millennio, pur divisa e soggetta in parte a poteri esterni, ha acquistato una posizione di preminenza con l’Umanesimo e il Rinascimento, cui si aggiungeva un eccezionale livello di fioritura economica e anche di potenze militare e politica in singole entità politiche regionali. In Europa, salvo episodi marginali dovuti alla fase autoritaria, l’Italia non ha mai preteso di prevalere con le armi su parti di paesi confinanti.
La Francia è da più di un millennio il paese europeo più noto nel mondo. Re Luigi era già conosciuto in Mongolia quando un francescano olandese, Rubruck, chiese di presentarsi a suo nome a Mangu Khan, erede di Gengis Khan, recandosi da lui nel lontano Caracorum nel 1253, qualche decennio prima del viaggio di Marco Polo. Era un semplice caso che il gioielliere di corte fosse un francese? E che il figlio del gioielliere facesse da interprete in un dibattito tra Rubruck, il locale capo religioso musulmano, e il rappresentante delle fedi locali? La Francia fu tra i primi paesi a ricevere informazioni sull’avvicinarsi del pericoloso Tamerlano. In un primo tempo alleato di fatto per aver vinto e fatto prigioniero il tremendo nemico dei crociati, l’ottomano Bayezid, ma poi? Al re di Francia Tamerlano inviò una sua ambascia.
Anche Tamerlano aveva avvertito la necessità di conoscere un suo forte e probabile prossimo avversario prima di avventurarsi in Europa. Optò poi per la Cina. Prima di raggiungerla, morì. Pietro il Grande si recò in Francia di persona, per studiarne l’organizzazione amministrativa. Di lì nacque la burocrazia zarista, sfociata secoli dopo nel collettivismo. A sua volta, Maria Teresa d’Austria, ebbe cura di far studiare le grandi istituzioni del Regno di Francia, accademie, teatri, musei e l’organizzazione amministrativa. Il modello sarebbe stato recepito dalla Amministrazione asburgica la cui efficienza sarebbe rimasta proverbiale anche nei paesi occupati non germanici. La Francia, fino a Napoleone (un còrso!) non ha occupato e detenuto con la violenza territori di stati vicini. Fa eccezione il regno angioino nell’Italia meridionale. Ma che dire allora di Federico Barbarossa e del secolare dominio spagnolo nell’Italia meridionale e della presenza asburgica nell’Italia settentrionale? Il sogno europeistico di Napoleone fallì. Ma Napoleone fu presente alle più importanti discussioni per la formazione del Code Civil che, recepito dalla maggior parte dei paesi europei, nella regolazione dei rapporti tra privati si sarebbe sostituito al “diritto comune”, erede di quello giustineo, erede a sua volta di quello romano e che aveva dominato per secoli in tutta l’Europa. La Francia è stata governata per parecchi decenni da stranieri. L’italiano Mazarino, ma anche due importanti regine, entrambe di casa Medici, Caterina e Maria! A tre grandi personaggi che ressero la Francia per lunghi periodi quali di fatto potenti primi ministri fu concessa la berretta cardinalizia, privilegio che nessun altro stato europeo avrebbe potuto vantare. Furono Richelieu, Mazarino e un terzo, De Fleury, inizialmente precettore, poi di fatto primo ministro di Luigi XV, ma che potrebbe essere stato non meno importante degli altri due, per il lungo periodo di pace che riuscì a garantire al paese. Sconfitta nel 1870 la Francia, nella esposizione universale che seguì a breve, già primeggiava quale potenza civile, culturale, politica. Fino all’ultimo conflitto mondiale Parigi occupava nel mondo la posizione di prestigio che sarebbe stata poi di New York. Sono segni minimi, quelli elencati, ma sufficienti a testimoniare l’idoneità della Francia a rappresentare l’Europa. E come dimenticare l’apporto di Schuman, Monnet, Barre e Delors alla costruzione europea?
Passo dopo passo ci stiamo avvicinando al traguardo. Se si riuscisse partendo da un piccolo gruppo a creare un potere politico unico che gestisca una moneta comune, si aprirebbe un sentiero. Presto si aggiungerebbero altri, sino ad aggregare tutti. L’aggregazione iniziale in un piccolo gruppo renderebbe più facile la sperimentazione di forme organizzative, anticipatrici di quelle definitive.
Il passo successivo richiede il superamento di altre difficoltà. Abbiamo affermato, ma non ancora spiegato, se il Tue e ora il Tfue (Lisbona) consentano che uno stato senza deroga, che abbia superato a suo tempo lo scrutinio per l’ammissione all’euro, accertatane la maggiore convenienza nelle condizioni attuali, abbia il diritto di chiedere individualmente in qualsiasi momento e di ottenere il passaggio dalla disciplina di paese senza deroga a quella di paese con deroga.
La risposta è affermativa. L’ammissione all’euro si basa su una decisione volontaria. Si è acquisito un diritto al quale si può rinunciare. Non è prevista alcuna durata per la permanenza nel rango dei paesi con deroga. Sono ammessi anche paesi che non hanno i requisiti per accedere all’euro o che, avendoli, non ne hanno il desiderio. Non si vedrebbe come si potrebbe impedire a che del regime con deroga si giovino paesi, che avendo partecipato con entusiasmo all’Eurozona, abbiano dovuto constatare di non avere tratto il beneficio che l’Unione aveva garantito, una  crescita dalle caratteristiche di cui all’art. 2 Tue.
Il passaggio al regime con deroga comporta che si risolvano problemi applicativi.Principale quello della determinazione del cambio tra la nuova moneta comune e l’euro. Sono problemi noti, che si pongono all’atto della ammissione di qualsiasi nuovo stato nell’Unione europea. La determinazione del valore di cambio di una moneta comune di più stati esentati dall’euro, costituirebbe in più una appropriata sede per comporre amichevolmente la questione del risarcimento dei danni provocati dall’Unione a ciascuno dei paesi esentati a seguito dell’imposizione illegale di una disciplina dell’euro diversa da quella pattuita all’atto della stipulazione del Trattato Ue.
Un’altra difficoltà sembra più difficile da superare. La “Democrazia” richiede condizioni di parità tra tutti indistintamente i partecipi nell’influenza esercitabile sul potere politico, responsabile della moneta e della economia comuni. Nel momento del voto, paritario in tutti gli aspetti, tutti diventano partecipi di una entità, che è la stessa per tutti. In quel momento, anche negli orientamenti che ne proverranno e di cui si sarà destinatari, tutti implicitamente e necessariamente avranno abbandonato la specifica entità di cui facevano parte per entrare in quella comune, che è di tutti. Nell’esprimersi con un voto, che corrisponda in modo esatto e completo al principio democratico, non si è più partecipi della nazione originaria. Tutti concorrono al consolidamento della nuova nazione, quella europea. Alcune delle identità nazionali in Europa sono relativamente recenti. Sono frutto di lotte e sacrifici. Non è semplice dismetterle, sia pur per realizzare uno storico avanzamento. Altre identità presenti in Europa, egualmente frutto di lotte e di sacrificio, sono più apparenti che reali. L’esempio lasciatoci da Roma nella costruzione del suo impero è emblematico. Alcuni dei suoi più importanti imperatori non erano né romani, né italici. Il nuovo livello di identità non eliminava quello antecedente. Lo integrava.





* Nei due grafici sopra riportati, è possibile osservare come solo la Germania sia cresciuta come prima della crisi (a sinistra, fonte Morgan Stanley) e come il livello delle esportazioni sia salito ancora di più (a destra, fonte Commissione europea)

L'Italia con l'Euro al piede, di Giuseppe Guarino

La seconda puntata del saggio del professor Guarino


Indagine giuridica attorno a un codicillo illegale che ha frenato la nostra economia dal 1999. Effetti economici e politici di una decisione presa nelle stanze di Bruxelles. Una svolta in stile rivoluzione francese o bolscevica, col feticcio della stabilità

Quella di oggi è la seconda puntata di un lungo saggio “no euro” scritto dal professore Giuseppe Guarino. (La prima puntata l’abbiamo pubblicata ieri sul Foglio, la terza e ultima uscirà domani). Guarino, subito dopo la Seconda guerra mondiale, divenne uno dei primi ordinari di Diritto pubblico nel 1953. Insegnò a Sassari (suo assistente fu anche Francesco Cossiga), poi a Napoli, infine alla Sapienza di Roma. In politica fu con la Democrazia cristiana, e proprio con il sostegno della Dc divenne ministro delle Finanze nel 1987 e dell’Industria nel 1992-’93.
