giovedì 28 febbraio 2013

“Anche i laici devono essere grati a Ratzinger”, di Giulio Meotti


“Contro lo sciatto secolarismo”


Parla il grande storico conservatore inglese Paul Johnson. Le dimissioni sono in sintonia con il suo essere un intellettuale

"Abbiamo tutti bisogno del Papa, anche quei laici che non lo confesserebbero mai”. Così il re dei “neo fogey”, i reazionari colti e di gusto dell’epoca thatcheriana, l’ottantacinquenne Paul Johnson, commenta le dimissioni di Benedetto XVI. Il maggiore storico inglese, che ha scritto tanto, negli ultimi tre decenni, per svelare le grandi e piccole meschinità, le ipocrisie e le incoerenze delle “chattering classes”, la sinistra culturale benestante e compiaciuta, ritiene che l’addio di Papa Ratzinger sia in sintonia con il suo carattere. “Giudico molto saggia la decisione di Papa Benedetto di dimettersi”, dice Johnson al Foglio. “Non è normale che un Papa superi i novant’anni, inoltre la decisione è in sintonia con la formazione intellettuale di Joseph Ratzinger. Non vedo alcun segno di debolezza nella scelta di lasciare o di irrilevanza del cristianesimo nella vita pubblica contemporanea”. Autore di “Tempi moderni”, tradotto in diciotto lingue e che ha venduto più di un milione di copie, e del famoso e controverso “Gli intellettuali”, in cui sbranò i campioni della cultura del nostro tempo, Johnson issa la bandiera del common sense anglosassone all’interno del pensiero postilluminista. “Ogni domenica vado a messa nella mia chiesa di Londra dove si celebra il rito latino, non vedo mai facce smarrite, ma tante persone che scorgono nella chiesa una guida contro un secolarismo sciatto che non dà risposte. Nel mondo ci sono un miliardo di cattolici. Ci andrei piano a dire che la chiesa non ha voce nelle cose del mondo. Giovanni Paolo II era un carismatico dalla personalità fenomenale, ovunque andasse scatenava lo show. Benedetto XVI ha invece sempre preferito fare piccoli importanti discorsi in pubblico, come quando venne a Londra. Piccoli discorsi di verità. In Inghilterra Ratzinger ha riscosso un trionfo geniale e calmo come è lui. Un momento curioso avvenne nella visita alla Westminster Hall. C’erano tutti gli ex primi ministri, il governo, i parlamentari, i Lords. A un certo punto il Papa ha indicato gli angeli che sorreggevano il soffitto. Tutti hanno alzato lo sguardo, sbalorditi, come se non ci avessero mai fatto caso”.
Per questo si è ritirato, “perché non ha più le forze per compiere quello che lui riteneva necessario, essere la guida nel mondo moderno. Ha fatto un lavoro straordinario e dovremmo tutti essergliene grati”. Johnson non crede agli scandali di pedofilia che hanno coinvolto la chiesa negli ultimi due anni, soprattutto nei paesi anglosassoni. “Penso che la cosa più terribile sia avvenuta quando la chiesa ha iniziato ad accettare di pagare gli avvocati in America, è lì che i casi si sono moltiplicati”.
Secondo Johnson, caratteristica del papato di Ratzinger è stata “la tensione fra cristianesimo e mondo moderno. L’essere umano non è una creatura interamente secolare, ha bisogni secolari, ma ha bisogno d’altro per vivere, e qui il ruolo della chiesa è molto importante. Amo moltissimo Ratzinger, è un grande professore universitario, sono d’accordo con lui quando afferma che la ragione non sostiene se stessa, ha bisogno di un aggancio trascendente. Il Papa ha mostrato che la ragione ha una dimensione spirituale, come l’immaginazione, che per me resta la caratteristica umana più importante. E’ l’immaginazione che ci persuade di quanto noi siamo stati creati a immagine di Dio. Le distruttive passioni dell’uomo sono state tenute a freno dalle religioni. Senza grandi risultati però, si potrebbe obiettare. Ma quali successi ha ottenuto il mondo secolarizzato nell’elaborare un sistema alternativo di ricompensa e retribuzione? Nella sua lezione straordinaria di Ratisbona, Ratzinger ha spiegato che l’immaginazione creativa umana è in accordo con la dimensione religiosa dell’esistenza”.
Torniamo al Ratzinger intellettuale. “Il Papa viene da una famiglia di intellettuali e accademici. E’ stato il guardiano della disciplina sotto Giovanni Paolo II. Ma da Papa è stato anche un uomo di gentile benevolenza. Ha dato l’impressione di misurare ogni parola. Nel mondo accademico, scientifico e giornalistico è diventato fashion brandire la bandiera dell’ateismo militante. Sembra che di rigore gli scienziati debbano lanciarsi in diatribe sul perché la religione è incompatibile con la scienza. L’umanità si trova in bilico tra una precaria sopravvivenza e l’abisso dell’autodistruzione. E credo che il nostro destino sarà deciso dalla nostra capacità di tenere accesa quella fiamma spirituale che scalda e illumina la nostra vita”. Johnson ne ha per tutti. Sull’Umanesimo: “Si è rivelato un costernante fallimento”.
E sul relativismo morale: “E’ stato il peccato cardinale del Ventesimo secolo, la ragione per la quale è stata un’epoca così disperatamente infelice e distruttiva nella storia dell’uomo. Per questo tutte le forze della società moderna sono state contro Papa Ratzinger”.

La pennichella di Dio, di Benedetto XVI


Una chiesa in crisi nell’ultima udienza a San Pietro

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato! Distinte Autorità! Cari fratelli e sorelle!
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale. Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno.
Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il mio animo si allarga e abbraccia tutta la chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le “notizie” che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo della chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.
Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10). In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia.
Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. E’ stato un tratto di cammino della chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore.
Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: “Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…”. Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!
Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, a iniziare dal mio segretario di stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la segreteria di stato e l’intera Curia romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre.
Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio.
A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai capi di stato, dai capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio a un principe o a un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la chiesa è viva oggi!
In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della chiesa e non se stessi.
Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui.
Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.
Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia.
Cari amici! Dio guida la sua chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore.
Grazie!

