"Après Nous le déluge!" LUIGI XV;
http://ideas.repec.org/f/pma1570.html;
http://papers.ssrn.com/sol3/cf_dev/AbsByAuth.cfm?per_id=1590874;
https://www.researchgate.net/profile/Cosimo_Magazzino/;
uniroma3.academia.edu/CosimoMagazzino;
http://scienzepolitiche.uniroma3.it/cmagazzino/
All’udienza generale il Papa ricorda che la fede va comunicata con la parola e la vita
Appello per assicurare accesso ai farmaci e terapie ai malati di Aids
Accesso ai farmaci e terapie efficaci per i malati di Aids sono stati chiesti dal Papa durante l’udienza generale di mercoledì 28 novembre. Ai numerosi fedeli riuniti nell’Aula Paolo VI il Pontefice ha ricordato che il prossimo 1° dicembre ricorre la giornata mondiale indetta dalle Nazioni Unite «per richiamare l’attenzione su una malattia che ha causato milioni di morti e tragiche sofferenze umane, accentuate nelle regioni più povere del mondo, che con grande difficoltà possono accedere ai farnaci efficaci». Da qui l’incoraggiamento di Benedetto XVI alle «numerose iniziative che, nell’ambito della missione ecclesiale, sono promosse per debellare questo flagello». Con un pensiero particolare per i moltissimi bambini «che ogni anno contraggono il virus dalle proprie madri, nonostante vi siano terapie per impedirlo».
L’appello è giunto al termine di un’udienza che il Papa ha dedicato in modo particolare al tema della comunicazione della fede. «Come parlare di Dio nel nostro tempo?» è stata «la domanda centrale» intorno alla quale il Pontefice ha sviluppato la sua riflessione. «Noi possiamo parlare di Dio — ha risposto anzitutto — perché Dio ha parlato con noi». Egli infatti «non è un’ipotesi lontana sulle origini del mondo» o «un’intelligenza matematica molto lontana da noi», ma «si interessa di noi» e «ci ama».
Parlare di Lui vuol dire dunque «portare agli uomini e alle donne del nostro tempo non un Dio astratto, un’ipotesi, ma un Dio concreto, che è entrato nella storia ed è presente nella storia». Per questo Benedetto XVI raccomanda «un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio». Il modello a cui guardare resta san Paolo, il quale non comunica una filosofia ma una realtà che è entrata a far parte della sua vita; e lo fa non per «crearsi una squadra di ammiratori» ma per guadagnare le persone al Dio «vero e reale».
Dal Papa anche un invito a considerare la famiglia come «luogo privilegiato per parlare di Dio» e per comunicare la fede con «la tonalità della gioia».
In early 2012, Federal Reserve Chairman Ben Bernanke used the term “fiscal cliff” to grab the attention of lawmakers and the broader public. Bernanke’s point was that Americans should worry about the combination of federal tax increases and spending cuts that are currently scheduled to begin at the end of this year.
But there is not really any kind of “cliff” in the sense that if you stepped over the edge, you would fall fast, land on something hard, and not get up for a long time. In the modern US economy, the scheduled changes constitute more of a fiscal “slope” – meaning that the full effect of the tax increases would not be felt immediately (income withholding takes time to adjust), while the spending cuts would also be phased in (the government has some discretion regarding implementation). This slope offers President Barack Obama a real opportunity to restore the federal government’s revenue base to what it was in the mid-1990’s.
The choice of words to describe America’s fiscal situation matters, given the hysteria that has been whipped up in recent months, primarily by people who want to make big cuts in the country’s two main entitlement programs, Social Security and Medicare. Their logic is that if we are about to rush off a cliff, we need to take extreme measures. And cutting pensions and health care for the elderly certainly qualifies as extreme – as well as completely inappropriate and unnecessary.
If, instead, the US faces a fiscal slope, then people who refuse to consider raising taxes – namely, Republicans in the US Congress’s House of Representatives – have a very weak hand indeed.
It has become clear that the House Republicans will steadfastly refuse to vote for any increases in tax rates during the current lame-duck congressional session. House Speaker John Boehner, who offered relatively conciliatory remarks immediately after the election, now says that he would accept higher revenue with lower rates – precisely what the temporary tax cuts enacted by George W. Bush’s administration were supposed to deliver, but manifestly did not.
It is very unlikely that congressional Democrats and Republicans can reach an agreement on extending the Bush-era tax cuts for the middle class, while allowing them to expire for the rich. They will spar with each other for another six weeks, then go to the brink of the purported “cliff” and see who blinks at the last moment.
