
Il ministero divino viene così umanizzato, esposto a limiti di età e vigore fisico che una parte della chiesa chiede da tempo vengano applicati anche al Papa; e Callahan arriva a evocare la “partecipazione dei laici e delle donne nella riforma collegiale della chiesa”. Il teologo Vincent Miller, professore all’Università di Dayton, non si spinge fino a questo punto, ma parla delle dimissioni come di un atto magisteriale: “Benedetto enfatizza l’umanità del papato e le richieste della storia”. Dall’inizio del pontificato, spiega Miller al Foglio, “Benedetto ha mantenuto un basso profilo dal punto di vista istituzionale e con l’abdicazione ha tolto definitivamente l’aura mistica al ruolo”. Sta mandando un messaggio, dice Miller, peraltro ulteriormente rafforzato dal pallio che verrà ridepositato sulle spoglie di Celestino V: “Il Papa contraddice una comprensione monolitica del papato. Non c’è dubbio sul fatto che creda profondamente nella sacralità della figura, ma allo stesso tempo dice che l’immagine monarchica e monocratica non è essenziale e non è scritta nel Vangelo”. La controprova è nelle necessità imposte dal mondo: “C’è una crisi in atto – continua Miller – e la chiesa non ha ancora risolto il problema della nuova evangelizzazione, che richiede un’adeguata presenza, anche fisica. In tal senso quello che Benedetto ci lascia è uno dei suoi più grandi insegnamenti”.
John Garvey, presidente dell’Università Cattolica d’America, vede l’abdicazione in perfetta continuità con la tradizione della chiesa. Nessuna concessione alla modernità, “soltanto – spiega al Foglio – un atto di umiltà in linea con le virtù cristiane. E’ un gesto rivoluzionario nel senso che è insolito, ma se consideriamo la natura del papato di Benedetto, si vede che ha interpretato il suo compito innanzitutto come servizio. Si è presentato come ‘l’umile servo’: è così che si concepiva e si concepisce. Significa mettere al primo posto il bene della chiesa, approccio in continuità con la tradizione. Il suo messaggio a tutti i cristiani è: ‘dovete mettervi al servizio’”. Garvey è un giurista formato alla scuola di Harvard, un “avvocato che s’intende di common law” che in passato ha lavorato anche nell’avvocatura di stato, e per questo la faccenda del precedente delle dimissioni gli è venuta subito in mente: “In un certo senso il Papa è un presidente. Quello che anche il diritto ci dice è però che ogni presidente è diverso, e questo principio si può anche traslare sulla chiesa: ogni Papa è diverso, nel senso che ciascuno è portato a comunicare un solo messaggio ma con accenti differenti. Il confronto con la sofferenza e la morte di Giovanni Paolo II è semplice, ma è fuori luogo, perché si basa sulla premessa che tutti debbano servire la chiesa nello stesso identico modo”. Invece, ricorda Garvey, la chiesa “incarna una doppia natura, divina e umana” e quello del Papa non è un ritiro: “Continuerà a servire la chiesa nella preghiera”. Infine, c’è un’eredità per così dire “interiore” che Benedetto XVI lascia da subito a tutti i cristiani: “E’ l’occasione per noi – dice Garvey – di riflettere sulla durevolezza della chiesa, un’istituzione che non si sostiene sulle persone che la governano, ma sullo Spirito Santo. La comunione dei santi incarna bene l’idea che la chiesa è un corpo universale, con una dimensione eterna”. Altro che cedimento alle logiche mondane.
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