Il principe boemo diventato l’allievo prediletto del prof. Ratzinger, di Matteo Matzuzzi


“Se la chiesa oggi manca di offensiva è perché si sta purificando”, diceva nel giugno del 2011 al Foglio il cardinale Christoph von Schönborn, arcivescovo di Vienna dal 1995. E’ giusto e legittimo, aggiungeva il porporato, che la chiesa voglia essere guida per la società, ma per fare ciò è indispensabile che si confronti con i suoi peccati. “Non si può richiamare il mondo alla verità se la verità non si ha il coraggio di farla propria”, spiegava.
Sessantotto anni, membro di un’antichissima famiglia della nobiltà boema che alla chiesa ha già dato due cardinali e diciannove tra arcivescovi, vescovi, preti e suore, nel 1963 entrò nell’ordine domenicano, “in maniera impercettibile, dopo un incontro casuale con un padre domenicano avvenuto quando avevo quattordici anni”, racconterà in età matura. Poliglotta, Schönborn è uomo di profonda cultura: ha studiato filosofia in Germania, psicologia a Vienna, Cristianesimo slavo e bizantino alla Sorbona e teologia all’istituto domenicano francese di Le Saulchoir, dai cui balconi, durante la contestazione degli anni Sessanta, si vedevano sventolare bandiere rosse. “Io ho vissuto lì gli ultimi anni prima della chiusura. Eravamo rimasti un piccolo gruppetto di frati che vivevano nella foresteria di quest’enorme casa ormai vuota. Il biennio 1968-’69 rovinò tutto, in pochi mesi distrusse la vita religiosa”, disse in un’intervista alla rivista 30Giorni nel 1999.
Risale ai primi anni Settanta, mentre stava preparando la tesi di laurea a Ratisbona, l’incontro che segnerà la sua vita, quello con il mite professore bavarese Joseph Ratzinger. Il futuro arcivescovo di Vienna frequentò i corsi del teologo che più di trent’anni dopo sarebbe diventato Papa. Da quegli incontri nacquero una stima e un’amicizia che sarebbero durate nel tempo e che nel 1992 gli sarebbero valse la nomina a coordinatore del comitato preparatorio del Catechismo universale della chiesa cattolica, l’organismo di cui l’allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede era il supervisore.
Di Ratzinger, Schönborn è sempre stato ritenuto l’allievo prediletto, l’intellettuale tormentato dalla consapevolezza che incarnare la fede cristiana nel mondo secolarizzato di oggi è un’impresa difficile. Da qui, la necessità di procedere a quella grande e nuova evangelizzazione dell’Europa per riscoprire – come sosteneva conversando con il Foglio un anno e mezzo fa – “le virtù conosciute dalla grande tradizione ebraico-cristiana”, senza le quali “il mondo altro non è che una truppa di briganti”.
La chiesa deve sapere pentirsi e procedere lungo la strada tracciata da Benedetto XVI, senza tentennamenti. Ecco perché, nel maggio del 2010, conversando con alcuni giornalisti del suo paese, accusò l’ex segretario di stato Angelo Sodano di aver ostacolato l’indagine voluta nel 1995 da Ratzinger nei confronti dell’allora arcivescovo di Vienna, Hans Hermann Groër, coinvolto in casi di abusi sessuali su minori. Il Papa lo convocò immediatamente a Roma, costringendolo a fare pubblica ammenda per i suoi “giudizi equivoci” – così recitò la nota ufficiale della Santa Sede – davanti a Sodano. “Quando si tratta di accuse a un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”, chiarì in quella occasione il suo maestro Joseph Ratzinger.

mercoledì 20 febbraio 2013

Il filosofo e la chiesa intimidita, di Giulio Meotti


Scruton esamina l’addio di Benedetto XVI e le conseguenze. Un grande pensatore cristiano è stato combattuto con le armi del secolarismo totalitario: consenso e conformismo

“Trovo che le dimissioni di Benedetto XVI siano un segno preoccupante e che non a caso arrivino pochi mesi dopo quelle dell’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, l’altro leader della cristianità occidentale”. Roger Scruton, da buon erede della tradizione pessimista di Edmund Burke, non giudica positivamente la decisione di Papa Ratzinger. E da anglicano, Scruton lega l’uscita di scena del Pontefice a quella di Williams, “il prete più potente e prestigioso del mondo anglosassone”, il capo spirituale della chiesa d’Inghilterra e di settanta milioni di anglicani in tutto il mondo.
Docente alla Saint Andrews University, fra i fondatori della Salisbury Review, la più prestigiosa rivista del conservatorismo inglese, Scruton proviene dalla “Peterhouse Right”, il celebre movimento intellettuale legato a Margaret Thatcher, ed è oggi il più noto filosofo conservatore britannico. “Le dimissioni di Ratzinger sono preoccupanti perché, al di là dei problemi fisici che il Papa possa aver riscontrato, significa che la cristianità è stata intimidita. Il Papa si è dimesso per una debolezza strategica della chiesa e per la sua incapacità di far fronte agli attacchi subiti in Europa dai laici militanti, dalla lobby gay, dalla propaganda sulla pedofilia, dall’Unione europea, dagli intellettuali benpensanti. Si capisce l’intimidazione quando ci si chiede come abbiano fatto i sostenitori del matrimonio gay a creare questa ortodossia abbracciata da tutti i leader politici. Il cattolicesimo è stato intimidito. Quello che Giovanni Paolo II chiamava ‘odio di sé’ io lo chiamo ‘cultura del ripudio’”. George Orwell parlava del totalitarismo come di un tradimento teologico. Dice Scruton che “se nell’impero sovietico il totalitarismo è stato opera della forza, nel mondo occidentale è generato dal consenso. L’entropia minaccia l’Europa”.
Scruton torna al paragone con l’arcivescovo protestante di Canterbury. “Williams è una figura molto simile a quella di Ratzinger, entrambi sono degli intellettuali e purtroppo entrambi sono stati messi sulla difensiva di fronte agli attacchi. Non sono due combattenti”.
Un ruolo importante nell’attacco alla chiesa l’ha giocato la questione della pedofilia: “Perché il sesso oggi è un grande catalizzatore delle pulsioni anticristiane”, continua Scruton. “I laici sono stati corrotti dall’ossessione sessuale e il liberalismo è diventato un credo intollerante. Non possono credere che qualcuno abbia rinunciato al sesso. Quindi pensano che chiunque sia interessato ai bambini sia interessato ai loro corpi, non alle loro anime. Ovviamente ci sono stati preti che hanno abusato della loro posizione. Ma questa è l’eccezione, non la regola. Inoltre la pedofilia non è un disordine sociale universale di cui lo stato o gli ‘esperti’ debbano trovare una cura”.
Secondo Scruton è invece il diretto risultato della delegittimazione della famiglia. “La famiglia è denunciata come una fonte di oppressione o come una istituzione patriarcale dedita alla subordinazione delle donne. La guerra intellettuale alla famiglia è un prodotto dell’ultima parte del XX secolo. La famiglia è diventata un’istituzione sovversiva in guerra con la cultura sponsorizzata dallo stato. Va a credito della chiesa cattolica il fatto di rifiutarsi di blandire l’autoindulgenza contemporanea. Il Papa ha il dovere di ricordarci quel che siamo”.

