venerdì 8 novembre 2013

Ora basta lagne, di Carlo Altomonte

Chi si lamenta con Draghi per “l’euro troppo forte” dovrebbe aggiornarsi sulla teoria economica

Da quando a metà luglio la Federal reserve ha lasciato intuire di voler continuare, almeno per il momento, nella sua politica di stimolo monetario (o Quantitative easing), l’euro ha iniziato rapidamente ad apprezzarsi rispetto al dollaro, con un movimento che a fine ottobre ha toccato un massimo di 8 punti percentuali (da 1,28 a 1,38 dollari per euro). Lo spostamento – invertito per il momento dalla decisione presa ieri dalla Banca centrale europea (Bce) che ha tagliato ancora il costo del denaro – non è stato indolore: in molti casi le trimestrali di diverse multinazionali europee, che dalle esportazioni traggono al momento la maggiore fonte di guadagno rispetto all’anemica domanda continentale, hanno registrato una revisione al ribasso degli utili, e molte di queste imprese hanno citato “l’euro forte” come concausa di questa revisione. Da qui è immediatamente partito il dibattito sulla opportunità che la Bce si doti di una politica più esplicita di controllo del tasso di cambio, senza lasciare che lo stesso sia interamente determinato dal mercato, o dalle azioni delle Banche centrali di Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, al fine di impedire una eccessiva rivalutazione dell’euro e dunque rischiare di soffocare sul nascere la già debole ripresa in atto in Europa. (Anche se Mario Draghi ha ribadito che i tassi di cambio “non sono un obiettivo della politica monetaria”).
Questo dibattito dà evidentemente per scontato che esista una forte relazione causale tra rapporti di cambio e competitività d’impresa, un assunto che, data la complessa realtà del mondo globale di oggi, va analizzato con cautela. In generale, guardando ai dati degli ultimi anni raccolti in una recente ricerca di Barclays, non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello del tasso di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali.
Come è possibile che un euro che si rafforza rispetto al dollaro non penalizzi automaticamente le esportazioni del nostro continente? Questo accade perché in un mondo caratterizzato da catene globali del valore e frammentazione internazionale della produzione le imprese che producono su scala planetaria sono in realtà parzialmente protette dagli effetti di una variazione del tasso di cambio del mercato domestico.
Consideriamo un semplice esempio: lo spazzolino da denti elettronico prodotto da una nota multinazionale europea viene assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse) in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare da solo la competitività di questo prodotto? E se immaginiamo che il prodotto in questione venga assemblato fuori dall’Europa, al fine di produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro a gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entra l’euro con la profittabilità di queste aziende?
In realtà in questi casi un effetto lo si potrebbe avere, ma è di natura puramente contabile: poiché i profitti sono registrati in valuta locale, ma sono consolidati a livello di casa madre in euro, un apprezzamento repentino riduce il valore nominale (espresso in euro) dei profitti esteri, anche se non ha nessun effetto strutturale sui volumi di vendita (o sulla competitività) delle aziende in questione. Più che invocare l’aiuto della Banca centrale europea, in questi casi sarebbe forse opportuno suggerire a queste aziende di dotarsi di un adeguato meccanismo di copertura dal rischio di cambio.
Certo, non tutte le aziende sono grandi multinazionali. In particolare, le aziende medio-piccole vendono attraverso l’esportazione diretta dal proprio paese, piuttosto che attraverso siti produttivi esteri extra-europei; inoltre, non tutte le multinazionali europee producono al di fuori dell’Europa, e dunque in questo caso l’effetto sarebbe ulteriormente diversificato. In effetti, la ricerca economica – a partire dallo studio “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” degli economisti Oleg Itskhoki, Mary Amiti, Jozef Konings – dimostra che, in un paese come il Belgio, un rafforzamento del cambio si traduce quasi interamente in una proporzionale perdita di competitività, mentre le grandi aziende multinazionali sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento di questa eventuale variazione del cambio.
Tuttavia anche in questo caso sono opportune due precisazioni: innanzitutto, le grandi multinazionali in ogni paese rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, dunque di fatto una gran parte dell’export di un paese europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio. In secondo luogo, le aziende medio-piccole tendono in maniera più che proporzionale a esportare all’interno dell’area euro, piuttosto che al di fuori, e dunque anche qui l’effetto euro non conta.
In sintesi, nel mondo globale di oggi, la relazione tra tasso di cambio e competitività è quanto meno complessa, e in ogni caso non è il tasso di cambio la determinante principale di quest’ultima. Variabili quali efficienza, innovazione e capacità di integrazione dell’azienda nelle catene globali del valore sono molto più importanti. Piuttosto che di livelli di tasso di cambio, sarebbe opportuno dibattere maggiormente in Europa su come sviluppare queste ultime.

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