giovedì 14 marzo 2013

Il pastore dalla vita semplice che chiede alla chiesa di non invecchiare, di Matteo Matzuzzi


Pioveva, alle 19,06, quando dal comignolo della Sistina è uscito prima solo accennato e poi prepotente lo sbuffo di fumo bianco che annunciava al mondo l’elezione del successore di Benedetto XVI, del nuovo Papa. Subito dopo, le campane di San Pietro hanno iniziato a suonare, seguite da quelle di tutta Roma. Un’ora dopo, il protodiacono Jean-Louis Tauran, affacciandosi dalla loggia delle Benedizioni, annunciava al mondo che il periodo di sede vacante era terminato. Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, vescovo di Buenos Aires, è stato eletto Pontefice al quinto scrutinio. E’ stata necessaria solo una votazione in più rispetto alle quattro dell’aprile 2005 che portarono sul soglio petrino Joseph Ratzinger. Quindi, dopo altri minuti di attesa, ecco il Papa Francesco presentarsi al popolo. Emozionato, le mani lungo i fianchi, sorriso appena accennato. Senza stola (che indosserà solo per la benedizione Urbi et orbi, letta in modo semplice, interrompendo il tradizionale tono retto che accompagnava la solenne benedizione papale), senza la mozzetta rossa con il pelo bianco che pure Gammarelli aveva confezionato. “Vi do la benedizione, ma vi chiedo un favore. Prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”, ha detto dopo il saluto alla folla e l’omaggio al “vescovo emerito”, Benedetto XVI. Prima, l’appello ai fedeli per cominciare “questo cammino della chiesa di Roma, vescovo e popolo, di fratellanza, amore, fiducia tra noi”.
Gesuita di origini italiane – suo padre era un ferroviere di Portacomaro d’Asti, tecnico chimico, professore di Letteratura e Psicologia, teologo, dal 1998 (alla morte del cardinale Quarracino) arcivescovo di Buenos Aires. Amante della vita monacale, quasi ascetica, Bergoglio è uomo semplice e schivo – nei giorni delle Congregazioni generali attraversava piazza San Pietro senza lo zucchetto rosso – assieme a Joseph Ratzinger fu il protagonista del Conclave del 2005. Su di lui, raccontarono resoconti di anonimi porporati, confluirono anche quaranta voti. Scesero solo quando lo stesso Bergoglio, durante il pranzo del secondo giorno di clausura nella Sistina, chiese ai suoi sostenitori di non votarlo. Troppo gravoso quel compito per lui. Otto anni dopo, la storia è stata diversa. Una scelta rapida, quella dei cardinali elettori, meditata e probabilmente programmata, almeno da un numero cospicuo di porporati insoddisfatti dalla gestione della curia degli ultimi anni. Un’elezione che guarda lontano dai palazzi del Vaticano, che va “fino quasi alla fine del mondo”.
La chiesa, per Jorge Bergoglio, deve andare per le strade, nelle piazze, nelle periferie. E’ lì che si evangelizza. In Argentina ha funzionato, spiegava lui stesso in occasione del Concistoro del febbraio 2012. “Si deve uscire da se stessi, evitare la malattia spirituale della chiesa autoreferenziale”, diceva. Se la chiesa rimane chiusa in se stessa, ricordava, “invecchia”. Ecco perché è indispensabile riscoprire la vocazione missionaria, abbandonare gli inutili orpelli, chiudere in un armadio simboli e segni dell’autorità. Quando i fedeli della diocesi di Buenos Aires organizzarono una colletta per il viaggio verso Roma, in occasione della sua creazione a cardinale, lui suggerì di cambiare programma: non venite a festeggiarmi, date il ricavato ai poveri. Loro ne hanno più bisogno.

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