“Una sorta di monaco raffinato”
Secondo Scruton il papato di Ratzinger è stato di grande ispirazione. “Benedetto XVI è stato un grande Pontefice, un intellettuale che ha riformulato le verità eterne della chiesa cattolica per il mondo moderno. E’ stato una figura unica fra i papi, una sorta di monaco raffinato. Benedetto XVI ha fermato la distruzione della liturgia iniziata con il Concilio Vaticano II. Una chiesa non è un luogo in cui della gente si riunisce per annunciare l’adesione a certe leggi o per discutere la teologia biblica, è il luogo in cui si incontra Dio. Poi, con la lezione di Ratisbona del 2006, il Papa ha portato il confronto fra islam e cristianesimo a livelli nuovi e senza precedenti. Per Ratzinger si tratta di un confronto esistenziale. Non è importante che sia africano, filippino o europeo, il prossimo Papa deve essere consapevole del ruolo che svolge nella crisi contemporanea”.
Su tutte, la chiesa cattolica è impegnata in una battaglia nella difesa della riproduzione umana. “Una battaglia degna di essere combattuta”, dice infine Roger Scruton. “La forma umana è vulnerabile alla profanazione e al sacrilegio. Fino ad oggi, è sempre stata vista come qualcosa di troppo sacro per metterci sopra le mani, come un dono degli dei. Oggi stiamo cercando di accelerare il processo dell’evoluzione per soddisfare i nostri desideri. E’ stata seriamente posta la ‘soluzione finale’ al problema dell’uomo. L’uomo sembra ridondante”.

domenica 17 febbraio 2013

Le ceneri ardenti di Pietro, di Benedetto XVI


Eloquenza di Ratzinger


Il ritiro di Gesù nel deserto. “Le lusinghe ideologiche” della società, dagli stili di vita all’aborto, sono per i cristiani le nuove tentazioni

Cari fratelli e sorelle, come sapete ho deciso… (applausi, ndr) grazie per la vostra simpatia… ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della chiesa, dopo aver pregato a lungo e aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e la preghiera con cui mi avete accompagnato, grazie! Ho sentito quasi fisicamente, in questi giorni per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della chiesa, la vostra preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la chiesa, per il futuro Papa. Il Signore ci guiderà.
* * *
Cari fratelli e sorelle, oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo il Tempo liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci preparano alla celebrazione della Santa Pasqua; è un tempo di particolare impegno nel nostro cammino spirituale. Il numero quaranta ricorre varie volte nella Sacra Scrittura. In particolare, come sappiamo, esso richiama i quarant’anni in cui il popolo di Israele peregrinò nel deserto: un lungo periodo di formazione per diventare il popolo di Dio, ma anche un lungo periodo in cui la tentazione di essere infedeli all’alleanza con il Signore era sempre presente. Quaranta furono anche i giorni di cammino del profeta Elia per raggiungere il Monte di Dio, l’Horeb; come pure il periodo che Gesù passò nel deserto prima di iniziare la sua vita pubblica e dove fu tentato dal diavolo. Nell’odierna Catechesi vorrei soffermarmi proprio su questo momento della vita terrena del Signore, che leggeremo nel Vangelo di domenica prossima.
Anzitutto il deserto, dove Gesù si ritira, è il luogo del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. Ma il deserto è anche il luogo della morte, perché dove non c’è acqua non c’è neppure vita, ed è il luogo della solitudine, in cui l’uomo sente più intensa la tentazione. Gesù va nel deserto, e là subisce la tentazione di lasciare la via indicata dal Padre per seguire altre strade più facili e mondane (cfr Lc 4,1-13). Così Egli si carica delle nostre tentazioni, porta con Sé la nostra miseria, per vincere il maligno e aprirci il cammino verso Dio, il cammino della conversione.
Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere a una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella mia vita? Nella prima tentazione il diavolo propone a Gesù di cambiare una pietra in pane per spegnere la fame. Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare (cfr vv. 3-4). Nella seconda tentazione, il diavolo propone a Gesù la via del potere: lo conduce in alto e gli offre il dominio del mondo; ma non è questa la strada di Dio: Gesù ha ben chiaro che non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore (cfr vv. 5-8). Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi angeli, di compiere cioè qualcosa di sensazionale per mettere alla prova Dio stesso; ma la risposta è che Dio non è un oggetto a cui imporre le nostre condizioni: è il Signore di tutto (cfr vv. 9-12). Qual è il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù? E’ la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo. E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? E’ Lui il Signore o sono io?
Superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare a Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere sempre di nuovo. “Convertirsi”, un invito che ascolteremo molte volte in Quaresima, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita; significa lasciare che Dio ci trasformi, smettere di pensare che siamo noi gli unici costruttori della nostra esistenza; significa riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e soltanto “perdendo” la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla. Questo esige di operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio. Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei.
Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita.
Ci sono di esempio e di stimolo le grandi conversioni come quella di san Paolo sulla via di Damasco, o di sant’Agostino, ma anche nella nostra epoca di eclissi del senso del sacro, la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone. Il Signore non si stanca di bussare alla porta dell’uomo in contesti sociali e culturali che sembrano inghiottiti dalla secolarizzazione, come è avvenuto per il russo ortodosso Pavel Florenskij. Dopo un’educazione completamente agnostica, tanto da provare vera e propria ostilità verso gli insegnamenti religiosi impartiti a scuola, lo scienziato Florenskij si trova a esclamare: “No, non si può vivere senza Dio!”, e a cambiare completamente la sua vita, tanto da farsi monaco.
Penso anche alla figura di Etty Hillesum, una giovane olandese di origine ebraica che morirà ad Auschwitz. Inizialmente lontana da Dio, lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e scrive: “Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri” (Diario, 97). Nella sua vita dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Questa giovane fragile e insoddisfatta, trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”.
La capacità di contrapporsi alle lusinghe ideologiche del suo tempo per scegliere la ricerca della verità e aprirsi alla scoperta della fede è testimoniata da un’altra donna del nostro tempo, la statunitense Dorothy Day. Nella sua autobiografia, confessa apertamente di essere caduta nella tentazione di risolvere tutto con la politica, aderendo alla proposta marxista: “Volevo andare con i manifestanti, andare in prigione, scrivere, influenzare gli altri e lasciare il mio sogno al mondo. Quanta ambizione e quanta ricerca di me stessa c’era in tutto questo!”. Il cammino verso la fede in un ambiente così secolarizzato era particolarmente difficile, ma la Grazia agisce lo stesso, come lei stessa sottolinea: “E’ certo che io sentii più spesso il bisogno di andare in chiesa, a inginocchiarmi, a piegare la testa in preghiera. Un istinto cieco, si potrebbe dire, perché non ero cosciente di pregare. Ma andavo, mi inserivo nell’atmosfera di preghiera…”. Dio l’ha condotta a una consapevole adesione alla chiesa, in una vita dedicata ai diseredati.
Nella nostra epoca non sono poche le conversioni intese come il ritorno di chi, dopo un’educazione cristiana magari superficiale, si è allontanato per anni dalla fede e poi riscopre Cristo e il suo Vangelo. Nel Libro dell’Apocalisse leggiamo: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (3, 20). Il nostro uomo interiore deve prepararsi per essere visitato da Dio, e proprio per questo non deve lasciarsi invadere dalle illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali.
In questo Tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidiana. L’alternativa tra la chiusura nel nostro egoismo e l’apertura all’amore di Dio e degli altri, potremmo dire che corrisponde all’alternativa delle tentazioni di Gesù: alternativa, cioè, tra potere umano e amore della Croce, tra una redenzione vista nel solo benessere materiale e una redenzione come opera di Dio, cui diamo il primato nell’esistenza. Convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante.