CThe sensible course of action for Obama would be to step off the “cliff” by vetoing any extension of the Bush-era tax cuts, which would then expire at the end of 2012. Once tax rates were restored to their previous levels, Obama could present his own tax-cut package to Congress – for example, with a proposal in early January that provided greater benefit to lower-income Americans, as he promised during his re-election campaign.
CThese tax cuts should also be linked to the state of the economy, so that they would wind down as employment recovers (for example, to its level in 2007, relative to total population). If the economy looks weaker than anticipated in early 2013, the proposed tax cuts could be larger (as long as they were phased out during the economic recovery). This approach would significantly transform America’s longer-run fiscal prospects.
Then, as America heads steadily down the fiscal slope in early 2013, the House Republicans would have a choice. Do they vote, week after week, against tax cuts that would help 100 million Americans, while the economy deteriorates around them? Or do they embrace a deal that cuts taxes and tax rates relative to where they would be otherwise?
In effect, the House Republicans can be forced to sign onto a deal that both supports the economy and restores revenue to the level that prevailed before the disastrous experiment of Bushonomics.
Obama has already put spending cuts on the table – probably to a greater extent than would please his electoral base (he does have a tendency to do this). The big question is whether the US can strengthen revenue in an appropriate manner that is consistent with renewed economic growth.
America should aim to return to the tax rates of the mid-1990’s, when the economy was booming and the federal budget was in much better shape. But it should do this fully only once the economy has completely recovered.
Ordinarily, partisan political gridlock in Washington would prevent any such sensible change. Fortunately, the fiscal slope gives Obama the opportunity to bring it about – and even to write some history in the process. That means vetoing any extension of the Bush-era tax cuts, and then working to enact the Obama tax cuts.
Gli sgravi sulla produttività vadano solo a chi li merita, dice l’Inps. Le parti sociali, Cgil esclusa, hanno firmato la settimana scorsa un avviso comune per incentivare la competitività del sistema produttivo. In cambio il governo Monti ha messo a disposizione 2,2 miliardi per sgravi fiscali sulla contrattazione aziendale, da assegnare secondo criteri che l’esecutivo stabilirà.
L’Inps, intervenendo a un’audizione al Cnel sugli incentivi già erogati negli anni scorsi per il salario di produttività, ha spiegato che oggi “resta aperta la delicata questione delle modalità per verificare la corrispondenza tra agevolazioni concesse e incremento dei livelli di produttività delle aziende interessate, che, allo stadio attuale dell’evoluzione normativa, non appare ancora sufficientemente modulata”. Attribuire i fondi “non a pioggia”, come vorrebbe Monti, sarà dunque meno facile del previsto.
La cosiddetta «agenda Monti» sarà senza ombra di dubbio il tema più controverso della campagna elettorale. Assediati dalle varie formazioni antigovernative e ansiosi di differenziarsi fra loro, i partiti dell'attuale maggioranza cercheranno di fare gli equilibristi, evitando di indicare con precisione gli elementi di continuità e di rottura rispetto all'attuale governo. È possibile fissare qualche paletto che aiuti a far chiarezza?
«Agenda» vuol dire «cose da fare», in base a un disegno coerente. Sin dal suo insediamento, il governo ha perseguito un obiettivo strategico inequivocabile: risanamento finanziario e riforme strutturali in linea con il quadro di riferimento europeo.
Quanto alle «cose», occorre invece distinguere. Ci sono innanzitutto quelle già fatte, come la riforma delle pensioni. E su questo versante, si dovrebbe evitare di disfare. Ci sono poi le riforme varate, ma in corso di attuazione, prima fra tutte quella sul mercato del lavoro. Gli aspetti che non funzionano sono già evidenti, alcuni critici della prima ora avevano ragione, serve un ribilanciamento fra flessibilità in entrata (meno rigidità) e in uscita (meno vincoli). Ma perlomeno l'impalcatura sarebbe da conservare, soprattutto per quanto riguarda i nuovi ammortizzatori sociali.
Vi sono infine le «cose» annunciate o appena abbozzate, ma non realizzate (per ostacoli parlamentari o amministrativi, ma anche per la lentezza progettuale da parte di alcuni ministeri). Fisco e costo del lavoro, pubblica amministrazione, istruzione e ricerca, politiche sociali: l'elenco è lungo. Questo è il fronte più delicato.