Secondo il giurista, il tentativo comunitario di creare una moneta unica a immagine e somiglianza del marco, deragliò presto. In prima battuta, infatti, il Trattato di Maastricht aveva assegnato agli stati l’obiettivo fondamentale di perseguire “la crescita”, offrendo loro anche la possibilità di indebitarsi (a certe condizioni stringenti). Poi però, a ridosso della creazione dell’euro, la Commissione stilò un regolamento, il numero 1466/97, che contraddiceva lo stesso Trattato di Maastricht, spingendo gli stati sulla strada rigorista del pareggio di bilancio a ogni costo. Per Guarino si è trattato di un “golpe”, tecnicamente inteso: i Trattati furono di fatto cambiati, senza dibattito pubblico e senza nemmeno seguire le procedure giuridiche corrette. Stesso discorso, per Guarino, si è ripetuto di fatto con il Fiscal compact siglato dai capi di governo nel 2012.
Il saggio rifugge accuse generiche e complottistiche, è ricco di tesi e argomentazioni controllabili, dunque falsificabili. Alla vigilia del voto europeo, e in una fase convulsa del processo di integrazione comunitaria, una buona lettura per euroscettici ed euroentusiasti, purché consapevoli. (mvlp)
La differenza tra il Trattato sull’Unione europea (Tue, o Trattato di Maastricht) e il regolamento 1466/97 attiene al vincolo che nelle discipline occupa la posizione “centrale”. Il Tue fissa un obiettivo, uno sviluppo conforme al disposto dell’articolo 2, il cui conseguimento è affidato alle politiche economiche di ciascuno degli stati membri, ciascuna delle quali avrebbe dovuto tenere conto della specificità delle concrete condizioni della economia del proprio paese. Le politiche economiche avrebbero potuto utilizzare all’occorrenza, quale strumento per realizzare l’obiettivo, l’indebitamento nei limiti consentiti dall’art. 104 c), da interpretare e applicare in conformità ai criteri fissati negli alinea e nei commi 2 e 3 del punto 2 dell’art. 104 c).
Il regolamento però abroga tutto questo. Le politiche economiche degli stati sono cancellate. E’ cancellato conseguentemente qualsiasi apporto degli stati. Il ruolo assegnato dal Tue [art. 102 A, 103 e 104 c)] all’obiettivo dello sviluppo, che l’attività politica degli stati avrebbe conseguito, realizzandolo in conformità a quanto prescritto negli artt. 2 e successivi del Trattato, è cancellato. All’obiettivo dello sviluppo è sostituito un risultato consistente nella parità del bilancio a medio termine. Gli stati, secondo il Tue, avrebbero conseguito l’obiettivo, valutando nella propria autonomia i limiti, le condizioni e le strutture del proprio paese. Il grado di conseguimento sarebbe stato necessariamente diverso da paese a paese, e per ciascun paese di anno in anno. Il risultato che il regolamento sostituiva all’obiettivo avrebbe dovuto invece essere eguale per tutti i paesi e in tutti gli anni per ciascun paese. Se le strutture o le condizioni monetarie non avessero consentito di conseguire la crescita, la politica economica dello stato ne avrebbe tenuto conto. All’opposto, nella disciplina del regolamento, se strutture o condizioni avessero ostato alla realizzazione del “risultato” della parità, si sarebbero dovute modificare le strutture e incidere sulle condizioni, non si sarebbe potuto venire meno all’obbligo perentorio della parità nel bilancio. Un totale capovolgimento, dunque, nel rapporto tra moneta e realtà. Secondo il Tue, se vi è contrasto, è la gestione della moneta a doversi adeguare alla realtà. Secondo il regolamento, è la realtà che deve adeguarsi alla moneta.
Qui potremmo anche fermarci. Ai fini della dimostrazione che al 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati una moneta diversa da quella progettata da Pöhl, Delors e Carli, quanto detto è più che sufficiente. La moneta, quale disciplinata dal Tue, era stata giudicata dal suo diretto responsabile e utilizzatore, il presidente Pöhl, corrispondente al preesistente “marco”. Per forza logica l’“euro” oggi circolante, disciplinato da norme diverse da quelle del Tue, non può per definizione considerarsi simile al vecchio “marco”.
Sarebbero dovuti sorgere immediati dubbi sulla idoneità dell’euro voluto dal regolamento a produrre crescita. Il marco era stato fattore di sviluppo. L’“euro falso” ha cancellato i poteri e i mezzi di cui gli stati avrebbero potuto e dovuto avvalersi per produrre sviluppo. Il regolamento non li ha sostituiti con altri poteri e mezzi. L’effetto di crescita, quale avrebbe dovuto prodursi in conseguenza naturale dell’obbligo imposto come permanente a tutti indistintamente gli stati, era affermato in via “assiomatica”. Non trovava conferma in alcuna esperienza. Il debito pubblico del Regno Unito nel secolo della rivoluzione industriale e della espansione imperialistica superò quello antecedente o contemporaneo di qualsiasi altra economia. L’indebitamento statunitense, negli anni dal 1939 al 1945 aumentò vertiginosamente da poco più del 40 per cento a oltre il 100 per cento. Furono immediatamente riassorbiti quindici milioni di disoccupati. Consentì agli Stati Uniti di uscire dalla guerra quale principale potenza politica, militare, economica e scientifica nel mondo. Se non sono reperibili esperienze storiche conformi, se non vengono addotte a sostegno argomentazioni basate su rapporti di causa ed effetto oggettivamente verificabili, la fiducia nell’obiettivo assiomatico deve restare necessariamente e unicamente affidata ai risultati. Dal 1999 a oggi sono trascorsi 15 anni. Un periodo che nelle attuali condizioni storiche può considerarsi un tempo lungo, più che medio.
Le risultanze statistiche sono inequivocabili. Italia, Germania, Francia, nei quattro decenni dal 1950 al 1991, con tassi medi del pil pari rispettivamente a 4,36, 4,05 e 3,86 per cento (elaborazioni su dati omogeneizzati Maddison) risultavano nello sviluppo i primi tre paesi democratici occidentali, precedendo Stati Uniti (3,45 per cento) e Regno Unito (2,08 per cento). Nei sei anni anteriori alla entrata in vigore del Tue (1987-1992) le medie, in conseguenza degli effetti costrittivi derivanti dall’ultima fase di attuazione del Piano Werner, risultarono rispettivamente del 2,68, 2,05 e 2,91 per cento. Sarebbero risultate superiori ai dati del sessennio della fase transitoria della omogeneizzazione (1,34, 1,32 e 1,40 per cento). Le medie complessive dei 15 anni successivi al 1° gennaio 1999 sono state per i tre paesi dello 0,38, dell’1,36 e dell’1,38 per cento. A partire dal 2000, i tre maggiori stati membri, oltre a beneficiare della ormai consolidata disciplina della eliminazione anche fisica delle dogane, sarebbero stati avvantaggiati dalla eliminazione nell’ambito dell’area euro dei costi di transazione e anche dall’aumento del numero dei partecipanti all’Unione (tredici in più) e distintamente all’euro (cinque in più). Ebbene, in una graduatoria insospettabile (v. Pocket World in Figures dell’Economist, edizione 2013, pag. 30) degli stati con minore sviluppo nel mondo nel decennio 2000-2010, l’Italia figura come terza peggiore economia, la Germania come decima peggiore economia, la Francia come quattordicesima peggiore economia. Ancora più significativa è la presenza di dodici stati europei, se consideriamo anche quelli dell’Unione, tra i primi trentacinque della graduatoria dei peggiori nel mondo! Nella analoga graduatoria del decennio antecedente (1990-2000), non figurava nessuno stato europeo. Si deve dedurre che il fattore cruciale ampiamente responsabile della depressione europea, e specificamente dell’area euro, deve avere cominciato ad operare poco prima o poco dopo l’inizio del nuovo millennio. In astratto avrebbe potuto trattarsi tanto di un fattore interno alla Ue e/o alla zona euro, quanto di un fattore a questa esterno. Un’altra statistica esclude la seconda ipotesi. La media di crescita del pil nel mondo nel ventennio 1975/95 era stata del 2,8 per cento (v. Rapporto sullo sviluppo umano, 1999), la popolazione totale nel 1997 era pari a 5 miliardi e 741 milioni. E’ oggi di oltre 7 miliardi. Il tasso di sviluppo è stato superiore al 4 per cento negli anni dal 2004 al 2013. Ha superato il 5 per cento negli anni 2006 (5,3 per cento), 2007 (5,4) e 2010 (5,1). L’intero mondo si caratterizza attualmente per una crescita continua e generalizzata in tutti i continenti. La media di crescita del pil nell’area euro nel decennio 1991-2003 è stata del 2,2 per cento. Quella del 2013 (previsioni per l’ultimo anno) è del meno 2 per cento.
