Il conflitto delle interpretazioni a proposito dell’abdicazione di Benedetto XVI ha avuto l’effetto di sottolineare la dialettica fra le due anime della chiesa americana: quelli che sbrigativamente vengono chiamati “conservatori” lodano l’umiltà e la profondità di un gesto avvolto in un abbraccio mistico e maturato nell’intimo della coscienza di un venerato teologo; i “progressisti” lodano a loro volta l’umiltà e la profondità del gesto, ma colgono l’occasione per trarre conclusioni riformiste. La perdita dell’aureola papale viene usata come prova per sostenere che la chiesa deve conformarsi allo spirito del secolo, concedere qualcosa alla modernità e riprendere quella riforma progressista invocata dagli interpreti più radicali del Concilio. Sul magazine America, organo dei gesuiti che negli anni si è mosso ai confini dell’ortodossia – lo storico direttore Thomas Reese è stato sollevato dall’incarico nel 2005 per ordine della Congregazione per la dottrina della fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger – Sidney Callahan ha scritto che questo “è un momento progressista”: abdicando, Benedetto XVI “dichiara che anche il servizio papale è esposto a una valutazione in termini di efficacia”.
Il ministero divino viene così umanizzato, esposto a limiti di età e vigore fisico che una parte della chiesa chiede da tempo vengano applicati anche al Papa; e Callahan arriva a evocare la “partecipazione dei laici e delle donne nella riforma collegiale della chiesa”. Il teologo Vincent Miller, professore all’Università di Dayton, non si spinge fino a questo punto, ma parla delle dimissioni come di un atto magisteriale: “Benedetto enfatizza l’umanità del papato e le richieste della storia”. Dall’inizio del pontificato, spiega Miller al Foglio, “Benedetto ha mantenuto un basso profilo dal punto di vista istituzionale e con l’abdicazione ha tolto definitivamente l’aura mistica al ruolo”. Sta mandando un messaggio, dice Miller, peraltro ulteriormente rafforzato dal pallio che verrà ridepositato sulle spoglie di Celestino V: “Il Papa contraddice una comprensione monolitica del papato. Non c’è dubbio sul fatto che creda profondamente nella sacralità della figura, ma allo stesso tempo dice che l’immagine monarchica e monocratica non è essenziale e non è scritta nel Vangelo”. La controprova è nelle necessità imposte dal mondo: “C’è una crisi in atto – continua Miller – e la chiesa non ha ancora risolto il problema della nuova evangelizzazione, che richiede un’adeguata presenza, anche fisica. In tal senso quello che Benedetto ci lascia è uno dei suoi più grandi insegnamenti”.
John Garvey, presidente dell’Università Cattolica d’America, vede l’abdicazione in perfetta continuità con la tradizione della chiesa. Nessuna concessione alla modernità, “soltanto – spiega al Foglio – un atto di umiltà in linea con le virtù cristiane. E’ un gesto rivoluzionario nel senso che è insolito, ma se consideriamo la natura del papato di Benedetto, si vede che ha interpretato il suo compito innanzitutto come servizio. Si è presentato come ‘l’umile servo’: è così che si concepiva e si concepisce. Significa mettere al primo posto il bene della chiesa, approccio in continuità con la tradizione. Il suo messaggio a tutti i cristiani è: ‘dovete mettervi al servizio’”. Garvey è un giurista formato alla scuola di Harvard, un “avvocato che s’intende di common law” che in passato ha lavorato anche nell’avvocatura di stato, e per questo la faccenda del precedente delle dimissioni gli è venuta subito in mente: “In un certo senso il Papa è un presidente. Quello che anche il diritto ci dice è però che ogni presidente è diverso, e questo principio si può anche traslare sulla chiesa: ogni Papa è diverso, nel senso che ciascuno è portato a comunicare un solo messaggio ma con accenti differenti. Il confronto con la sofferenza e la morte di Giovanni Paolo II è semplice, ma è fuori luogo, perché si basa sulla premessa che tutti debbano servire la chiesa nello stesso identico modo”. Invece, ricorda Garvey, la chiesa “incarna una doppia natura, divina e umana” e quello del Papa non è un ritiro: “Continuerà a servire la chiesa nella preghiera”. Infine, c’è un’eredità per così dire “interiore” che Benedetto XVI lascia da subito a tutti i cristiani: “E’ l’occasione per noi – dice Garvey – di riflettere sulla durevolezza della chiesa, un’istituzione che non si sostiene sulle persone che la governano, ma sullo Spirito Santo. La comunione dei santi incarna bene l’idea che la chiesa è un corpo universale, con una dimensione eterna”. Altro che cedimento alle logiche mondane.
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