La rinunzia di Benedetto e l’elezione di Francesco. Domanda: chi è il Papa? Il carisma giuridico di un vescovo che ha un primato sui confratelli. Per Cristo
La domanda “chi è il Papa?” sorge spontanea ogni qual volta è eletto un nuovo Pontefice, soprattutto quando il suo nome o la sua storia personale sono ignoti al grande pubblico. Tale non fu il caso del cardinale Joseph Ratzinger, romano di adozione, dopo tanti anni passati come prefetto della congregazione per la Fede, ma tale fu il caso di Karol Wojtyla, venuto da Cracovia, e lo è oggi di Jorge Mario Bergoglio, giunto da una diocesi ancora più lontana, ai confini del mondo, come egli stesso ha detto il giorno della sua elezione.
E’ comprensibile che nei primi giorni e settimane successivi all’elezione si cerchi di scandagliare il passato prossimo o remoto del nuovo Pontefice, di conoscerne le idee, le tendenze, le abitudini, per dedurre dalle parole e dai gesti del passato il programma del nuovo pontificato. Il volume El jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio (Vergara, Buenos Aires 2010, a cura di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti), delinea già il volto di un papabile, e merita di essere conosciuto. Meno nota è la reazione indignata che a quel volume ha dedicato uno studioso argentino di orientamento tradizionale, Antonio Caponnetto (La Iglesia traicionada, Editorial Santiago Apostol, Buenos Aires 2010). Né si potrà capire chi è il nuovo Pontefice, senza conoscere il giudizio che di lui dà il padre Juan Carlos Scannone, un gesuita, discepolo di Karl Rahner, che lo ha avuto come allievo e che ascrive l’arcivescovo di Buenos Aires alla “scuola argentina” della teologia della liberazione (la Croix, 18 marzo 2013).
L’“opzione preferenziale dei poveri” del card. Bergoglio si radica in particolare nell’insegnamento di Lucio Gera e Rafael Tello, gli esponenti di una “teologia del popolo”, caratterizzata dalla sostituzione della prassi della povertà alla ideologia della rivoluzione armata. Carlos Pagni, analizzando, sulla Nación del 21 marzo il “Método Bergoglio para gobernar”, spiega la ragione teologica per cui la “periferia” occupa il posto centrale nel paesaggio ideologico dell’arcivescovo Bergoglio. I poveri per lui non sono una realtà sociologica da aiutare, ma un soggetto teologico da cui apprendere: “Questa attitudine pedagogica ha una radice religiosa: la relazione del popolo con Dio sarebbe più genuina perché manca di contaminazioni materiali”. Anche Maurizio Crippa sul Foglio del 23 marzo (La povertà è un segno teologico, non sociologia) sottolinea questo aspetto, ricordandone le remote ascendenze: “La posta in palio è sempre trasformare la chiesa nel popolo dei poveri in cammino, meglio se autoconvocato: dai Poveri di Lione, detti poi valdesi, a tutte le correnti ortodosse o ereticali che attraversano il Medioevo, gli Umiliati e Fra’ Dolcino, con deviazioni che arrivano fino a Tolstoj, e su su in un percorso di spoliazione e rigenerazione che ritorna identico dalle ‘Cinque piaghe della santa chiesa’ di Antonio Rosmini – la quinta è proprio ‘La servitù dei beni ecclesiastici’ – alle teologie della chiesa povera conciliari”.
Si tratta di temi che sarebbe utile approfondire. Ma in fondo non è questo il punto. La vita di un uomo, anche di un Papa, non si misura con i gesti del passato, cambia ogni giorno e ogni giorno può essere azzerata da svolte, maturazioni, direzioni di cammino nuove e impreviste.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.
Ogni svolta di pontificato, piuttosto che sollecitare quegli interrogativi a cui solo il futuro può rispondere, dovrebbe offrire l’occasione per meditare su ciò che il nuovo eletto rappresenta; di riflettere sul papato come istituzione, più che sul Papa come personaggio. E questo soprattutto in un momento in cui, tra l’11 febbraio e il 13 marzo del 2013, sembra essere stata profondamente ferita la stessa costituzione del papato.