La causa era dunque interna. Il fattore nuovo accertato nell’anno 1999 e/o nell’anno antecedente o in quello successivo, è l’immissione nei mercati dell’euro “falso” disciplinato dal reg. 1466/97, a partire dal 1° gennaio 1999. Non possono esservi dubbi. Il reg. 1466/97 è causa prima e unica del fenomeno depressivo in corso nei singoli paesi e nell’intera area euro dal 1° gennaio 1999.
Vi è un ulteriore e distinto effetto diretto del reg. 1466/97 che supera per rilievo qualsiasi altro. E’ la soppressione della “democrazia”. E’ garantita, al livello massimo, la libertà individuale. A livello normativo sono garantiti anche diritti sociali. La libertà individuale e il godimento di diritti sociali sono tuttavia presupposti necessari, ma non sufficienti della democrazia. Un regime può qualificarsi come democratico soltanto se gli individui, formanti una unica collettività, possono tutti in condizioni di assoluta parità influire sugli indirizzi politici attinenti all’esercizio della sovranità o comunque di carattere prioritario. Nelle condizioni attuali di sviluppo, sono da considerarsi prioritari gli indirizzi economici di base.
L’influenza dei cittadini può essere esercitata in modo diretto o indiretto. Nelle grandi collettività, di norma in modo indiretto con il voto. Il voto deve essere espresso in condizioni di parità, nello stesso giorno (eccezioni sono ammesse per categorie che versino in condizioni particolari), con identiche modalità, in luoghi prestabiliti.
Il regolamento 1466/97 ha soppresso l’unico spazio di attività politica soggetto all’influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e della Unione. La competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere politico. In sua vece è stato previsto l’obbligo degli stati membri di realizzare un risultato specificamente definito (il bilancio in pareggio) di carattere primario ed eguale per tutti, la cui realizzazione si risolve in obblighi e doveri individuali, soggetti a poteri di vigilanza, a controlli e a direttive, e i cui caratteri e obiettivi sono prescritti. Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico.
Le direzioni di marcia dell’Unione e degli stati membri sono segnate. Nel settore che nelle condizioni attuali di sviluppo condiziona tutti gli altri, e che è da considerarsi quindi assolutamente prioritario, quello della economia, i “governi devono fare i compiti” a essi assegnati. Gli istituti democratici contemplati dagli ordinamenti costituzionali di ciascun paese non servono più. Nessuna influenza possono esercitare i partiti politici. Scioperi e serrate non producono effetti. Le manifestazioni violente provocano danni ulteriori, non scalfiscono gli indirizzi prestabiliti. Atti dimostrativi come salire su torri e sostarvi al freddo per intere notti, e persino i gesti estremi quali il suicidio per tutelare la dignità personale offesa per il non poter pagare i salari ai propri dipendenti o non poter provvedere ai bisogni della propria famiglia, sono privi di effetto.
Il mormorare, il chiacchiericcio diffuso sono liberi, ma dopo essersi affievoliti, si esauriscono. Sono efficacissimi invece per influire sui sistemi autoritari, fino a determinarne il crollo! (le barzellette!). Nel regime “Ue più euro” sono libertà private, prive di effetti pubblici. Non si può abbattere il proprio governo se un governo, nelle materie economiche fondamentali, non esiste. Parole e gesti cadono nel vuoto.
L’eliminazione della fascia della politica provoca un effetto ulteriore. L’assenza di un potere politico di carattere generale e la sua assenza in tutte le parti attinenti alla sovranità e ai princìpi fondamentali, comporta che tutte le condotte degli organi e dei loro titolari, formino oggetto di norme, singole o integrate, che ne determinano il carattere, ne precisano l’oggetto, ne determinano il se, il come e il quando della concretizzazione. Il sistema risulta formato da fattispecie di carattere costrittivo, aventi a oggetto condotte dalle quali promana il movimento delle singole parti e dell’insieme dell’organismo.
Ne segue che nel momento in cui gli indirizzi e il movimento complessivo siano stati sottratti a ogni decisione “politica”, cioè libera, il sistema risulta autoprotetto. Il suo movimento può essere solo quello derivante dall’insieme delle condotte prestabilite. L’organismo si è robotizzato. Il più potente dei calcolatori può effettuare operazioni altrimenti impossibili. Ma perché ciò accada deve essere stato progettato a questo scopo. La macchina “Ue più Eurozona” comprende opzioni. Sono opzioni da esercitarsi entro ambiti, in condizioni e tempi, e con modalità direttamente o indirettamente predeterminate. Se sono stati commessi errori nella progettazione e se la macchina provoca danni, questi si produrranno sino a quando la macchina funzionerà. Funzionerà, continuando a produrre danni, fino a quando non imploda.
Ogni effetto, una volta prodottosi, si trasforma in causa di effetti. Gli effetti del regolamento 1466/97, dato il loro rilievo e la lunga durata, sono alla base di distinte serie causali produttive di effetti anche autonomi a ciascun livello, che in parte si cumulano e si intrecciano.
Un primo effetto si collega alle modalità usate per pervenire all’adozione del regolamento, tutte dirette a impedire che venisse percepita la portata delle innovazioni. Il regolamento, in vigore dal 1° luglio 1998 (v. art. 13), era destinato ad applicarsi a partire dal 1° gennaio 1999. I programmi di stabilità avrebbero dovuto essere presentati prima del 1° marzo 1999 (art. 4). Se si voleva ottenere che non se ne diffondesse la conoscenza, il risultato è stato raggiunto al cento per cento. Ancora oggi l’esistenza, la natura e gli effetti del regolamento, non sono generalmente conosciuti dai titolari degli uffici, le cui competenze nei singoli paesi membri vi si connettono. E’ ipotizzabile che i ministri che parteciparono al Consiglio che adottò la proposta della Commissione recante la data del 18 ottobre 1996 (v. G.U. Comunità C/368/96) e che ne approvarono il testo definitivo il 7 luglio 1997, non si siano resi minimamente conto della portata del voto che esprimevano in rappresentanza dei rispettivi governi.
Prodottosi il fenomeno depressivo a partire dal 1° gennaio 1999, nessuno ha pensato al reg. 1466/97, le cui norme, e in seguito i princìpi, sono rimasti in vigore per tutto il quindicennio successivo. Non essendo nota la causa originaria e quelle prodottesi anno dopo anno in conseguenza degli effetti cumulativi, si sono verificati effetti ulteriori che sono sotto gli occhi di tutti. Economisti, tra i quali un buon numero di premi Nobel, di tutte le parti del mondo, ci bombardano con consigli e ricette. Gli esperti dell’Eurozona e quelli europei fanno altrettanto. Ma non conoscendola, e non potendo risalire alla causa, una causa peraltro così singolare e imprevedibile, ci si limita a indicare risultati che si vogliono ottenere (sono i soliti: aumento della occupazione, sostegno alle imprese, stimolazione della domanda, diminuzione del carico fiscale, rilancio della economia, e simili). Nessuno spiega come e con quali mezzi conseguirli.