I principali partiti cercheranno di smarcarsi da Monti, per convinzione o per calcolo elettorale. Ma formuleranno proposte serie? E quali saranno le politiche del nuovo governo? Senza esagerazioni (l'esperienza però insegna), vi è il rischio che alla prova dei fatti si finisca per compromettere il disegno di risanamento facendoci nuovamente precipitare in una situazione di crisi finanziaria.
Molti confidano sul fatto che Monti possa fungere anche in futuro da garante anticrisi e lo stesso interessato ha dichiarato che considererà ogni opzione, nessuna esclusa. Ma perché lasciare tanta incertezza? Nella sua attuale veste, il presidente del Consiglio potrebbe preparare da subito un'agenda di «continuità riformatrice» da lasciare in eredità al suo successore, chiunque sia.
Non si tratterebbe di una mossa irrituale, ma di un atto dovuto. Entro la primavera prossima, il governo italiano deve presentare a Bruxelles il nuovo Programma nazionale di Riforma (Pnr), nel quale illustrare la sequenza di riforme necessarie per raggiungere gli obiettivi della strategia «Europa 2020».
Negli anni passati, il Pnr era un semplice Rapporto tecnico «per Bruxelles». Nel 2013 questo documento potrebbe diventare un Rapporto rivolto anche all'opinione pubblica nazionale, con proposte concrete per l'Italia e il suo futuro di modernizzazione in Europa.
Nel tempo che resta prima del voto, è difficile che il governo riesca a varare nuove misure incisive. Delineare una «agenda Monti» in versione autentica (capace di riflettere criticamente anche su errori e lacune), sarebbe perciò il miglior modo per chiudere l'esperienza del governo tecnico. Stimolando al tempo stesso concretezza e precisione d'impegno in chi si candida a guidare, dopo il voto, un governo politico. http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_28/percorso-di-sicurezza-ferrera_a9e6dd0a-3924-11e2-8eaa-1c0d12eff407.shtml
A little-discussed but crucial factor in the debate over wealth transfers from Europe’s more economically sound north to its troubled south is the relationship between public debt, GDP, and private wealth (households’ financial and non-financial assets, minus their financial liabilities) – in particular, the ratio of private wealth to GDP in the eurozone countries.
While the European Central Bank’s bond-purchasing scheme has calmed financial markets to a considerable extent, some European economies – including Italy, Spain, Greece, and Portugal – are still at risk, because they are not growing fast enough to narrow their deficits and stem the growth of their national debts. The grim irony here is that the ratio of private wealth to GDP in some of the countries that are in need of support from the ECB and northern eurozone members is equal to or higher than that in more solvent countries.
Consider Italy, which has the highest ratio of private wealth to public debt of any G-7 country, and is some 30% to 40% higher than in Germany. Likewise, Italy and France share a private wealth/GDP ratio of five to one, while Spain’s – at least before the crisis hit the country in full – was six to one. By contrast, the ratio in Germany, Europe’s largest creditor, is only 3.5 to one.
This discrepancy is at the heart of the question with which European policymakers are now grappling: Should taxpayers in debtor countries expect “solidarity” – or, more bluntly, money – from taxpayers in creditor countries? Why should taxpayers in creditor countries have to take responsibility for financing the euro crisis, especially given that high private wealth/GDP ratios may result from low tax revenues over time, while lower ratios may reflect higher tax revenues?
Before seeking or accepting help from the rest of Europe, countries should employ all available domestic resources. Debtor governments should call upon their own taxpayers to fund some of the national debt in order to avoid higher interest rates in credit markets. They could, for example, offer an incentive in the form of a 3-4% interest rate on bonds, and even make them tax-free eventually. This would allow Italy, Spain, and even Greece to finance their national debts at a more reasonable, sustainable cost.
Citizens’ voluntary financing of their countries’ national debt would be the most effective means of reducing strain on Europe’s financial resources, while simultaneously serving as a powerful symbol of solidarity. By contrast, turning creditor-country citizens’ tax payments into forced subsidies of other countries’ debts would undermine European cohesion. Nordic countries, for example, cannot be expected to fund other countries’ debts in the long term – especially if those countries have not made full use of their own resources.
In fact, while concerns over the eurozone’s survival tend to focus on its indebted members, Europe’s monetary union is at risk of losing one of the few members that still enjoys a triple-A credit rating: Finland. Given Finland’s difficult domestic political situation, its citizens may look to Denmark and Sweden – which boast rapid growth and low national debt, and do not pay into the European Financial Stability Facility or the European Stability Mechanism – and decide that eurozone membership costs too much and is no longer worthwhile.
