In questi giorni il Foglio pubblica a puntate un magistrale saggio “no euro”.
L’autore è Giuseppe Guarino, giurista classe 1922, uno dei primi professori ordinari di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma, dove esaminò tra gli altri Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, poi anche ministro delle Finanze (1987) e dell’Industria (1992-’93).
Mercoledì scorso è uscita la prima parte, introdotta da un articolo di Antonio Pilati. Ieri, accompagnata da questo approfondimento di Franco Debenedetti, la seconda parte. Nel numero di oggi la terza e ultima parte.
Guarino già nel 2012 pubblicò analisi lucide e controcorrente sugli accordi legali con cui l’Unione europea – soprattutto su spinta del paese leader, la Germania – stava cercando di vincolare i suoi conti pubblici. Fonti giuridiche alla mano, il professore sostenne – anche in una lunga intervista a questo giornale – che l’impegno a mantenere il bilancio in pareggio o in avanzo era semplicemente “inapplicabile”. Gli articoli del Fiscal compact, infatti, contraddicevano gli stessi trattati costitutivi dell’Unione europea su cui si fondavano; questi ultimi fissavano al 3 per cento il limite di indebitamento netto possibile per ogni stato, cioè garantivano una discrezionalità della politica fiscale che invece sull’onda della crisi è stata requisita. Con effetti economici, argomentava in seconda battuta Guarino, disastrosi. A un anno di distanza da quel primo saggio, il professore – le cui tesi sono state discusse anche dalla stampa tedesca, oltre che da economisti e giuristi italiani – ha approfondito ulteriormente la sua analisi giuridica del processo di integrazione comunitaria. Arrivando a datare, al 1° gennaio 1999, un “colpo di stato”, espressione “usata quando si modifica in aspetti fondamentali il sistema costituzionale di uno stato – scrive – con violazione delle norme costituzionali vigenti”. Come si realizzò dunque questo golpe? Attraverso un regolamento comunitario, il numero 1466/97 per la precisione, con cui “in ciascuno degli stati membri viene cancellato il diritto-potere di ciascuno di essi di influire sulla crescita con le proprie politiche economiche, i loro cittadini non hanno alcuna possibilità di influire sugli obblighi cui il proprio paese, quindi essi stessi vengono assoggettati”. Già quel regolamento, imponendo il pareggio di bilancio contro la stessa lettera dei Trattati, per di più alla chetichella e senza quella pubblicità che perlomeno caratterizzò la stipula del Fiscal compact oltre dieci anni dopo, privò di fatto gli stati democratici della loro politica fiscale. Il tutto in funzione dell’introduzione della moneta unica. Con l’entrata in vigore del regolamento, però, “la democrazia è stata soppressa”, scrive Guarino guidando il lettore tra ricostruzione storica e analisi del diritto, tra responsabilità politiche e colpe individuali, fino a immaginare possibili vie d’uscita.
La scrittura del giurista è piana e lineare, le sue argomentazioni approfondite e mai reticenti, attraenti ma pur sempre falsificabili. Tutto ciò rende il testo “magistrale”, per l’appunto, che lo si condivida o meno. Nell’attesa delle elezioni europee, che secondo molti dovrebbero sancire l’avanzata senza precedenti dei partiti anti euro, il saggio costituisce un utile banco di prova per quelle élite che – come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – non vorranno limitarsi a “esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passe-partout (che non spiegano nulla) come il termine ‘populismo’”. Una sfida intellettuale per classi dirigenti pronte a guidare l’opinione pubblica, certo, ma non imprudenti a tal punto da inscenare una insostenibile “ribellione delle élite”.
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