venerdì 15 febbraio 2013

Gli americani sull’addio del Papa, controverso atto magisteriale, di Mattia Ferraresi


Il conflitto delle interpretazioni a proposito dell’abdicazione di Benedetto XVI ha avuto l’effetto di sottolineare la dialettica fra le due anime della chiesa americana: quelli che sbrigativamente vengono chiamati “conservatori” lodano l’umiltà e la profondità di un gesto avvolto in un abbraccio mistico e maturato nell’intimo della coscienza di un venerato teologo; i “progressisti” lodano a loro volta l’umiltà e la profondità del gesto, ma colgono l’occasione per trarre conclusioni riformiste. La perdita dell’aureola papale viene usata come prova per sostenere che la chiesa deve conformarsi allo spirito del secolo, concedere qualcosa alla modernità e riprendere quella riforma progressista invocata dagli interpreti più radicali del Concilio. Sul magazine America, organo dei gesuiti che negli anni si è mosso ai confini dell’ortodossia – lo storico direttore Thomas Reese è stato sollevato dall’incarico nel 2005 per ordine della Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger – Sidney Callahan ha scritto che questo “è un momento progressista”: abdicando, Benedetto XVI “dichiara che anche il servizio papale è esposto a una valutazione in termini di efficacia”.
Il ministero divino viene così umanizzato, esposto a limiti di età e vigore fisico che una parte della chiesa chiede da tempo vengano applicati anche al Papa; e Callahan arriva a evocare la “partecipazione dei laici e delle donne nella riforma collegiale della chiesa”. Il teologo Vincent Miller, professore all’Università di Dayton, non si spinge fino a questo punto, ma parla delle dimissioni come di un atto magisteriale: “Benedetto enfatizza l’umanità del papato e le richieste della storia”. Dall’inizio del pontificato, spiega Miller al Foglio, “Benedetto ha mantenuto un basso profilo dal punto di vista istituzionale e con l’abdicazione ha tolto definitivamente l’aura mistica al ruolo”. Sta mandando un messaggio, dice Miller, peraltro ulteriormente rafforzato dal pallio che verrà ridepositato sulle spoglie di Celestino V: “Il Papa contraddice una comprensione monolitica del papato. Non c’è dubbio sul fatto che creda profondamente nella sacralità della figura, ma allo stesso tempo dice che l’immagine monarchica e monocratica non è essenziale e non è scritta nel Vangelo”. La controprova è nelle necessità imposte dal mondo: “C’è una crisi in atto – continua Miller – e la chiesa non ha ancora risolto il problema della nuova evangelizzazione, che richiede un’adeguata presenza, anche fisica. In tal senso quello che Benedetto ci lascia è uno dei suoi più grandi insegnamenti”.
John Garvey, presidente dell’Università Cattolica d’America, vede l’abdicazione in perfetta continuità con la tradizione della chiesa. Nessuna concessione alla modernità, “soltanto – spiega al Foglio – un atto di umiltà in linea con le virtù cristiane. E’ un gesto rivoluzionario nel senso che è insolito, ma se consideriamo la natura del papato di Benedetto, si vede che ha interpretato il suo compito innanzitutto come servizio. Si è presentato come ‘l’umile servo’: è così che si concepiva e si concepisce. Significa mettere al primo posto il bene della chiesa, approccio in continuità con la tradizione. Il suo messaggio a tutti i cristiani è: ‘dovete mettervi al servizio’”. Garvey è un giurista formato alla scuola di Harvard, un “avvocato che s’intende di common law” che in passato ha lavorato anche nell’avvocatura di stato, e per questo la faccenda del precedente delle dimissioni gli è venuta subito in mente: “In un certo senso il Papa è un presidente. Quello che anche il diritto ci dice è però che ogni presidente è diverso, e questo principio si può anche traslare sulla chiesa: ogni Papa è diverso, nel senso che ciascuno è portato a comunicare un solo messaggio ma con accenti differenti. Il confronto con la sofferenza e la morte di Giovanni Paolo II è semplice, ma è fuori luogo, perché si basa sulla premessa che tutti debbano servire la chiesa nello stesso identico modo”. Invece, ricorda Garvey, la chiesa “incarna una doppia natura, divina e umana” e quello del Papa non è un ritiro: “Continuerà a servire la chiesa nella preghiera”. Infine, c’è un’eredità per così dire “interiore” che Benedetto XVI lascia da subito a tutti i cristiani: “E’ l’occasione per noi – dice Garvey – di riflettere sulla durevolezza della chiesa, un’istituzione che non si sostiene sulle persone che la governano, ma sullo Spirito Santo. La comunione dei santi incarna bene l’idea che la chiesa è un corpo universale, con una dimensione eterna”. Altro che cedimento alle logiche mondane.

Il trono riformato, di Marina Valensise


“Non ha mai usato la parola Papa, ma vescovo di Roma”, dice Alain Besançon Tutto è cambiato da secoli, la chiesa non può restare quella del Concilio di Trento