Italy and Spain have enough resources to rescue themselves, and to secure the time needed to restructure their economies. Indeed, even after taking on the entire national debt, their private wealth/GDP ratios would still be higher than they are in some northern European countries.
Escaping the euro crisis is less a matter of economics than of political will. By calling upon citizens to finance their own countries’ national debts, southern Europe’s leaders can fix their own economies and strengthen the European principles of solidarity and subsidiarity.
Van Rompuy taglia ricerca e politica estera dall’eurobilancio
Tutto rinviato al 2013. Il vertice di ieri sul bilancio 2014-2020 dell’Unione europea segna un balzo indietro di vent’anni, ma non per il mancato accordo. Il problema non è nemmeno la riduzione al tetto complessivo di spesa da un trilione di euro in sette anni chiesti dal Merkeron. Di inefficienze ce ne sono in tutte le amministrazioni pubbliche: Angela Merkel e David Cameron hanno ragione sulla spending review brussellese. Il problema sono le scelte politiche compiute sui tagli, in nome della necessità di un accordo. Davanti alle minacce di veto, il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha messo sul tavolo una proposta per preservare lo status quo. Qualche miliardo in più alla Politica agricola comune (Pac) e alla Politica di coesione, riducendo consistentemente le risorse per le rubriche “crescita e competitività” e “ruolo globale dell’Ue”: 8 miliardi tolti alla ricerca; 5 sottratti alle infrastrutture; altri 5 alla politica estera. Era il contentino per francesi e italiani che, dopo essersi dichiarati i leader del partito della crescita in Europa, hanno fatto dell’agricoltura e dei fondi regionali le loro linee rosse.
I tagli di Van Rompuy raccontano lo stato dell’Unione meglio di qualsiasi suo discorso: l’Ue è concentrata sul passato e, in un presente di crisi, riesce a guardare solo all’ombelico. Pac e Coesione sono le due rubriche storiche, che da vent’anni pesano di più sul bilancio comunitario, frenando le ambizioni europee. Sette anni fa, Tony Blair aveva cercato invano di riequilibrare le spese a favore di innovazione e competitività. L’apostolo francese del neokeynesismo ha fatto come Jacques Chirac nel 2005: François Hollande ha battagliato per mantenere i privilegi dei suoi ricchi agricoltori. La Commissione per mesi aveva predicato la crescita, ma durante il vertice si è adoperata soprattutto per difendere l’Eurocrazia: i portavoce di José Manuel Barroso circolavano in sala stampa con un grafico per dimostrare di avere meno privilegi dei funzionari britannici. Mario Monti, che voleva valorizzare gli investimenti pubblici, si è invece dedicato alla salvaguardia degli inefficienti fondi europei per Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Con l’aggravante che, in mancanza di risorse nazionali per co-finanziare i progetti, l’Italia non riesce a spendere i soldi, ritrovandosi così nella posizione di primo contributore netto dell’Ue. In queste condizioni, meglio andarsene a casa. Un paio di mesi di riflessione forse permetteranno ai leader di capire che l’Ue di ieri non riuscirà a sopravvivere al domani.
Guadagnare tempo è l’imperativo categorico di ciascuno di noi. Per vivere più a lungo possibile si fa ogni sforzo per mantenersi sani. E la gente ammira e invidia i centenari. La storia, come ci ricorda il Manzoni, “si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo”. Questa “guerra illustre” si declina in tutti gli aspetti della vita. Dall’economia alla politica. In economia si cerca di investire in modo da poter conseguire utilità permanenti o per lo meno di lungo periodo o si cercano lavori che diano garanzia per tutta la vita. In politica si persegue il consenso per mantenere il potere più a lungo possibile.