Il primo colpo di questa flagellazione è stato la rinuncia al pontificato da parte di Benedetto XVI, un evento canonicamente legittimo, ma dall’impatto storico devastante. “Un Papa che si dimette – ha osservato Massimo Franco – è già un avvenimento epocale, nella storia moderna. Ma un Pontefice che lo fa nel pieno delle proprie facoltà mentali, indicando come motivazione semplicemente la fragilità che deriva dall’età, spezza una tradizione plurisecolare” (“La crisi dell’impero vaticano”, Mondadori, Milano 2013, p. 9).
Un secondo colpo all’istituzione è stata la scelta, da parte di Benedetto XVI, di autodefinirsi “Papa emerito”, conservando il nome e la veste pontificia e continuando a vivere in Vaticano. Canonisti autorevoli, come Carlo Fantappiè, hanno rilevato la novità del gesto, sottolineando come “la rinuncia di Benedetto XVI ha posto gravi problemi sulla costituzione della chiesa, sulla natura del primato del Papa nonché sull’ambito ed estensione dei suoi poteri dopo la cessazione dell’ufficio” (Papato, sede vacante e “Papa emerito”. Equivoci da evitare, in chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350457).
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?
La coesistenza di un Papa che si presenta come vescovo di Roma e di un vescovo (perché tale è oggi Joseph Ratzinger) che si autodefinisce Papa offre l’immagine di una chiesa “bicefala” ed evoca inevitabilmente le epoche dei grandi scismi. Non si comprende, a questo proposito, il risalto mediatico che le autorità vaticane hanno voluto dare all’incontro dei due papi, il 23 marzo a Castel Gandolfo. L’immagine che ha fatto il giro del mondo e che lo stesso Osservatore Romano ha pubblicato in prima pagina il 24 marzo è quella di due uomini che il linguaggio dei simboli pone su un piano di assoluta parità, impedendo di discernere in maniera immediata, chi di essi è l’autentico Papa. L’evento contrasta inoltre con l’assicurazione, data dalla sala stampa della Santa Sede, secondo cui, dopo il 28 febbraio, Benedetto XVI avrebbe rinunciato al palcoscenico mediatico, ritirandosi nel silenzio e nella preghiera. Non sarebbe stato più saggio se l’incontro si fosse svolto lontano dai riflettori? Oppure esiste, dietro la scelta mediatica, una lucida strategia, e quale?
Uno studioso di Storia del cristianesimo, Roberto Rusconi, ha descritto da parte sua lo scenario dell’enciclica incompiuta di Joseph Ratzinger sulla fede, dopo quelle già promulgate sulla carità e la speranza. “L’enciclica non terminata, – osserva Rusconi – potrebbe essere in seguito pubblicata alla stregua di qualsiasi altro testo di Joseph Ratzinger, il quale durante il pontificato ha ripetutamente sostenuto che i propri ultimi volumi in nessun modo dovessero essere ritenuti espressione diretta del suo magistero pontificio” (Roberto Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 143-144). Se ciò dovesse accadere, il risultato sarebbe quello di minare alla base l’autorevolezza non solo dei precedenti documenti promulgati da Benedetto XVI, ma anche quelli emanati dal successivo Pontefice, perché si dissolverebbe la percezione di ciò che è atto magisteriale e ciò che non lo è, frantumando quel concetto di infallibilità, di cui tanto a sproposito spesso si parla.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.
