martedì 5 febbraio 2013

Il richiamo della foresta antifiscale, di Marco Valerio Lo Prete


La “promessa tributaria”, genere nobile da Thatcher e Reagan in giù

Profumo di Margaret Thatcher, o se preferite di Ronald Reagan, oppure di flat tax in stile Europa centro-orientale. Gli italiani non sono un popolo di creduloni, non vedono Lady di ferro all’orizzonte, però sanno distinguere gli odori. Si può spiegare così il senso dell’ultima carta elettorale di Silvio Berlusconi, la sua “proposta choc” di abolire l’Imu sulla prima casa per l’anno in corso e soprattutto restituire ai cittadini quanto versato per l’imposta nel 2012. “Gli italiani hanno buona memoria per tutto, non solo per Berlusconi – ha scritto ieri Luca Ricolfi sulla Stampa – Gli elettori ricordano perfettamente l’immobilismo di Tremonti, gli impegni non mantenuti di Berlusconi, ma ricordano altrettanto bene la stangata fiscale dei tecnici, o la litigiosità dell’ultimo governo Prodi”. Insomma, “la nostra delusione coinvolge tutti” (detto altrimenti: nessuno profuma), ma perlomeno il Cav. costruisce un programma “vagamente thatcheriano”. Tesi simili le sostiene Giovanni Orsina, docente di Storia delle dottrine politiche alla Luiss, che sta lavorando da mesi a uno studio sul consenso e Berlusconi: “Gli studi demoscopici dimostrano che l’elettore diffida di tutti. Anche quello berlusconiano non si beve più le promesse, ma individua un segnale. Non a caso l’ex premier ha costruito in questi giorni il terreno su cui gli altri leader sono dovuti scendere: per Bersani (Pd) l’idea di una patrimoniale è passata in secondo piano, e anche per Monti ora l’Imu sulla prima casa si può rivedere”.
Per carità meglio stare alla larga dai paragoni storici, tuttavia quello delle “promesse tributarie” è ormai un genere antico e internazionale. Prima dell’abolizione-rimborso dell’Imu venne la promessa cancellazione dell’Ici, realizzata dal Cav. nel 2008, e più nobilmente l’immancabile “curva di Laffer”. Dice la leggenda che l’economista di Chicago, Arthur Laffer, abbia illustrato il concetto al presidente Ronald Reagan con uno scarabocchio su un tovagliolo: tributi più moderati favoriscono una maggiore crescita economica, allo stesso tempo sono evasi meno e quindi portano a un gettito uguale o maggiore rispetto a quello generato da tributi oppressivi. Ne discese, nel 1981, il taglio fiscale più consistente della storia americana.
E pensare che Laffer in persona, in origine, non era sicurissimo delle sue stesse tesi: “C’è più di una ragionevole probabilità che mi sbagli – disse – Ma… perché non provare qualcosa di nuovo?”. Anche Margaret Thatcher, negli anni 70, pensò che mettere mano ai balzelli equivalesse a toccare le corde profonde degli elettori: “La politica che ci siamo prefissi di sviluppare è in armonia con il carattere degli inglesi. Intendiamo affrontare temi trascurati come il potere del sindacato, l’eccessivo controllo del governo, le tasse troppo alte e una scarsa distribuzione del capitale”. Non soltanto “meno tasse per tutti”, insomma, c’era anche “meno elargizioni pubbliche per ciascuno”, e questo non è un dettaglio. Fatto sta che – scrive il think tank britannico Centre for policy studies – “Reagan e Thatcher adottarono una strategia simile di riduzione delle tasse sul reddito”. Negli Stati Uniti l’aliquota più alta scese dal 70 al 50 per cento nel primo anno. Il governo conservatore di Londra, nel primo anno, ridusse l’aliquota marginale dell’imposta personale sul reddito dall’83 al 60 per cento, e l’aliquota base di tre punti. Il Tesoro di allora spiegò il senso della direzione scelta, la stessa direzione che – al netto di fattori chiave come “credibilità” o “fattibilità” dei leader che la propongono – potrebbe convincere alcuni elettori italiani: “Minori tasse aiuteranno ad accrescere gli incentivi, eliminare le distorsioni, migliorare l’uso delle risorse e fortificare lo spirito d’impresa”.
Il richiamo della foresta anti fiscale non è appannaggio dei soli politici anglosassoni.Caduto il comunismo, in Europa centro-orientale è stato un fiorire di “flat tax”, cioè di imposte ad aliquota unica, a partire dall’Estonia. Perfino la cancelliera tedesca, Angela Merkel, nella campagna elettorale del 2005, mandò avanti un autorevole tributarista, Paul Kirchhof, per proporre un’aliquota unica del 25 per cento per i redditi oltre i 20 mila euro. “I tedeschi non possono passare i fine settimana a fare la dichiarazione dei redditi”, diceva Kirchhof. Non finì bene, ricorda Francesco Galietti, già consigliere al ministero dell’Economia: “I tedeschi ritennero imprudente l’idea troppo libertaria e Merkel dovette governare con una grande coalizione. Le ‘proposte tributarie choc’ hanno successo se la domanda politica è elastica, cioè sensibile a un’offerta di riduzione delle tasse. Cosa potrebbe influire sul grado di elasticità della domanda? Sicuramente la percezione dell’offerta. Soltanto se apparirà compatibile con il pregresso di Berlusconi, l’idea potrebbe attirare favori”. Certo, in mancanza di tagli di spesa resteremmo pur sempre nell’alveo di quell’“illusione finanziaria” (copyright: Amilcare Puviani, fine ’800) praticata anche dai leader più liberali. Ma il “segnale” all’elettore potrebbe bastare.

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