Alain Besançon, lo storico della Russia, ma anche studioso attento del cristianesimo, ha letto il messaggio di Benedetto XVI in latino, pubblicato sui giornali italiani. Il suo commento inizia dall’esegesi: “Prima osservazione, Benedetto XVI non ha mai pronunciato la parola Papa, ma a proposito della nuova elezione parla di ‘vescovo di Roma’, unico titolo che la chiesa di Roma riserva al Papa, dai tempi di Costantino, quando l’imperatore romano, sovrano pontefice, concesse il proprio titolo al capo della chiesa. Il che è un fatto positivo. Secondo punto, Benedetto XVI è rimasto nei canoni del diritto canonico: è libero, e ha fatto pubblicamente atto di rinuncia. Un Papa che non fosse libero, ma coartato, rinchiuso in prigione, non avrebbe avuto il diritto di dimettersi, inquantoché sarebbe stato costretto a farlo. Altro aspetto imposto dal diritto canonico, la dichiarazione pubblica, ‘in pectu’. Terzo punto, la scadenza delle tre settimane. Il Papa ha annunciato che dalle ore 20 del 28 febbraio il seggio pontificio sarà vacante”. Un annuncio anticipato, insomma? “E qui sta il punto. I ben informati sostengono che Benedetto XVI avrebbe voluto dimettersi subito. Tre settimane è un arco di tempo abbastanza breve ma sufficientemente lungo per tirare fuori scandali, pettegolezzi, voci infamanti. Perciò a me pare una scelta azzardata, o quantomeno rischiosa. Tant’è che per correggerla, Ratzinger il Papa dimissionario, ha subito istituito un Conclave immediato dopo le sue dimissioni, evitando così un Papa ad interim per dominare la vacatio regis”. Il precedente, ricorda Besançon, fu quello di Leone XIII. “Papa Pecci regnò in età avanzata, fino a 93 anni, ma gli ultimi cinque anni del suo pontificato era così debilitato che fu necessario affidare a qualcun altro il governo della chiesa. Dunque, la scelta di Ratzinger oggi mi pare una novità importante. Segna una rottura rispetto ai precedenti, una rottura necessaria per evitare la degenerazione legata all’età avanzata”.
All’epoca di Leone XIII, il papato però non era nel pieno di un ciclone come oggi.“All’epoca di Leone XIII, un secolo fa, il papato era talmente sacro da essere completamente distaccato dalla dimensione funzionale” replica Besançon. “Oggi invece, il Papa della chiesa di Roma si comporta come se fosse il presidente della Fiat o di General Motors, il quale non essendo più in grado di governare il consiglio di amministrazione si dimette, riconoscendo così la dimensione funzionale della sua carica”. E questo, secondo lei, è un danno inferto alla sacralità della monarchia pontificia? “E’ una novità. Il Papa è eletto dallo Spirito Santo, come lo sposo della chiesa universale, e resta legato da quel vincolo indissolubile fino alla morte, perché solo Dio lo può sciogliere con la morte. Ora Benedetto XVI ammette che c’è una funzionalità necessaria alla gestione delle cose. Non è l’idea classica che avevamo del papato. Invece del matrimonio indissolubile tra il Papa, vescovo di Roma, e la sua sposa, la chiesa universale, emerge dalla rinuncia di Benedetto XVI un’idea nuova, funzionale, appunto: me ne vado perché non sono più in grado di gestire le cose, ‘per la mia incapacità di amministrare bene il ministero che mi è stato affidato’, ha detto letteralmente Joseph Ratzinger”.
Quanto al dopo, niente di sicuro: “Non so se un Papa dimissionario resterà cardinale, di certo, per limiti di età, non potrà eleggere il nuovo capo. Benedetto XVI ha detto che si ritirerà in un monastero di suore, meglio morire affidato alle cure delle donne che affidato alle cure dei preti. Ha detto che si ritirerà nella preghiera, e non per finire un libro. Il che di per sé è una cosa buona. Gli unici precedenti risalgono alla notte dei tempi. Celestino V rinunciò al pontificato perché era un eremita e non voleva fare il Papa. Poi venne mandato in carcere dal suo successore, Bonifacio VIII, l’inventore della monarchia pontificale e della teoria cristologica della chiesa, e del doppio corpo del re, mutuata poi dalle monarchie nazionali, come ha spiegato in un libro famoso Ernst H. Kantorowicz. Di fatto, da Gregorio Magno a Bonifacio VIII la storia del papato non ha fatto che crescere, anche se Papa Caetani, contestato da Filippo il Bello, finì per vedere la sua autorità limitata da quella dei principi. Nei secoli, il potere della chiesa di Roma venne gestito dal re di Spagna, dall’imperatore, e la tutela secolare limitava l’autorità spirituale. Questo regime durò fino alla caduta della monarchia di diritto divino, fino alla Rivoluzione francese che emanò la costituzione civile del clero e poi ghigliottinò la testa di Luigi XVI”. Poi però venne la restaurazione di Bonaparte, il re della Rivoluzione… “E a quel punto, paradossalmente, il papato, grazie a Napoleone imperatore, rinacque, perché lo scontro di petto finì per restituire vigore alla chiesa di Roma. Non per niente, caduto Napoleone, il Papa si ritrovò da solo, e il suo potere aumentò fino al Concilio Vaticano I (1869-1870). Il Papa si comportava come vescovo universale, e i vescovi della chiesa invece di essere i successori degli apostoli diventarono i delegati del vescovo universale di Roma”. Questa situazione però durò solo fino al Concilio Vaticano II. “Sì. Il Vaticano II voleva decentralizzare, liberare l’autorità centrale, dissolverla, ma il tentativo non è del tutto riuscito. Giovanni Paolo II era alla testa di una piramide inscalfibile. Il Papa è diventato il capo dei vescovi ai quali è stato restituito il titolo di successori degli apostoli. Ma in Francia, per esempio, abbiamo ancora tre sedi vescovili – Metz, Strasburgo e Nancy – dove i vescovi vengono pagati dallo stato, secondo il vecchio concordato napoleonico rispettato dal Kaiser, quando l’Alsazia passò alla Prussia, e conservato dagli alsaziani, che si rifiutarono di sopprimere i privilegi ecclesiastici, secondo il programma socialista, minacciando di tornare con la Germania. Ora finché era la Repubblica a pagare i vescovi, l’accordo era che la Repubblica aveva la sua voce in capitolo, il nunzio apostolico doveva ottenere il consenso del presidente della Repubblica. Oggi invece vale solo la burocrazia romana. Il Papa di Roma, visto dalla chiesa francese, continua a essere un sovrano assoluto, per questo è facile sostenere che il tentativo del Concilio Vaticano II di decentralizzare, di dissolvere l’autorità centrale di Roma sia in parte fallito”.
C’è pure chi, come l’aroniano liberal-conservatore Jean-Claude Casanova, sostiene che ogni tentativo di decentralizzazione finisce per sfociare in una centralizzazione di segno più forte e contrario. “L’esito del Concilio Vaticano II lo conferma. Benedetto XVI del resto ne era ben cosciente. Non doveva trovarsi a suo agio con la centralizzazione del potere assoluto. Anche per questo, secondo me, nel suo testo di rinuncia, non parla mai di Papa, ma di vescovo di Roma. Quanto al futuro, è difficile dire cosa succederà. Non esiste un successore designato, a parte forse il cardinale Angelo Scola, che il Papa ha nominato arcivescovo di Milano. Il nuovo Pontefice non sarà il successore di Benedetto XVI, ma il successore di san Pietro, stando alla lettera del messaggio di Joseph Ratzinger. In fondo, il papato che noi abbiamo sotto gli occhi è ancora quello nato dal Concilio di Trento, dalla Controriforma cattolica, con la sua piramide di poteri. All’epoca della Controriforma però il re di Francia poteva ancora rifiutarsi di accettare un certo numero di articoli del Concilio di Trento. E in Austria il successore di Maria Teresa imperatrice, Giuseppe II, voleva addirittura rendere i vescovi funzionari di stato. Era l’epoca in cui re settecenteschi intendevano liquidare il papato, e riuscirono addirittura a ottenere lo scioglimento della Compagnia di Gesù. Ma il vero salvatore del papato, insisto, fu Napoleone Bonaparte, che sognava di ricostruire l’impero di Carlo Magno, tant’è che il Papa ebbe un occhio di riguardo per tutte le principesse napoleoniche sul trono di Lucca, o su quello di Roma, come Paolina Borghese…”.
Quanto alle profezie in stile Malachia, o al messianesimo negativo di una finis Europae che agita le coscienze dei laici, scosse dal trono vacante del Papa re, Besançon è troppo scettico per prestarvi fede. “Non credo nella fine del papato, ma non vedo come l’amministrazione vaticana, che in fondo è minuscola, formata da poco più di duemila persone, dunque numericamente pari a quella della sottoprefettura di Béziers, possa restare la stessa come dopo il Concilio di Trento. I cardinali sono in una situazione di rivalità reciproca. La curia romana non ne parliamo… bisogna rileggere Jacob Burckhardt per averne un quadro di lunga durata. Il Concilio di Trento cercò di mettere ordine. Nel Quattrocento i cardinali si mostravano in pubblico con le loro favorite, nel Cinquecento dovettero nasconderle e dal Settecento in poi divennero impeccabili. Che oggi un Papa si dimetta per il bene della chiesa è una novità. Che lo faccia mettendo al primo posto la sua coscienza, è il segno della sua familiarità con la cultura luterana, e soprattutto dell’influenza del teologo anglicano  convertito al cattolicesimo John Henry Newman, uno dei massimi pensatori degli ultimi secoli, studioso della patristica, teologo sopraffino, che ha chiarito la distinzione tra ragione e fede e della tradizione del logos che si perpetua nel cattolicesimo, non a caso beatificato dallo stesso Benedetto XVI nel 2010”.

