mercoledì 20 marzo 2013

Un mercato unico Euro-atlantico. Ecco l’arma per la ripresa, di Marco Valerio Lo Prete


Perché Bruxelles punta tutto sull’accordo di libero scambio con Washington. Parla il commissario De Gucht

Bruxelles. Liberalizzare la circolazione di merci e servizi attraverso l’oceano Atlantico è al momento la strategia più adatta per agganciare la ripresa economica. Con l’Unione europea che fatica a uscire dalla più grave crisi dagli anni 30 a oggi, e lo spirito riformatore che s’affievolisce nei diversi stati membri, infatti, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti è quanto di più concreto circoli nei palazzi di acciaio e vetro di Bruxelles, sicuramente più di decine d’impegni un po’ vaghi presi finora ai vertici intergovernativi dell’Ue. Certo, un “Free trade agreement” del genere non avrebbe effetti immediati, né assicurerebbe l’automatico riequilibrio delle economie all’interno dell’Eurozona – ha fatto capire il commissario al Commercio Karel De Gucht intervenendo nel fine settimana a un seminario dello European Journalism Centre cui il Foglio ha partecipato – ma fornirebbe una boccata d’ossigeno all’Europa.
“Il commercio è importante per l’Europa, anzi è necessario – dice il belga De Gucht – Nel 2011 e nel 2012 ha sostenuto le sorti dell’Unione generando da solo un tasso di crescita dello 0,6 per cento, e quindi attutendo gli effetti della recessione”. Non solo: “La bilancia commerciale europea è sostanzialmente in pareggio, importazioni ed esportazioni si equivalgono. Se sommiamo manifattura, servizi e agricoltura, il nostro surplus è di 400 miliardi di euro nel 2011, esattamente quanto ci occorre, per esempio, per pagare gas, petrolio e altre materie prime minerali che siamo costretti a importare”. Nel febbraio scorso il lavoro dietro le quinte di De Gucht e della sua controparte americana, Ron Kirk, ha portato così alla dichiarazione congiunta del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, del presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, e del presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, e all’ufficializzazione dell’avvio del negoziato tra Bruxelles e Washington “per un partenariato transatlantico su commercio e investimenti”. Secondo uno studio indipendente commissionato dall’esecutivo dell’Ue – ricorda De Gucht – a regime le esportazioni europee crescerebbero del 28 per cento, e in definitiva “un accordo ambizioso potrebbe portare guadagni economici per 119 miliardi di euro all’anno per l’Ue e di circa 95 miliardi per gli Stati Uniti. Ciò vale mezzo punto di pil aggiuntivo all’anno”.
La classica rimozione delle tariffe, tra due economie mature e integrate come quelle a cavallo dell’Atlantico, non sarà in realtà il piatto forte dell’intesa. Innanzitutto si tratterà di aprire i mercati d’investimenti, servizi e appalti pubblici. Ricordando per esempio, si legge nei documenti della Commissione, che “le aziende europee la cui attività dipende dagli appalti pubblici rappresentano il 25 per cento del pil e 31 milioni di posti di lavoro”. Se il mercato degli appalti a stelle e strisce si spalancasse davvero, magari sulla scorta di quanto concesso dal Canada che è in trattative molto più avanzate con Bruxelles, le opportunità non sarebbero poche. In secondo luogo, bisognerà appianare differenze regolatorie e ostacoli non tariffari, tra cui le norme relative ad ambiente o sicurezza. De Gucht ci tiene a precisare che non ci saranno cambiamenti alla legislazione restrittiva dell’Ue su materie sensibili come gli organismi geneticamente modificati (ogm) e gli ormoni per animali, ma poi lascia intendere che qualche concessione a un ambiente meno regolamentato come quello americano andrà pure fatta. Il settore delle auto è quello che il suo staff porta sempre come esempio, visto che sarà anche tra quelli che si avvantaggerà di più dall’accordo: ha senso che un’auto costruita e testata per gli standard di sicurezza in Europa debba essere nuovamente testata in terra americana? O che un motore costruito negli Stati Uniti ed esportato per assemblare un’auto in Europa debba sottostare a dazi? Chiedete a Sergio Marchionne, ad del gruppo transatlantico Fiat-Chrysler: risponderà che un accordo di libero scambio sarebbe una manna dal cielo. Idem per le Case tedesche, alcune delle quali hanno da tempo fabbriche negli Stati Uniti (come Volkswagen e Bmw), mentre meno contente – osservano gli analisti – potrebbero essere le concorrenti francesi. A Bruxelles si ragiona già sulla “tempistica ottimale” per chiudere l’intesa: una volta che il Consiglio dei 27 capi di governo avrà approvato le “direttive di negoziato” proposte dalla Commissione, cioè entro l’estate, saranno sufficienti “due anni” per limare ogni divergenza tra Bruxelles e Washington, questo l’obiettivo (non ufficiale) cui punta la Commissione. “I benefici per Stati Uniti ed Europa non saranno realizzati a spese di altri partner globali, anzi”. E’ il caso della Cina, anche se oggi “non è il momento di discutere un accordo di libero scambio con Pechino che esita perfino a garantire il libero accesso degli investimenti”.

E se si avvantaggiasse troppo Berlino?

Diverso, e più politicamente sensibile, il discorso sulla distribuzione di vantaggi e svantaggi all’interno dell’Ue. “Le resistenze all’accordo nascono dalle differenze tra stati: alcuni sono in surplus, come la Germania, altri in deficit – prosegue De Gucht – Inoltre, mentre i benefici saranno piuttosto diffusi, gli svantaggi saranno concentrati in alcuni settori precisamente localizzati”. Ciò detto, “questo accordo di libero scambio, più di altri dello stesso genere, offrirà benefici che sarà possibile distribuire equamente. Gli Stati Uniti infatti sono un mercato dove la certezza del diritto è massima, perciò aperto a tutti i concorrenti”. Toccherà ai paesi membri, dunque, saper cogliere le occasioni di espansione. De Gucht fa l’esempio di Portogallo e Spagna, paesi aiutati da programmi ufficiali dell’Ue (Madrid solo per il settore bancario), che già oggi starebbero guadagnando in produttività e migliorando la loro bilancia commerciale: “Nel lungo periodo, però – ammette De Gucht che pure non fa mistero di essere sostenitore di una cura fatta di austerity e riforme per i paesi del Mediterraneo – la riduzione del costo del lavoro non è la soluzione. Piuttosto, attraverso investimenti in formazione, ricerca e sviluppo, occorre attrezzarsi per esportare prodotti ad alto valore aggiunto”.
Il traguardo non è ugualmente distante per tutti, però. Non rischia forse quest’intesa di premiare i grandi paesi esportatori, Germania in primis, che in molti casi hanno già visto aumentare dall’inizio della crisi il loro saldo commerciale? De Gucht non conferma, ma risponde con diplomazia: “La mia responsabilità riguarda il commercio estero. E’ vero però che il lavoro di altre commissioni, come quella per il Mercato interno che dovrebbe spingere gli stati sulla via delle liberalizzazioni di servizi e professioni (lo suggerì nel 2010 il Rapporto di Mario Monti per Barroso), procede più a rilento. Dovremmo fare di più in questo senso”. Altrimenti, ma questo lo aggiungiamo noi, nemmeno un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti contribuirà a rendere più equilibrato il processo di aggiustamento (di conti pubblici e competitività) in corso da mesi in Europa.

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