Ma responsabili ce ne devono essere. Non potendo risalire alla fonte, vengono indicati sempre gli stessi: la classe politica, gli sprechi, la spesa sanitaria, la inefficienza della Pubblica amministrazione, i lacci della burocrazia, l’evasione fiscale, ecc. E poiché è il governo che dovrebbe eliminarli e non li elimina, il responsabile ultimo è sempre il governo. I governi precedenti e poi, né potrebbe essere diversamente, il governo in carica. Il governo, poveretto, fino a quando il paese non verrà liberato dalla gabbia in cui si è rinchiuso, con reintegrazione dello stesso governo nella sua potestà politica, non può fare nulla.
Gli effetti prodotti da quelli antecedenti trasformatisi in cause sono parecchi.Innanzitutto una grande confusione. Si aggiunge la diversità degli effetti prodotti nei vari stati. La Germania, cui apparteneva la moneta (il marco) alla quale l’euro avrebbe dovuto assimilarsi, essendo stata assunta a modello ai fini della omogeneizzazione, non ha ricevuto quale effetto della stabilità danni emergenti. Ne ha probabilmente subiti di maggiori come lucro cessante, che però sono meno percepibili. Tanto basta perché venga ritenuta responsabile delle misure costrittive cui altri sono stati assoggettati. Ne seguono invidie, risentimenti, persino odi. All’inverso la Germania guarda con aria di superiorità, con sospetto e anche con disprezzo i paesi in peggiori condizioni. I Trattati europei esaltano la coesione. Non è stata raggiunta. Probabilmente, se continuerà ad applicarsi l’attuale regime, non lo sarà mai.
Mentre pervenivano sollecitazioni da ogni parte del mondo, gli organi dell’Unione non potevano restare inerti. La crescita, quale risultato della parità del bilancio imposto con norme di applicazione generale, costituiva l’effetto di un assioma. Così è stato in medicina fino a tutto il ’700. Non disponendo di strumenti per risalire alle cause, se si avvertivano sintomi gravi di cui non si conoscessero le cause, si ordinava il salasso. Se la prima applicazione non recava sollievo, se ne accrescevano le dosi. E così una terza e una quarta volta. Lo stesso è accaduto per l’Europa. Poiché l’atteso sviluppo non si produceva, si deduceva che il principio della stabilità non era stato applicato con il necessario rigore. Sulla scia del primo regolamento ne è stato emanato quindi un secondo (reg. 1055/2005), poi un terzo (reg. 1175/2011), infine il Fiscal compact. Fino a prevedere, per essere più sicuri nella applicazione delle ricette, che modifiche strutturali venissero prescritte e imposte da organismi esterni. Un “commissariamento”!
Nei quindici anni trascorsi dal 1° gennaio 1999, sono stati ratificati e sono entrati in vigore nuovi Trattati: Nizza, Amsterdam, Lisbona. I Trattati sono pieni di affermazioni enfatiche. Sono stati creati nuovi organi. Si poteva abbondare. La disciplina continuava a essere di fatto quella del reg. 1466/97 integrata dalle modifiche successive. Dove possibile, si è cercato di rafforzarla con parole accuratamente collocate, ma sempre evitando di dare nell’occhio. In quindici anni si sono accumulati centinaia di atti, di livello normativo o applicativo, ai quali ha partecipato un considerevole numero di titolari di funzioni connesse ai problemi europei, sia nell’Unione che nei paesi di appartenenza. Molti politici e amministratori hanno fatto carriera. Sono stati titolari o lo sono tuttora di uffici ai quali si connettevano responsabilità massime a livello europeo o negli ordinamenti costituzionali interni. La loro presenza in ruoli connessi all’Unione e/o all’euro è rassicurante. Genera speranza e fiducia. Un ulteriore ostacolo a che si comprenda come stanno effettivamente le cose!
Ultimo ma non minore effetto derivato da questi intrecci è un “vuoto di potere”. Il vuoto viene colmato da istituzioni e da titolari che, a livello europeo e nazionale, siano posizionati in condizioni che consentano loro di avvalersene. Abbiamo così titolari di organi comunitari che impartiscono lezioni non richieste a governanti degli stati membri. Lo stesso fanno, con autorità persino maggiore, titolari di organi di altri paesi. In ciascun paese organi, specie del livello più elevato, si espandono in aree contigue, a volte sinanche inferiori.
La confusione è grande, grande il rumore. Ma la macchina robotizzata dell’Europa e dell’euro continua a macinare flussi di risultati negativi, e tranquilla e indifferente, prosegue indisturbata e inesorabile nella direzione che le è stata imposta.
Una osservazione conclusiva su quanto è accaduto il 1° gennaio 1999. La dottrina distingue tra due ipotesi. La instaurazione di fatto di un nuovo governo (ossia del detentore dei poteri pubblici di vertice) e l’instaurazione di fatto di un nuovo regime.
La “democrazia” è (deve essere) il principio fondamentale del regime degli stati aderenti all’Unione europea. La democrazia è stata soppressa nel 1999 nell’Eurozona e negli stati senza deroga. In ciascuno degli stati membri senza deroga, viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati. Nell’Eurozona perché non vi sono stati previsti organi politici responsabili nei confronti della totalità dei cittadini delle collettività che ne fanno parte assunti come entità unitaria. Ciò che è accaduto deve qualificarsi come “instaurazione di fatto di un nuovo regime”. Era accaduto in Francia con la rivoluzione francese, in Russia, nel 1917, con la rivoluzione bolscevica. Con queste differenze, che la rivoluzione francese, affermando i principi della libertà degli individui e delle imprese, sprigionò enormi energie esistenti. Quella collettivista creò vincoli che sarebbero risultati più stringenti di quelli anteriori, dei quali ci si voleva liberare. La rivoluzione francese e quella russa imposero, con la introduzione di nuovi regimi, anche l’introduzione di vertici di un nuovo tipo. La rivoluzione, operata dal “falso euro”, concretizzatasi nel principio della stabilità, ha creato un regime autoreferenziale. In quello sovietico l’autoreferenzialità abbracciava larga parte della organizzazione. Ma il vertice ne era escluso. Con l’ulteriore differenza che in quello sovietico si proclamava la conquista del potere da parte del proletariato. In quello della stabilità, manca un vertice politico e, accantonato l’obiettivo della crescita, domina, quale “dio” insondabile e assoluto, un principio astratto che genera un movimento che inesorabilmente produce depressione e forse, alla fine, implosione.
Altra considerazione. Va valutata attentamente. Potrebbe sconsigliare l’applicazione tardiva della disciplina della moneta del Tue e oggi del Tfue (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, Lisbona). Con l’esperienza del “poi” si può oggi affermare che la richiesta che la nuova moneta somigliasse al marco era a sua volta inficiata da un “errore”. Si era tenuto conto della stabilità interna, non di quella esterna. La collettività tedesca era fortemente coesa. Non può trascurarsi che vi vigeva da quasi un secolo un sistema di stato sociale, il più solido e avanzato nel mondo. Intese collaborative tra imprenditori e classe operaia esistevano tanto a livello di organismi centrali quanto in forme istituzionalizzate, all’interno delle imprese. Non si tenne conto dell’ambiente esterno. Era stato fino a quel tempo a sua volta stabile. La stabilità esterna persisteva da oltre cinquanta anni. Appariva naturale e destinata a durare. Costituiva invece il prodotto di una situazione storica peculiare, la divisione del mondo in due grandi blocchi contrapposti, quello del mondo libero, che si avvaleva del regime di mercato, e quello collettivista che raggruppava i paesi la cui organizzazione si ispirava, in varia misura, al modello amministrativizzato dell’Urss. Anche le regolazioni tra gli stati, nel blocco collettivista, erano in qualche misura rigide. Era la stabilità esterna a garantire la stabilità interna, obiettivo e nello stesso tempo condizione per il successo della moneta e dell’economia tedesca.