Esistono fautori dichiarati di un ridimensionamento del papato, che si richiamano generalmente a un passo di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ut Unum sint del 25 maggio 1995, in cui Papa Wojtyla si dice disposto a “trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova” (n. 88). Da qui la distinzione, fatta da Giuseppe Alberigo e dalla scuola di Bologna, tra l’essenza immutabile del papato e “le forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia (Forme storiche di governo della chiesa, in “Il Regno”, 1° dicembre 2001, pp. 719-723). Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del papato dal suo spirito originario. Dalla metà del Quattrocento, secondo un altro storico bolognese, Paolo Prodi, si è avviata una metamorfosi del papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il papato viene però sconfitto dallo stato moderno, poiché, mentre la chiesa si secolarizza, lo stato si sacralizza (Il sovrano Pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306). A partire dalla Rivoluzione francese. però, la chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, avrebbe iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente, secondo Alberigo e i suoi discepoli, il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”.
Queste tesi sono state riproposte, sul piano teologico, in un recente libro che il decano degli ecclesiologi italiani Severino Dianich ha dedicato al ministero del Papa (Per una teologia del papato, Cinisello Balsamo, San Paolo 2010). Il centro del discorso è il passaggio da una visione giuridica della chiesa, basata sul criterio di giurisdizione, a una concezione sacramentale, basata sull’idea di comunione. Il nodo del problema risale alla discussione che si ebbe in concilio sulla interpretazione del n. 22 della Lumen Gentium e sulla Nota praevia che a questo documento seguì durante quella che i progressisti definirono la “settimana nera” del Vaticano II. I rapporti tra il Papa e i vescovi, dopo il Vaticano II, secondo Dianich, non possono più essere improntati alla delega e alla subordinazione. Il Papa non governa “dall’alto” la chiesa, ma la guida nell’ordine della comunione. Il suo potere di giurisdizione verrebbe infatti dal sacramento e, sotto l’aspetto sacramentale, il Papa non è superiore ai vescovi. Egli, prima di essere pastore della chiesa universale, è vescovo di Roma, e il primato che sulla chiesa universale esercita non è di governo ma di amore, proprio perché, ontologicamente, come vescovo, il Papa è sullo stesso piano degli altri vescovi. Per questo Dianich vorrebbe attribuire maggior potere al collegio episcopale attribuendo a esso la possibilità di legiferare autorevolmente. Il Papa dovrebbe esercitare il suo primato in maniera nuova, associando al suo potere organi deliberativi o consultivi, quali possono essere conferenze episcopali, sinodi, o comunque organismi permanenti, che lo coadiuvano nel governo della chiesa. Si tratterebbe di un primato di “onore” o di “amore”, ma non di governo e di giurisdizione della chiesa.
Queste tesi però sono, in primo luogo, storicamente false. La storia del papato non è infatti la storia di forme storiche diverse e tra loro confliggenti, ma l’evoluzione omogenea di un principio di suprema giurisdizione presente nelle parole di Gesù Cristo che a san Pietro e a lui solo disse: Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia chiesa (Mt. 16, 14-18). Quando san Clemente (92-98 o 100), terzo successore di Pietro come vescovo di Roma, agli inizi dell’impero di Nerva (circa il 97), intervenne per ristabilire l’unità nella chiesa di Corinto, sconvolta da una violenta discordia, si richiamò al principio di successione stabilito da Cristo e dagli apostoli, esigendo obbedienza e minacciando persino sanzioni qualora le sue disposizioni non venissero eseguite (Lettera Propter subitas ai Corinzi, in Denz-H, nn. 101-102). Il tono autorevole della lettera e la venerazione con cui essa fu accolta sono una prova chiara del Primato del vescovo di Roma alla fine del primo secolo.
Circa dieci anni dopo, sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, durante il viaggio da Antiochia a Roma, dove fu martirizzato, scrisse una lettera ai romani in cui riconosce alla chiesa di Roma una posizione di preminenza sull’intera chiesa universale, affermando: “Voi avete istruito gli altri ed io desidero che restino ferme quelle cose che voi prescriveste col vostro insegnamento” (Epistula ad Romanos, 3, 1). La sua affermazione, tanto spesso citata a sproposito, secondo cui la chiesa di Roma “presiede all’agape”, va intesa nel suo retto senso. L’“agape”, non è generica “carità”, ma è, per Ignazio, la chiesa universale (che egli per primo chiama cattolica), unita dal vincolo dell’amore.
Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.
Nel corso dei secoli il Primato pontificio, concepito come principio attivo e centrale di governo della chiesa universale, rimase la nota caratteristica del papato, così come la Costituzione monarchica e gerarchica continuò a caratterizzare la chiesa nel corso dei secoli. Nelle epoche che la chiesa attraversò, ogni qual volta il pontificato è stato debole, assente o inefficace, si sono prodotti scismi, eresie, sconvolgimenti religiosi e sociali. Al contrario, le grandi riforme e la rinascita della chiesa si sono avute con papi che hanno esercitato il loro governo nella pienezza dei loro poteri, da san Gregorio VII a san Pio X.
Il munus specifico del Sommo Pontefice non consiste nel suo potere di ordine, che egli ha in comune con tutti gli altri vescovi del mondo, ma nel suo potere di giurisdizione, che lo distingue da ogni altro vescovo, perché solo nel suo caso questo potere è pieno ed assoluto ed è fonte del potere degli altri vescovi. Il potere di Magistero fa parte del primato di giurisdizione e l’infallibilità costituisce l’espressione più alta e perfetta del Primato pontificio, una sovranità ancor più necessaria di quella delle società temporali.
Il potere di giurisdizione è eminentemente potere di governo. Il Papa è tale perché governa la chiesa esercitando una giurisdizione dottrinale e disciplinare che non può delegare: non esiste infatti una differenza tra il potere di governo e il suo esercizio, quasi immaginando la possibilità di un governo la cui caratteristica sia quella di non governare. L’essenza del papato ha in questo senso caratteristiche immutabili: è un governo assoluto, che non può essere delegato ad altri, né in tutto né in parte. Il papato è una monarchia assoluta in cui il Sommo Pontefice regna e governa e non può essere trasformato in una monarchia costituzionale, in cui il sovrano regna ma non governa. Un cambiamento di tale governo non toccherebbe la forma storica, ma l’essenza divina del papato.
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri
Non si tratta di un’astratta diatriba, ma di un problema teologico dalle concrete ricadute storiche. L’epoca della mondializzazione dei mercati e della rivoluzione informatica ha visto il tracollo degli stati nazionali, sostituiti da nuovi poteri, finanziari e mediatici. Ma il caos e la frammentazione e la conflittualità dei nuovi scenari derivano proprio da questa perdita di sovranità, di cui è eloquente esempio l’Unione Europea nata dai Tratti di Maastricht, che non si presenta come un “super-Stato” europeo, ma come un non-stato, caratterizzato dalla moltiplicazione dei centri di decisione, e dalla confusione dei poteri
L’autorità e la forza degli Stati nazionali e delle democrazie rappresentative si sbriciola e il vuoto è occupato da lobby ideologiche e finanziarie, visibili e occulte. La chiesa cattolica dovrà modellarsi su questo processo di polverizzazione, autodemolendosi? Di fronte al relativismo, la chiesa dovrà accantonare l’infallibilità, come chiede il pastore valdese Paolo Ricca (il Foglio, 19 marzo 2013), per presentarsi al mondo debole e rinunciataria o non piuttosto servirsi di questo carisma, che essa sola possiede, per contrapporre la sua sovranità religiosa e morale alle macerie della modernità? L’alternativa è drammatica, ma ineludibile.
Quel che è certo è che la domanda “chi è oggi il Papa?”, prima che ai mass media va rivolta alla teologia, alla storia e al diritto canonico della chiesa. Essi ci rispondono che, dietro le persone di Benedetto XVI e di Francesco, esiste un trono pontificio istituito da Cristo stesso. Papa san Leone Magno, che può essere considerato il teologo più completo del papato nel primo millennio, spiegò con chiarezza il significato della successione petrina, riassumendola nella formula: “Indegno erede di san Pietro”. Il Papa diveniva l’erede di san Pietro per quanto riguardava il suo status giuridico e i suoi poteri oggettivi ma non per quanto riguardava il suo status personale e i suoi meriti soggettivi. La distinzione tra l’ufficio e il detentore dell’ufficio, tra la persona pubblica del Papa e la sua persona privata è fondamentale nella storia del papato.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.