mercoledì 13 febbraio 2013

Il seme fertile di una rinuncia, di Ernesto Galli della Loggia

UNA DIVERSA VISIONE DEL SACRO

Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall'essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l'opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.

Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un'oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l'essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta - rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo - allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d'essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l'appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?

Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l'unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.

Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell'epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell'Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi - esso sembra dirci - non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l'esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?

http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_13/il-seme-fertile-di-una-rinuncia-ernesto-galli-della-loggia_3901ba56-75a6-11e2-a850-942bec559402.shtml

La rinuncia di Ratzinger è un trauma e una breccia positiva


Davanti al gran gesto di Benedetto XVI / 2


Il filosofo Massimo Cacciari guarda “con ammirazione” al gesto del Papa. In attesa che la chiesa torni (anche) profetica

“L’abbandono del pontificato da parte di Papa Benedetto XVI è un gesto di grande portata innovativa, senza riscontri nella storia millenaria della chiesa. Questo è sotto gli occhi di tutti – dice al Foglio il filosofo Massimo Cacciari – ma ora dobbiamo chiederci che cosa cambierà con quel gesto, anche se è difficile capire, fin da ora, a che cosa porterà”.
Nel giorno successivo all’annuncio inaudito di Papa Ratzinger, più voci hanno voluto sottolineare la carica “desacralizzante” di quelle sue dimissioni. “Da un punto di vista strettamente secolare – commenta Cacciari –  è indubbio che l’addio di Ratzinger possa anche essere valutato così. Il Pontefice diventa uno come noi e come tutti, qualcuno che può abbandonare la propria carica, andarsene, rinunciare. Nello stesso tempo, però, quella sua decisione può essere letta come un riattingere al significato autentico del termine ‘sacro’. In un senso più fedele al messaggio delle origini del cristianesimo, in cui non c’è divisione e nemmeno una burocratizzazione che si raccoglie in sé. Il sacro evangelico tutto si dona, non ha tempi e luoghi separati. E, in questo senso, il gesto di Ratzinger potrebbe avere in realtà un significato organico al senso profondo di quella tradizione, e dunque essere esattamente il contrario di una desacralizzazione del suo ruolo. E’ comunque un gesto paradossale, che ‘fa scandalo’ in senso buono. Per questo – aggiunge Cacciari –  lo guardo con ammirazione. Personalmente, sono più propenso a leggerlo come frutto di ‘humilitas’ cristiana, e del riconoscere la propria finitezza, il dolore, l’impotenza. Ma è un modo di ‘tramontare bene’ che sarebbe piaciuto a Nietzsche, il quale diceva di amare ‘coloro che sanno tramontare’. Ma non si può far finta che questo gesto dalla immensa carica innovativa non apra un varco, una breccia in cui potrebbero farsi largo altre innovazioni. Dopo le dimissioni, come non pensare a innovazioni anche più radicali?”.
Gli ambiti nei quali quella carica innovativa potrebbe irradiarsi, preceduta e sollecitata dal gesto senza precedenti del Papa, “potrebbero essere quello della crisi delle vocazioni e quello dei modi di trasmissione, di comunicazione della fede. Una fede che non necessariamente deve essere consolante, rassicurante, e che non ha paura di testimoniare la debolezza, la necessità di affidarsi a un altro”.
Come assorbirà, la chiesa, il trauma dell’addio di Benedetto XVI al pontificato?Cacciari risponde che, “in tedesco, trauma e sogno sono quasi la stessa parola. Potrebbe anche essere un bel sogno, che porta a innovazioni più radicali, all’abbandono di certe trincee. Il compito della chiesa è quello di dire che cosa pensa della vita, della morte, della libertà, predicando il verbo sulle questioni ultime. Il trauma delle dimissioni del Pontefice, perché di trauma si tratta, potrebbe condurre con sé qualcosa di molto salutare, un ripensamento su come comunicare la fede oggi”. La giusta strada, dice ancora Massimo Cacciari, “l’ho vista nella prima enciclica, la ‘Deus caritas est’, ricca di prospettive nuove, mentre il pensiero successivo di Benedetto XVI si è attardato sulle questioni di ragione e fede, affrontate in termini di scolastica. Ma ora è proprio il gesto delle dimissioni, nella sua paradossalità, a imporsi come oggetto di riflessione. Chi è, nel mondo, che non vuole tenersi il potere? La decisione del Papa afferma il contrario: altro che fare bassi compromessi col mondo. E allude a una predicazione che non assecondando il mondo, tenga tuttavia la chiesa nel mondo. Perché la chiesa è una grande organizzazione politica”.
Tra trauma e sogno, in conclusione, Cacciari scommette sul secondo: “Le dimissioni del Papa mi sembrano una grande opportunità. Anche se, almeno all’inizio, può darsi che ci sia una reazione conservativa. Di fronte a questo gesto, nella chiesa ci saranno persone che correranno ai ripari mentre altre correranno all’aperto. Vorranno privilegiare l’essere comunità, non disfacendosi del centralismo ma dandogli un significato non burocratico. E magari si apriranno spazi al ruolo delle donne, si capirà che la grande rivoluzione culturale e antropologica degli ultimi due secoli le riguarda e che la chiesa non può ignorarlo. Ma per pensare che la breccia aperta dalle dimissioni di Ratzinger possa dare tutti i frutti, bisogna sperare che il prossimo pontificato sia, insieme, di grande energia, cultura, elevatezza e comprensione dei linguaggi della modernità, in unione con qualche spunto profetico. Nel Duecento, nel Cinquecento è andata così. C’è stato un Papa, Innocenzo III, e c’è stato un profeta, san Francesco”. Il nuovo successore di Pietro potrebbe arrivare dal sud del mondo: “Se questo avverrà, se cioè il prossimo Papa sarà antropologicamente estraneo all’Europa e all’occidente, sarebbe l’estremo segno della ‘finis Europae’. Non da intendersi come apocalisse, ma come estinzione dell’ultimo elemento di centralità dell’Europa. Dell’antico nucleo della sua potenza non è rimasto più nulla. C’erano le tre Rome. La seconda, Istanbul, è islamica. Nella terza, Mosca, la religione è in balia della politica e di Putin. Come unica memoria della sacra centralità europea non rimane quindi che la Roma del papato. Venuta meno questa, sarà la fine di un mondo. Un Papa italiano? Potrebbe essere una regressione. Mi piacerebbe che fosse un altro tedesco, come Schönborn, energico e consapevole”. 