La stabilità esterna, proprio negli anni in cui vennero stipulati i due Trattati, dell’Atto unico europeo e del Trattato sull’Unione europea, cominciava a vacillare. Nel 1999 sarebbe mancata del tutto. Oggi le condizioni del mondo esterno sono l’opposto della stabilità. (continua domani)

Un golpe di nome euro, di Giuseppe Guarino

Se la moneta unica fosse tecnicamente un “colpo di stato” contro paesi membri e cittadini? Per non cadere dal pero, saggio (a puntate) del giurista Guarino

Da oggi, e per i prossimi due giorni, pubblicheremo a puntate un saggio di Giuseppe Guarino, già ordinario di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, già ministro delle Finanze (1987) e dell’Industria (1992-’93). La tesi del professore è che all’origine della moneta unica si sia realizzato un “colpo di stato”, attraverso un preciso regolamento comunitario, il numero 1466/97. Approfittando della fortissima volontà dei governi del tempo di superare a tutti i costi “l’esame” – sul fronte dei conti pubblici, per esempio –  necessario a entrare nella nuova area valutaria, la Commissione fece approvare infatti un regolamento che avrebbe vincolato in maniera decisa le leve della politica economica fino ad allora in mano agli stati membri.
Il ragionamento di Guarino è lungo ma non oscuro, narrato con stile piano, a disposizione – per volontà dello stesso autore – di chi lo volesse confutare. Qualcuno potrebbe sostenere, forse non a torto, che non di soli formalismi giuridici è costituito il processo d’integrazione europea. Ciò detto, è un fatto che pezzi d’establishment guardino con ansia crescente alle prossime elezioni europee, ritenute facile terreno di caccia per “populisti” anti moneta unica. Ieri pure l’agenzia di rating Moody’s ha parlato di rischi “non trascurabili” che in Italia “i partiti anti-euro prendano il potere con un programma di uscita dall'euro”. Guarino obbliga a confrontarsi con una lettura critica ma acuta, nient’affatto dozzinale, del tipo di mentalità dominante nella storia dell’integrazione europea. A meno di non accontentarsi di vivere in un’èra in cui tutte le vacche sono populiste, buona lettura. (mvlp)
Una espressione usata anche in atti formali, compreso il molto recente cosiddetto Fiscal compact (art. 1, comma 1) è quella di “Unione economica e monetaria” (Uem).L’Unione monetaria non è stata realizzata. L’Unione economica non è stata creata. Le monete circolanti con “valore legale” nell’Unione erano tredici al 1° gennaio 1999, data del lancio. Una, l’euro, moneta comune di undici stati. La sterlina e la peseta, “monete nazionali”. Oggi le monete sono dodici, di cui una, l’euro, moneta comune, undici, monete nazionali.
L’Unione economica non è stata creata. L’Atto unico europeo (Aue) e il Trattato dell’Unione europea (Tue), che sono i due Trattati ai quali ne viene attribuito il merito, si sono limitati a creare un “mercato unico”. E’ un grande spazio economico nel quale si applicano, come dominanti, i principi della libera iniziativa privata (libertà di impresa) e della più ampia apertura. Oggi la maggior parte dei rapporti economici del globo sono retti da discipline ispirate ai medesimi principi della libera iniziativa privata, quindi della libertà di impresa, in un mercato aperto. Si è costruito a livello quasi mondiale un mercato “unico”. Nessuno lo definirebbe “Unione economica”.
Il “mercato comune” formò oggetto precipuo dell’Aue, integrato successivamente dal Tue. Il Tue ha disciplinato oggetti nuovi, in modo particolare ha dettato una disciplina generale sull’attività economica e sui bilanci degli stati, quindi implicitamente sulla moneta comune.
Alle norme che avrebbero influito sulla concretizzazione della “moneta comune” si pose mano negli ultimi mesi di discussione sul Tue. A quel punto molti capisaldi della disciplina della moneta erano stati già fissati. La moneta sarebbe stata comune non a tutti gli stati dell’Unione, ma solo a quelli che si sarebbero assoggettati alla sua specifica disciplina. La decisione scaturì dalla indisponibilità del Regno Unito a rinunciare alla sua storica moneta, la sterlina. L’Unione, senza il Regno Unito, sarebbe nata monca. Fu concessa al Regno Unito la clausola dell’“opting out”. Avrebbe potuto aderire all’euro, dimostrando di averne i requisiti, in qualsiasi momento successivo. Concessa al Regno Unito, la clausola non poté essere negata alla Danimarca. Fu concessa di fatto, in assenza di deroga formale, alla Svezia, il primo paese ad aderire all’Ue, dopo la stipula del Trattato. L’art. 109 k) ha finito per contemplare due distinte categorie di paesi membri, quelli ammessi all’euro, denominati senza deroga, e quelli che continuano ad avvalersi della propria moneta, denominati “paesi con deroga”. L’art. 109 k) indica gli articoli del Tue che si applicano ai soli paesi senza deroga.
Come il Regno Unito aveva dichiarato che non avrebbe rinunciato alla sterlina, così la Germania precisò che avrebbe aderito all’Unione e alla moneta unica solo se questa fosse risultata simile al marco. Il marco era la moneta storica della Germania. In attuazione di un indirizzo politico assunto sin dall’inizio, il governo federale coadiuvato dalla Bundesbank si attenne con rigore a criteri antinflazionistici per garantire duratura stabilità al valore della moneta, e conseguentemente uno sviluppo armonioso, equilibrato, continuo della economia. L’obiettivo della stabilità della moneta comportava, nelle valutazioni di Otto Pöhl, presidente della Bundesbank, condivise da Jacques Delors, presidente della Commissione, e poi dai rappresentanti di tutti gli altri paesi, che venissero fissati limiti all’indebitamento di ciascuno stato membro nelle percentuali, rispetto al pil, del 3 per cento nell’indebitamento annuale, del 60 per cento nel debito totale. Al dibattito finale presero parte attiva le delegazioni italiana e britannica.
Prima che ci si accordasse sulle caratteristiche della moneta, erano state concordate misure che avrebbero condizionato l’intera architettura del sistema. Gli stati avrebbero partecipato all’Unione conservando il loro carattere sovrano. Avrebbero ceduto non la sovranità, ma l’esercizio della stessa, in ambiti vasti, che sarebbero stati predeterminati. Le competenze dell’Unione sarebbero state solo quelle specificamente contemplate dal Trattato. Le risorse dell’Unione sarebbero state, oltre i ricavi dei dazi esterni e di poche altre entrate, quelle trasferite all’Unione dagli stati (definite “proprie”). Il bilancio dell’Unione sarebbe dovuto risultare ogni anno in pareggio. Ne discendeva che l’Unione non avrebbe potuto indebitarsi. Nelle materie di sua competenza, l’Unione avrebbe emesso regolamenti e direttive, con efficacia vincolante diretta negli stati membri. Norme del Tue, integrative dell’Aue, avrebbero vietato aiuti di stato ed evitato la formazione di posizioni dominanti nel mercato.
L’Aue aveva consacrato la libertà di movimento, oltre che delle merci, delle persone, del diritto di stabilimento e anche dei capitali, compresi quelli a breve. L’Unione avrebbe promosso la liberalizzazione del commercio internazionale con abbattimento generalizzato dei dazi doganali. La direttiva Ue, avente ad oggetto la libera circolazione dei capitali a breve, era stata adottata dalla Commissione e recepita dai paesi membri ancora prima del completamento del disegno dell’Unione.