Il Papa è il vicario di Cristo che in suo nome e per suo mandato governa la chiesa. Prima di essere una persona privata, egli è una persona pubblica; prima di essere un uomo è un’istituzione: prima di essere il Papa è il papato, in cui si riassume e concentra la chiesa che è il Corpo mistico di Cristo.
“Cipro non metta troppo alla prova la pazienza dei paesi dell’Eurozona”. Questa la frase che ieri mattina avrebbe pronunciato la cancelliera tedesca, Angela Merkel, durante una riunione a porte chiuse del gruppo parlamentare del suo partito (Cdu-Csu). Come dire che i mercati puniranno alla loro maniera l’eventuale mancato salvataggio della piccola isola eurodotata, ma anche la leadership tedesca non avrà un atteggiamento passivo, essendo pronta perfino a spingere Nicosia fuori dalla moneta unica. D’altronde, come si evince da recenti dibattiti interni all’establishment tedesco, l’idea di un’Eurozona divisa in due – con un nucleo forte di paesi “virtuosi” che si emancipa dagli altri, magari anche dall’Italia – gode oramai di piena cittadinanza. Perfino a sinistra.
Bruxelles. Liberalizzare la circolazione di merci e servizi attraverso l’oceano Atlantico è al momento la strategia più adatta per agganciare la ripresa economica. Con l’Unione europea che fatica a uscire dalla più grave crisi dagli anni 30 a oggi, e lo spirito riformatore che s’affievolisce nei diversi stati membri, infatti, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti è quanto di più concreto circoli nei palazzi di acciaio e vetro di Bruxelles, sicuramente più di decine d’impegni un po’ vaghi presi finora ai vertici intergovernativi dell’Ue. Certo, un “Free trade agreement” del genere non avrebbe effetti immediati, né assicurerebbe l’automatico riequilibrio delle economie all’interno dell’Eurozona – ha fatto capire il commissario al Commercio Karel De Gucht intervenendo nel fine settimana a un seminario dello European Journalism Centre cui il Foglio ha partecipato – ma fornirebbe una boccata d’ossigeno all’Europa.
E se si avvantaggiasse troppo Berlino?
La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica.Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo difficile da maneggiare. La parola “Vandea” fino a pochi anni fa era sinonimo di cattolico reazionario. Sono i “chouans”, gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivoluzione, servi dei nobili, sanguinari. Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di riconoscere il “genocidio vandeano”, che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluzionarie di Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una “congiura del silenzio”, in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religiose contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le “colonne infami” repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.
Era un tranquillo pomeriggio di fine estate, un sabato, il 19 settembre 1846, e aveva appena finito di piovere quando due pastorelli dell’Isère che badavano alle mucche sul Planeau, una montagna delle Alpi a 1.800 metri a metà strada tra Grenoble e Gap, videro d’improvviso una palla di luce posarsi sul fondo di una vallata. Sembrava un sole caduto a mezza costa. S’avvicinarono e scorsero una donna seduta, il viso nascosto tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. La Signora piangeva. Li guarda, si alza in piedi e continuando a piangere si rivolge loro: “Avvicinatevi figli miei. Non abbiate paura: sono qui per annunciarvi una grande notizia”. E’ alta, bella, luminosa. Porta una tunica lunga fino ai piedi e un grembiule da contadina stretto in vita, ha uno scialle incrociato sul petto e i capelli raccolti in una cuffia. Lo scialle, come pure la testa e i piedi sono orlati di rose e sul capo risplende la luce abbagliante di una sorta di diadema. Le spalle invece sono avvolte in una lunga catena a maglie larghe, mentre dal collo le pende una catenina con appeso un crocefisso, che finisce sui lati del braccio più corto in un martello e in una tenaglia.
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