“Ho visto un uomo libero”. L’addio e la mistica del papato, di Mattia Ferraresi


Davanti al gran gesto di Benedetto XVI / 1


Le sfumature personali e spirituali delle dimissioni analizzate dal teologo Schindler, collaboratore di Ratzinger a Communio

New York. David Schindler è rimasto sorpreso come il resto del mondo alla notizia dell’abdicazione di Benedetto XVI dal trono di Pietro. Ma, a differenza di tanti, l’iniziale turbamento del teologo americano aveva una particolare sfumatura personale, perché Schindler è intimo dell’uomo e della sua teologia. Si è formato nel circolo di De Lubac, di Von Balthasar e di Ratzinger, ha iniziato a lavorare alla rivista teologica internazionale Communio nel 1974 e dai primi anni Ottanta è il direttore dell’edizione anglo-americana. Ora è decano emerito e professore di Teologia fondamentale all’Istituto Giovanni Paolo II di Washington. Al Foglio racconta che quando ha letto la breve dichiarazione con cui Benedetto XVI ha annunciato la sua discesa dal soglio pontificio ha “visto un uomo completamente libero. Libero non nel senso ridotto e negativo con cui si intende comunemente il termine: la vera libertà non è la liberazione da un fardello troppo pesante per essere portato, ma il compimento della propria natura. In quelle parole c’è tutto il peso della meditazione, della preghiera e si intravede tutta la profondità di questo grande uomo. Chi conosce Benedetto XVI sa quale peso dà alle parole. Ovviamente tutti leggono fra le righe, cercano le ‘vere’ motivazioni in chissà quale cospirazione, ma è tutto lì, nelle sue parole. Dice che ha ‘ripetutamente esaminato la coscienza davanti a Dio’ ed è pervenuto alla ‘certezza’. ‘Ripetutamente’ e ‘certezza’ non sono parole scelte a caso, ma vengono da una profonda intimità con Dio”.
Molti commentatori, elogiando o deprecando il gesto, hanno parlato di una concessione della chiesa alla modernità: una chiesa in cui il Pontefice si dimette si assimila alle pratiche mondane, si riduce a istituzione fra le istituzioni. Schindler rovescia questa lettura, che non tiene conto della natura della chiesa: “E’ stato un gesto di grande coraggio e libertà ispirato all’amore per la chiesa. Il mondo oblitera, perché non la capisce, la dimensione mistica della chiesa e del papato. La chiesa non è un consiglio d’amministrazione, è un corpo mistico e insieme un’istituzione storica. I due aspetti sono legati alla radice, non si possono mai disgiungere. La scelta di Benedetto XVI va letta nell’orizzonte misterioso del suo personale rapporto con Dio. Questa prospettiva distrugge radicalmente le idee sciocche che il Papa abbia in qualche modo rifiutato di salire sulla croce o che la chiesa abbia fatto un passo verso la secolarizzazione: purtroppo sono in pochi a capire e accettare il modo in cui la chiesa definisce se stessa, e riportano tutti gli eventi che la riguardano alle categorie inadeguate di cui dispongono”.
Secondo Schindler Benedetto XVI ha voluto mandare un messaggio a tutta la chiesa, un messaggio che guarda alla sua condizione presente sullo sfondo del suo compito eterno: “Il riferimento alla preghiera e alla sofferenza è fortissimo – spiega – perché riunisce le due dimensioni fondamentali, quella della cultura e del rapporto con Dio. Collego la sofferenza alla crisi culturale del nostro tempo che il Papa ha affrontato con forza in tutta la sua riflessione teologica e nel papato; la preghiera è invece il riferimento alla dimensione eterna. Dico che è un messaggio nel senso che un gesto del genere impone a tutti, anche ai non credenti, di chiedersi: perché l’ha fatto? D’accordo, la vecchiaia e l’infermità sono motivazioni oggettive, e riconoscerle è proprio di una persona umile e realista come Ratzinger. Ma non si ritira in una villa con piscina. Continua a pregare e soffrire nel silenzio – e quante volte ha richiamato al valore del silenzio in questi anni. Credo che stia dicendo una cosa profondissima che getta un seme nuovo nel mondo: l’uomo deve ritrovare una dimensione più profonda e per farlo deve orientarsi al suo vero bene, il rapporto con Dio. Mi sembra assurdo e fuori luogo collegare direttamente i segreti di Fatima, per non parlare delle profezie di Malachia, all’abdicazione, ma trovo che la scelta del giorno della Vergine di Lourdes sia un segno di profonda connessione con il contenuto di tante apparizioni mariane, cioè la necessità della preghiera sullo sfondo di una grave crisi culturale”.
Nell’introduzione a una raccolta in inglese degli scritti di Ratzinger su Communio,Schindler ha scritto che “raramente scrive di qualsiasi affare della chiesa senza manifestare le sue implicazioni per l’uomo e per la cultura, e viceversa. Questo collegamento indissolubile è uno dei fattori distintivi della sua teologia”. E nell’abbandono del trono di Pietro, Benedetto XVI riafferma in forma rivoluzionaria questo legame indissolubile, invitando gli uomini a scavare nelle cose mondane per accedere a una profondità ulteriore. Un gesto di forza che paolinamente si manifesta nell’apparente debolezza. “E’ così che agisce la Provvidenza. Il nostro compito è di osservare realmente quello che il Papa ha detto e di custodire questo gesto nei cuori affinché porti frutto. Il resto mi sembra una stupida diminuzione”.

martedì 12 febbraio 2013

L'addio del Papa, i tre perché di un gesto umile, di Vittorio Messori


«SONO PERVENUTO ALLA CERTEZZA CHE LE MIE FORZE, PER L'ETÀ AVANZATA, NON SONO PIÙ ADATTE»

Perché ieri? Perché in una riunione di routine? Perché ritirarsi lì?