Questo è il quadro, contenente un numero elevato di punti fermi, nel quale le delegazioni si accinsero a inserire le norme che in modo diretto o indiretto avrebbero caratterizzato la nuova moneta. La disciplina avrebbe dovuto conformarsi a quella del marco in tre aspetti fondamentali.
a) Avrebbe dovuto essere diretta all’obiettivo di promuovere una crescita rispondente alle caratteristiche fissate nell’art. 2 Tue. Una crescita cioè “sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra stati membri”.
b) Il compito di provvedere allo sviluppo sarebbe spettato distintamente a ciascuno stato, il quale vi avrebbe provveduto nell’interesse proprio e dell’Unione, con la propria politica economica (artt. 102 A, 103 Tue).
c) Agli stati avrebbero dovuto essere attribuiti mezzi e/o strumenti necessari per il perseguimento dell’obiettivo della crescita. Qui i progettisti (gli “architetti del sistema”) dovettero constatare che la generalità dei mezzi adoperati dagli stati esterni all’Unione europea, cioè dalla generalità dei futuri competitori, era di fatto preclusa da punti fermi non più modificabili. I quali peraltro, in dipendenza delle preclusioni introdotte, indicavano l’unica strada rimasta libera, che sarebbe stato quindi necessario percorrere, quella dell’indebitamento. Se esistono fattori valorizzabili e non si dispone di risorse da investire, il ricorso all’indebitamento è indispensabile per cogliere le occasioni favorevoli. Potrebbero non più ripetersi.
Qualora il sistema, nel suo funzionare in modo fisiologico non produca risorse, se ci si preclude ogni possibilità di cogliere occasioni produttive, è la crescita a essere ostacolata. All’indebitamento va fatto ricorso nel rispetto della “golden rule”. L’investimento frutto dell’indebitamento deve, secondo una previsione ragionevole, produrre profitti in misura superiore al suo costo. Diversamente si avrebbe crescita del debito e del suo costo complessivo. I valori del 3 per cento per l’indebitamento e del 60 per cento per il debito totale, riferiti al pil, potevano basarsi, al tempo in cui furono adottati, sulla esperienza pluridecennale di grandi economie (quella tedesca e anche quella degli Stati Uniti). Furono approvati: 3 e 60 per cento costituivano il limite che avrebbe garantito la “stabilità” della moneta e della economia.
Qui si inserì la proposta della delegazione italiana, appoggiata dagli inglesi. Guido Carli, ministro del Tesoro e capo della delegazione, la attribuisce nelle sue memorie (“Cinquant’anni di vita italiana”, edizioni Laterza) alla propria “caparbietà”. Non si potevano far dipendere le sorti di una economia dalle condizioni che sarebbero state accertate in date prefissate. Avrebbero potuto essere sconfessate dalla notte al mattino, potevano dipendere da cause eccezionali, avrebbero potuto in ipotesi costituire il frutto di dati inesatti. Furono così approvati tre emendamenti, due dei quali hanno formato oggetto degli alinea della lett. a) del n. 2, l’altro della lett. b) dell’art. 104 c). Nella sua redazione definitiva, l’art. 104 c), n. 2, ha stabilito che l’esame della conformità alla disciplina di bilancio dovesse avvenire “sulla base” di due criteri, di cui uno alle lett. a) e b) dello stesso n. 2. Ai due criteri bisogna dunque attenersi nella interpretazione e applicazione dei valori di riferimento. Negli emendamenti accolti si fa obbligo di tenere conto della tendenza ad avvicinarsi al valore di riferimento e di eventuali cause eccezionali o temporanee che potessero avere provocato il superamento.
Agli architetti del sistema era stato attribuito il compito di realizzare a mezzo di norme astratte una moneta corrispondente al marco, che garantisse ai paesi membri e quindi all’Unione uno sviluppo duraturo, armonioso, sostenibile, corrispondente a quello realizzatosi in Germania negli antecedenti quaranta anni. Gli architetti si attennero al modello. Hanno assolto il compito assegnato in modo puntuale. Disegnarono un progetto la cui attuazione avrebbe potuto e dovuto garantire una crescita duratura e sostenibile. Protagonisti ne sarebbero stati gli stati membri, vincolati all’obiettivo della crescita. Gli stati avrebbero prodotto crescita nell’esercizio della più tipica espressione della attività politica, la politica “economica”. Gli architetti erano consapevoli che a favore della crescita, avrebbero concorso gli effetti benefici di due fattori produttivi: l’abolizione fisica delle dogane, cui gli studi preparatori avevano accreditato una influenza sulla crescita nella misura dal 2 al 6 per cento a seconda della collocazione dello stato, e l’eliminazione dei costi di transazione tra i paesi aderenti alla moneta comune, che a sua volta avrebbe dovuto produrre un più 0,7 per cento ad anno nella crescita.
Si aggiungeva ora il potere politico di indebitarsi sino ai limiti di cui al prot. n. 6, da interpretarsi e applicarsi secondo i criteri vincolanti di cui all’art. 104 c) Tue. Avrebbe dovuto essere sufficiente.
Fin qui la disciplina formale della moneta. Il passo successivo consistette nel prevedere una fase transitoria diretta a creare condizioni di sufficiente omogeneità tra i paesi membri ammessi all’euro ed evitare che, avvenuto il passaggio alla terza fase, quella “a regime”, i più forti prevalessero sui più deboli. La disciplina della fase transitoria della omogeneizzazione è contenuta nel protocollo n. 6. Furono assunte a riferimento le medie attinenti ai due aspetti più rilevanti (tassi di inflazione, tassi dei titoli a lungo termine) dei tre stati migliori. Sarebbero stati consentiti divari dal modello entro margini prestabiliti (1,5 punti per il tasso di inflazione; 2 punti nel tasso di interesse a lungo termine). Anteriormente al 1° luglio 1998 si sarebbe tenuto uno scrutinio con il quale, nel rispetto di un’apposita procedura, si sarebbero valutati i risultati raggiunti e sarebbero stati ammessi all’“euro” i paesi che avessero soddisfatto le condizioni prescritte. Lo scrutinio si tenne il 3 maggio 1998. Undici stati superarono lo scrutinio. Il dodicesimo (la Spagna) fu inquadrato tra gli stati con deroga. Sarebbe stato ammesso tra quelli senza deroga l’anno successivo.
L’espressione “colpo di stato” viene usata quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato, con violazione delle norme costituzionali vigenti. Il colpo di stato viene attuato con maggiore frequenza con la forza. Nei tempi più antichi uccidendo, anche con il veleno, il sovrano. Il 1° gennaio 1999 un colpo di stato è stato effettuato in danno degli stati membri, dei loro cittadini, e dell’Unione. Il “golpe” è stato realizzato non con la forza, ma con fraudolenta astuzia. L’affermazione può apparire “stupefacente”. Obiettivamente lo è. La assoluta incredulità è una reazione del tutto naturale e comprensibile.
Per la dimostrazione occorre indicare:
a) quali sono i poteri costituzionali degli stati membri e quali gli aspetti fondamentali del diritto dell’Unione che hanno formato oggetto del “golpe”; b) con quali atti il “golpe” è stato realizzato e quali ne sono stati gli autori; c) in cosa sono consistite le astuzie fraudolente, alle quali si è fatto riferimento.
a1) Si risponde separatamente per gli stati membri e per l’Unione. Il Tue non contempla alcuna procedura specifica per le sue variazioni. In quanto Trattato multilaterale di diritto internazionale, sarebbe stato un dovere dell’Unione che i suoi organi competenti lo rispettassero e lo facessero rispettare. Non avrebbero dovuto consentire che modifiche di aspetti fondamentali del sistema si producessero in assenza di un nuovo Trattato. La disciplina introdotta con fraudolenza formò invece oggetto di un regolamento previsto dal Trattato in funzione di un unico e specifico compito. Adottare indirizzi di massima al fine del coordinamento delle “politiche economiche” degli stati membri (artt. 102 A, 103, Tue). Il diritto costituzionale degli stati membri è stato violato perché non sono state osservate le norme costituzionali interne da osservarsi nella ratifica dei Trattati. La sovranità degli stati membri è stata vulnerata perché è stata loro sottratta la funzione “esclusiva” da esercitarsi, singolarmente e come gruppo, di promuovere lo sviluppo dell’Ue e della zona euro con le proprie “politiche economiche”. La costituzione degli stati è stata violata perché sono stati imposti ai loro organi interni obblighi e condotte che i rispettivi ordinamenti costituzionali non contemplano.
b1) Il golpe è stato attuato a mezzo del regolamento 1466/97. Per la formazione del regolamento, come si è detto, si è fatto ricorso alla procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) Tue che, nello stesso momento in cui è stata utilizzata, è stata anche violata perché ce se ne è avvalsi per uno scopo diverso dall’unico previsto. La procedura di cui agli artt. 103, n. 5 e 189 c) Tue in nessun modo avrebbe potuto essere impiegata per modificare norme fondamentali del Trattato. L’essersene avvalsi configura una ipotesi non di semplice illegittimità, bensì di incompetenza assoluta. Gli atti adottati sono di conseguenza non illegittimi, ma nulli/inesistenti.
b2) Le persone fisiche, alle quali far risalire l’attuazione del golpe e dei mezzi fraudolenti per realizzarlo sono ignote. Non si conosce né chi ne sia stato l’ideatore, né il nome dell’estensore materiale del testo del regolamento. Una inchiesta del Parlamento europeo potrebbe ancora identificarli. La responsabilità formale del “golpe” è dei membri della Commissione e dei titolari degli organi dell’Unione e dei governi dei paesi membri che parteciparono in ciascuna delle fasi alla procedura di formazione del regolamento 1466/97.
c1) Gli assetti fondamentali, modificati illegalmente dal reg. 1466/97, sono diversi per l’Unione e per gli stati membri. Quanto all’Unione è stato modificato, in modo radicale e irreversibile, l’obiettivo principale, consistente (artt. 2 e 3 Tue) nel conseguimento di uno sviluppo dalle caratteristiche e secondo le modalità previste nei suddetti articoli e nell’aver abrogato, per avere regolato in modo diverso la intera materia, l’art. 104 c) Tue, contenente la disciplina dei mezzi di cui gli stati si sarebbero potuti avvalere per l’adempimento all’obbligo di promuovere sviluppo.
Quanto agli stati, l’illecita variazione consiste nell’averli privati, con l’abrogazione degli artt. 102 A, 103, 104 c) Tue, nonché di altri connessi, a mezzo di norme (quelle del reg. 1466/97) regolanti in modo diverso l’intera materia, degli unici poteri politici ad essa attribuiti in funzione alla conduzione economica dell’Unione.
c2) Il reg. 1466/97 malgrado la sua apparente innocenza, oltre a modificare la disciplina di vertice dell’Unione e degli stati, ha inciso sul carattere fondamentale dell’Unione, in assenza del quale gli stati non sarebbero stati legittimati a parteciparvi, quello della “democraticità”. E’ l’affermazione che tra tutte genera la massima incredulità.
Tutto ha origine dal sospetto di alcuni degli stati più forti che qualcuno dei più deboli, per superare lo scrutinio, si sarebbe avvalso di dati non veritieri. E’ ipotizzabile che a ciò si debba l’origine del reg. 1466/97. Sarebbe stato il rimedio ove effettivamente qualcuno degli stati membri fosse riuscito a superare lo scrutinio senza averne il diritto. Il rimedio non avrebbe condotto alla guarigione. Avrebbe prodotto danni gravi. Dimostratisi poi irreversibili.  Va aggiunto che a fine 1996 gli andamenti delle economie degli stati membri suscitavano preoccupazioni. Il rapporto debito/pil negli stati principali era cresciuto a un livello e con rapidità non previsti. Il debito francese dall’iniziale 35 per cento in rapporto al pil era passato al 58,7 per cento, quello tedesco dal 40 al 59,8 per cento, quello italiano dal 100,8 al 116.8 per cento. Era stato preventivato che nella fase transitoria vi sarebbe stato un rallentamento del pil. Ma si registrava un deterioramento superiore alle previsioni. Si dubitò della effettiva capacità delle norme a realizzare gli obiettivi assegnati, in particolare sulla effettiva corrispondenza della nuova moneta al vecchio marco. Si pensò di superare ogni incertezza, rafforzando la “stabilità”, assumendola a oggetto di un vincolo di carattere generale. A maggior ragione la dimostrazione della soppressione del regime democratico dovrà essere analitica e precisa nei dettagli. Riceverà conferma dagli effetti concretamente prodottisi.
In cosa è consistito il disegno “fraudolento” che ha portato alla approvazione del reg. 1466/97? La procedura utilizzata non era stata mai impiegata e non avrebbe mai più potuto esserlo nella sua portata originaria in quanto con il reg. 1466/97 sono state cancellate le “politiche economiche” degli stati che della disciplina degli artt. 102 A e 103 del Tue costituivano il presupposto.
La procedura del regolamento era iniziata nel novembre 1996. Il primo atto pubblicato è apparso sulla Gazzetta ufficiale del 6 dicembre di quell’anno. A quel tempo l’attenzione degli stati membri era concentrata sullo scrutinio di ammissione all’euro, che avrebbe dovuto tenersi entro il 31 dicembre 1996 (art. 109 J). Era stato poi rinviato al 1998. La nuova moneta suscitava grandi speranze. Non si prestò attenzione al reg. 1466/97. Era un atto che non incideva sullo scrutinio. Riguardava il periodo successivo. Il testo ne prevedeva l’entrata in vigore al 1° luglio 1998. Ce se ne sarebbe occupati quando fosse venuto il suo tempo, sempre che si fosse superato lo scrutinio. Il testo del regolamento era scritto in modo rassicurante. Prometteva (art. 3, n. 1) una crescita vigorosa, sostenibile e favorevole alla creazione di posti di lavoro. A voler essere pignoli, il vigore era qualcosa di più e di diverso di quanto l’art. 2 Tue esigeva e prometteva.
La procedura del reg. 1466/97 si è chiusa con la deliberazione del Consiglio del 7 luglio 1997. Gli stati partecipavano al Consiglio con un rappresentante a livello ministeriale abilitato a impegnare il rispettivo governo (art. 146 Tue). Gli stati se potevano essere giustificati per non avere prestato sufficiente attenzione al testo del regolamento alla data, anteriore al novembre 1996, della prima delibera del Consiglio, nel 1997 non avrebbero potuto disinteressarsi della sorte che li attendeva una volta superato lo scrutinio. Non è avvenuto. E’ lecito il sospetto che vi abbia influito la sapiente scelta delle date.
L’adozione del regolamento avvenne il 7 luglio 1997. Era il tempo in cui la Commissione avrebbe cominciato a esaminare la documentazione presentata dagli stati ai fini dello scrutinio. Il 25 marzo 1998 la Commissione formulò la proposta per l’ammissione di undici stati sui dodici aspiranti. La Spagna sarebbe stata rinviata all’anno successivo. Il Consiglio, nella composizione di capi di stato o di governo, fece sua la proposta della Commissione. Il reg. 1466/97 fissava (art. 13) esso stesso la data della sua entrata in vigore al 1° luglio 1998. Per quale ragione se ne era richiesta l’adozione da parte degli stati prima che venisse effettuato lo scrutinio e se ne conoscesse l’esito se il regolamento avrebbe dovuto e potuto applicarsi solo agli stati ammessi?
“Caro stato membro – sembra sentire che la richiesta di adesione quasi sussurrasse – se non firmi subito, il consenso all’ingresso nell’euro potrebbe essere problematico”. Un ricatto frutto della casualità delle date o intenzionale?
Alla base di ogni moneta vi è sempre una disciplina giuridica. Può essere quella propria di un regime di mercato, quella di un regime di stampo collettivista, o quella di una economia mista. Queste tipologie, diverse tra loro, hanno un elemento in comune. Alla gestione della moneta è sempre preposta una autorità politica facente parte dell’organismo di vertice. Nei regimi di mercato l’autorità politica è coadiuvata dal responsabile della Banca centrale. L’euro costituisce il primo esempio di una moneta in cui, secondo la disciplina del Trattato, vertici politici, pur partecipando alla gestione della moneta, non ne avrebbero avuto la responsabilità esclusiva. Avrebbe avuto parte nella gestione e vi avrebbe esercitato un ruolo dominante, una disciplina astratta. La specificità della nuova moneta, l’euro, sarebbe stata desumibile dalla disciplina alla quale il Tue l’assoggettava.