Ci sarà tutto il tempo per analisi, bilanci, previsioni. Oggi, ancora sconcertati, cercheremo solo di dare una possibile risposta a tre domande che ci sono subito sorte. Innanzitutto: perché, un simile annuncio, proprio in questo giorno di febbraio? Poi: perché in una riunione di cardinali annunciata come di routine? Infine: perché il luogo scelto per il ritiro da Papa emerito?
Riflettendoci, dopo la sorpresa quasi brutale tanto è stata imprevista (e per tutti, nella Gerarchia stessa), mi pare si possano azzardare delle possibili spiegazioni. L'11 febbraio, ricorrenza della prima apparizione della Vergine a Lourdes, è stata dichiarata dall'«amato e venerato predecessore», come sempre lo ha chiamato, Giornata mondiale del malato. Ha detto Ratzinger, nel latino della breve e sconvolgente dichiarazione: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Terenzio, e poi Seneca, Cicerone e tanti altri avevano ricordato mestamente: senectus ipsa est morbus, la vecchiaia stessa è una malattia.
Dunque, è infermo comunque chi, come lui, il prossimo 16 aprile compirà 86 anni. Ha aggiunto, infatti: «Il vigore del corpo e dell'animo negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Quale giorno più adeguato, dunque, per prendere atto davanti al mondo della propria infirmitas di vegliardo di quello dedicato alla Madonna di Lourdes, protettrice dei malati? In fondo, anche in questo vi è un segno di solidarietà fraterna per tutti coloro che, per morbi o per anni, non possono più contare sulle proprie forze.
Ma perché (è la seconda domanda) dare l'annuncio, ex abrupto , proprio in un concistoro di cardinali per decidere la glorificazione dei martiri di Otranto, massacrati dalla furia dei turchi musulmani? Non crediamo che vi sia qui un qualche richiamo alla violenza di un certo islamismo, attuale ora come nel XV secolo della strage in Puglia. Crediamo, piuttosto, che in questi mesi Benedetto XVI abbia meditato sul primo e solo caso di abdicazione formale di un Pontefice nella storia della Chiesa, quello del 13 dicembre 1294, da parte di Celestino V. Vi erano stati, nei «secoli bui» dell'Alto Medioevo alcuni casi di rinuncia papale, ma in circostanze oscure e sotto la pressione di minacce e di violenze. Ma solo Pietro da Morrone, l'eremita strappato a forza alla sua cella ed elevato al soglio pontificio, abdicò liberamente ed ufficialmente, adducendo anch'egli soprattutto l'età più che ottuagenaria e la debolezza che ne conseguiva.
Prima di compiere l'inedito passo, aveva consultato discretamente i maggiori canonisti che gli confermarono che la rinuncia era possibile, ma andava fatta «davanti ad alcuni cardinali». È proprio quanto ha deciso di fare Benedetto XVI, che non aveva che quel precedente cui rifarsi: precedente del resto, spiritualmente sicuro, in quanto il buon Pietro fu dichiarato santo dalla Chiesa e non meritava davvero l'accusa di viltade lanciatagli contro dal ghibellino Dante per sue ragioni politiche. Insomma, in mancanza di altre regole, papa Ratzinger, sempre rispettoso della tradizione, si è rifatto a quelle stabilite otto secoli fa dal confratello di cui voleva condividere il destino. Probabilmente, non è casuale anche il fatto che l'imprevisto annuncio sia stato letto solo in latino, quasi per richiamarsi anche in questo a quel precedente lontano.
Ma, per venire alla terza domanda, per quale ragione, dopo un breve soggiorno a Castel Gandolfo (deserto, e dunque disponibile, durante la sede vacante) il già Benedetto XVI si ritirerà in quello che è stato un monastero di clausura, all'interno delle Mura Vaticane? Questo, almeno, il programma annunciato dal portavoce, padre Lombardi. Non sappiamo se quella sistemazione sarà definitiva ma, in ogni caso, neppure questa è una scelta casuale. Dicono le ultime parole dell'annuncio di ieri: «Anche in futuro vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». Negli anni di pontificato ha ripetuto spesso: «Il cuore della Chiesa non è dove si progetta, si amministra, si governa, ma è dove si prega».
Dunque, il suo servizio alla Catholica non solo continua ma, nella prospettiva di fede, diventa ancor più rilevante: se non ha scelto un eremo lontano - magari nella sua Baviera o in quella Montecassino cui aveva pensato papa Wojtyla come estremo rifugio - è forse per testimoniare, anche con la vicinanza fisica alla tomba di Pietro, quanto voglia restare accanto a quella Chiesa cui vuole donarsi sino all'ultimo. Né è casuale, ovviamente, l'aver privilegiato mura impregnate di preghiera come quelle di un monastero di clausura. Comunque, se la sistemazione in Vaticano sarà stabile, la discrezione proverbiale di Joseph Ratzinger assicura che non vi sarà alcuna interferenza col governo del successore. Siamo del tutto certi che rifiuterà pure il ruolo di un «consigliere» carico di anni ma anche di esperienza e di sapienza, pure se ci dovessero essere richieste esplicite del nuovo Papa regnante. Nella sua prospettiva di fede, il solo vero «consigliere» del Pontefice è quello Spirito Santo che, sotto le volte della Sistina, ha puntato su di lui il dito.
Ed è proprio in questa prospettiva religiosa che vi è, forse, risposta a un altro interrogativo: non era più «cristiano» seguire l'esempio del beato Wojtyla, cioè la resistenza eroica sino alla fine, piuttosto che quello del pur santo Celestino V? Grazie a Dio, molte sono le storie personali, molti i temperamenti, i destini, i carismi, i modi per interpretare e vivere il Vangelo. Grande, checché ne pensi chi non la conosce dall'interno, grande è la libertà cattolica. Molte volte, l'allora cardinale mi ripeté, nei colloqui che avemmo negli anni, che chi si preoccupa troppo della situazione difficile della Chiesa (e quando mai non lo è stata?) mostra di non avere capito che essa è di Cristo, è il corpo stesso di Cristo. A Lui, dunque, tocca dirigerla e, se necessario, salvarla. «Noi - mi diceva - siamo soltanto, parola di Vangelo, dei servi, per giunta inutili. Non prendiamoci troppo sul serio, siamo unicamente strumenti e, in più, spesso inefficaci.
Non arrovelliamoci, dunque, per le sorti della Chiesa: facciamo fino in fondo il nostro dovere, al resto deve pensare Lui». C'è anche, forse soprattutto, questa umiltà, nella decisione di passare la mano: lo strumento sta per esaurirsi, il Padrone della messe (come ama chiamarlo, con termine evangelico) ha bisogno di nuovi operai, che vengano dunque, purché consapevoli essi pure di essere solo dei sottoposti. Quanto ai vecchi ormai estenuati, diano il lavoro più prezioso: l'offerta della sofferenza e l'impegno più efficace. Quello della preghiera inesausta, attendendo la chiamata alla Casa definitiva.