Il 1° gennaio 1999 è stata immessa sui mercati la moneta disciplinata dal reg. 1466/97.Se si accerterà che la disciplina del regolamento è diversa, anzi opposta rispetto a quella del Tue, bisognerà concludere che l’euro circolante dal 1° gennaio 1999 è un’altra moneta rispetto a quella del Trattato. Questa nuova moneta usa il nome e i simboli di quella voluta dal Trattato. La moneta disciplinata dal Trattato è l’unica “autentica”. Non essendo avvenuto il suo lancio né alla data stabilita, né in qualsiasi altra successiva, l’“euro autentico” è una moneta mai nata. Quella che usurpa il suo nome, e che è stata presentata come se fosse quella del Trattato e in quanto tale accettata nei mercati, è una moneta falsa che, nascoste le proprie natura e identità, si appropria di quelle dell’euro autentico. 

La hybris di Bruxelles, di Antonio Pilati

Le élite del continente e la loro idea che la razionalità di un disegno illuminato potesse sterilizzare varietà storica, differenze di mentalità e di strutture materiali

Il saggio di Giuseppe Guarino usa due piani di analisi diversi che, combinandosi, si rafforzano a vicenda. C’è anzitutto un esame sistemico formale che ricostruisce nei passaggi essenziali la deviazione impressa al processo di integrazione comunitario, quale sancito nei Trattati, da un regolamento, in apparenza minore e tecnico, approvato nel luglio 1997 mentre si svolgeva la fase di scrutinio dei requisiti di ciascuno degli stati candidati all’adozione dell’euro (l’esame si conclude nel marzo 1998 e l’euro debutta in 11 stati il 1° gennaio 1999). C’è poi un’analisi strategica che mette a tema, come radice e modulo costante dei disastri che da tempo inseguono l’Europa, l’idea di basare il processo di integrazione sul rigetto della politica, mettendo ai margini il rapporto fra le decisioni di lungo periodo prese dai vertici comunitari e la volontà dei cittadini.
Il regolamento 1466/97 è il grande protagonista del racconto di Guarino: rappresenta il punto di svolta, lo strumento con cui agli stati è imposto di raggiungere un risultato numerico (la parità di bilancio a medio termine) monitorato ogni anno da organismi comunitari: di fatto ciò vincola la politica economica degli stati, in particolare la facoltà di usare – entro certi limiti – la leva del debito, e quindi toglie loro il potere, sancito nel Trattato di Maastricht, di perseguire con modalità decise in autonomia lo sviluppo dell’economia. Un piccolo gioco di prestigio procedurale: gli stati sono concentrati sui criteri dello scrutinio per l’ammissione all’euro, la congiuntura sta rallentando e mette in pericolo il calendario per l’adozione della moneta unica, il regolamento è presentato come deterrente per azioni che minacciano la stabilità, tutto quanto facilita l’approvazione disattenta di una norma che invece per Guarino è un autentico “golpe” degli uffici di Bruxelles.
Il giudizio è molto forte, fa sensazione: non lo si comprende se non lo si mette in relazione con il secondo livello dell’analisi – quello politico. Guarino insiste molto sul fatto che, fin dall’inizio del processo che porta alla moneta unica, ai vertici politici sono attribuiti poteri di raggio molto ridotto. “Alla gestione della moneta è sempre preposta una autorità politica facente parte dell’organismo di vertice. Nei regimi di mercato l’autorità politica è coadiuvata dal responsabile della Banca centrale. L’euro costituisce il primo esempio di una moneta in cui, secondo la disciplina del Trattato, vertici politici, pur partecipando alla gestione della moneta, non ne avrebbero avuto la responsabilità esclusiva”. E’ il prezzo pagato alla volontà della Germania appena unificata di mantenere la stabilità come un bene essenziale, sottratto al gioco mutevole delle influenze politiche. I vincoli – riferiti al pil – del deficit annuo al 3 per cento e del debito totale al 60 per cento sono garanzie offerte al primato della stabilità: la volontà tedesca si sente tutelata da automatismi per quanto si può infrangibili che lasciano ai margini – quasi come un fattore di disturbo – la decisione politica. In ciò si intravvede una convergenza rilevante con la dinamica di espansione dello spazio economico comune affidata in gran parte a decisioni delle Corti o di organismi di gestione come la Commissione e quindi lasciata fuori dal circuito di cognizione e di scelta delle opinioni pubbliche.
In sintesi, il regolamento 1466/97 intensifica e drammatizza una tendenza di lungo periodo: elimina infatti “l’unico spazio di attività politica soggetto alla influenza dei cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche, a mezzo delle quali ciascun paese membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e dell’Unione. La competenza politica degli stati membri, oggetto di un diritto potestativo, non è stata sostituita da altre di eguale carattere politico”. La sovranità si disperde: la riduzione della politica sfocia in una perdita dei poteri disponibili agli stati europei. Gli algoritmi di bilancio, che vogliono togliere campo discrezionale ai decisori, diventano guide cogenti dell’Unione: “Il sistema risulta autoprotetto”, “l’organismo si è robotizzato”. L’idea di contenere la politica per salvaguardare la dinamica comunitaria dalla contingenza non prevedibile dell’opinione pubblica porta dritto a una restrizione della democrazia: “Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico”. E’ la base da cui Guarino deriva la definizione di “golpe”. 
In realtà la riduzione ai margini della politica sembra, più che un golpe, un caso di hybris megalomane: le élite del continente hanno creduto che la razionalità di un disegno illuminato potesse sterilizzare la varietà storica, le differenze di mentalità e di strutture materiali, la pluralità di interessi condensati dal tempo nelle comunità nazionali. Ma il campo eterogeneo delle economie assemblate con l’euro reagisce in modo vario agli algoritmi degli ingegneri monetari, non si lascia spianare dal sistema robotizzato. La crisi del 2007-’8 è come un accesso di realtà: la diversità delle economie trascina, nei mercati finanziari, valutazioni divergenti circa le chance dei singoli stati di ripagare i propri debiti; le strategie di riforma dei governi quasi mai riescono ad attingere il modello di efficienza mercantilista imposto dall’ideologia della stabilità (in Italia, come in molti altri paesi, fanno attrito gli interessi dei gruppi che traggono profitti dalla spesa pubblica e dalle protezioni sociali); gli accessi alle risorse finanziarie e al credito si divaricano nei vari stati portando vantaggi ai forti e danni ai deboli. Gli algoritmi creati per far convergere le economie generano invece crescente divergenza, mentre resta disabilitata ogni visione strategica, colpita dagli interdetti che alla politica commina l’ideologia ufficiale.
La Germania, titolare del modello cui gli altri stati sono chiamati a conformarsi e abile nell’organizzare la disciplina salariale e gestionale che esso richiede (grazie anche allo sforzo di coesione fatto per integrare la metà ex comunista), rafforza la supremazia continentale sfruttando al meglio il suo vantaggio di posizione e bloccando i deboli tentativi di aggiornare l’impianto di base dell’euro. Il risultato sono crescenti difformità strategiche fra gli stati che, sotto traccia, aumentano l’opportunismo strategico e l’inclinazione conflittuale.
Guarino alla fine della sua analisi propone di smontare l’euro e propende per un’aggregazione fra stati mediterranei, Francia inclusa, capace di valorizzare la lunga tradizione europea delle autonomie locali. Le élite illuminate hanno fatto un enorme investimento sulla moneta unica e, sfidando l’impopolarità che colpisce i governi nazionali, blindano con correttivi marginali la propria scelta. Ma forse ciò non basta. Ai contrasti fra stati e alle sofferenze dei popoli si aggiungono ora l’ostilità degli Stati Uniti, che perseguono una cura della crisi antitetica a quella euro-stabile, e la diffidenza della Russia. Le tensioni che si accumulano sull’attuale assetto dell’Unione appaiono sempre più forti.
Alla fine del saggio Guarino auspica un grande sforzo di creatività istituzionale e richiama “la ‘fantasia al potere’”. Il momento è veramente difficile.