A fronte di questa inalienabile attitudine, oggi si assiste, in politica e in economia, a una realtà che sembra contraddirla. In un momento di incertezza straordinaria la fa da padrone lo shortermismo. Non si guarda più al lungo periodo, ma si cerca di sopravvivere giorno per giorno. Basti considerare, per esempio, che non si fanno più investimenti in infrastrutture o in istruzione e che si guarda alle prossime elezioni di primavera come un evento ancora remoto. E’ vero che la situazione è profondamente cambiata e che le novità spaventano l’animo dell’uomo – che molte volte assume l’atteggiamento tipico dello struzzo – ma è anche vero che in questo modo il rischio diventa certezza. Il fallimento, anziché combattuto, risulta accettato e quasi ricercato. Ma è un approccio irrazionale e innaturale, a cui non ci si può rassegnare. In passato, in politica come in economia, è stato possibile “comperare tempo” con politiche distributive che sono servite ad accrescere il benessere della popolazione indipendentemente dall’andamento del ciclo economico. Queste politiche sono state finanziate con la crescita del debito pubblico, il cui onere è stato posto a carico delle nuove generazioni. Ma, prima o poi, il conto arriva. La globalizzazione lo ha fatto arrivare ancora prima del previsto. Oggi, compreso l’inganno, le giovani generazioni non sono disposte a mettere mano al portafogli per consentire alle generazioni precedenti di vivere nel (relativo) benessere sulle loro spalle. In sostanza, la riserva di tempo si è esaurita. Quello che occorre fare oggi è ricomprare nuovo tempo. Con quali risorse e strumenti?
In primo luogo occorre garantirsi la possibilità di comperare tempo anche in futuro e non essere travolti subito. E questo lo ha fatto benissimo la Bce garantendo la stabilità dell’euro ed evitando l’assalto ai mercati per un periodo ragionevole. Ma, in secondo luogo, occorre che questo piccolo “tesoretto” non sia sotterrato come lo zecchino d’oro di Pinocchio, ma sia messo a frutto. Come? Con un meccanismo non diverso da una sorta di “banca del tempo”. Le vecchie generazioni – che non sono solo le persone anziane, ma anche tutti quelli che appartengono a categorie protette dal sistema – dovrebbero rinunciare a una parte del loro benessere e investire risorse da destinare alla costruzione di un ambiente economico che garantisca un futuro ai giovani. Intendiamoci. Non si tratta di puro altruismo, ma di un egoismo razionale. Infatti, se la situazione non cambia, è difficile pensare che i giovani di oggi saranno disposti a rinunciare alle proprie pensioni per pagare quelle dei vecchi, di oggi e di domani. Quindi, chi oggi gode dell’“ombrello” di un lavoro sicuro e di una pensione adeguata, farebbe bene, per salvaguardare la possibilità di riscuoterla comunque anche in futuro, a prevedere di accantonarne una quota da destinare a un meccanismo di riequilibrio. Ma il vero riequilibrio non si può ottenere altrimenti che per la via dello sviluppo. E la chiave, come ha ribadito ancora una volta – con cristallina chiarezza – il presidente della Bce Mario Draghi giovedì scorso all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, non passa per l’aumento delle tasse, ma solo ed esclusivamente per la riduzione della spesa pubblica. Corollario di questo approccio è costituito dall’apertura della società: solo quelle società capaci di includere tutte le loro componenti sono in grado di far crescere le capacità di ciascun individuo e di incrementare il benessere complessivo. Quelle che privilegiano alcuni rispetto ad altri, escludendoli dalla distribuzione del reddito, perdono il lievito della crescita e sono inevitabilmente destinate al declino. E’ una strada assai stretta, ma il mondo dell’economia ha capito già da tempo che si tratta di un percorso ineludibile e i segnali che provengono dai mercati evidenziano, anche violentemente, la necessità di percorrerla. I comuni cittadini lo hanno capito benissimo, tanto è vero che stanno cambiando in tempi rapidissimi abitudini di vita e attitudini di spesa. Chi sembra non averlo ancora compreso è il mondo della politica.
The upswing in global equity markets that started in July is now running out of steam, which comes as no surprise: with no significant improvement in growth prospects in either the advanced or major emerging economies, the rally always seemed to lack legs. If anything, the correction might have come sooner, given disappointing macroeconomic data in recent months.
Starting with the advanced countries, the eurozone recession has spread from the periphery to the core, with France entering recession and Germany facing a double whammy of slowing growth in one major export market (China/Asia) and outright contraction in others (southern Europe). Economic growth in the United States has remained anemic, at 1.5-2% for most of the year, and Japan is lapsing into a new recession. The United Kingdom, like the eurozone, has already endured a double-dip recession, and now even strong commodity exporters – Canada, the Nordic countries, and Australia – are slowing in the face of headwinds from the US, Europe, and China.
Meanwhile, emerging-market economies – including all of the BRICs (Brazil, Russia, India, and China) and other major players like Argentina, Turkey, and South Africa – also slowed in 2012. China’s slowdown may be stabilized for a few quarters, given the government’s latest fiscal, monetary, and credit injection; but this stimulus will only perpetuate the country’s unsustainable growth model, one based on too much fixed investment and savings and too little private consumption.
In 2013, downside risks to global growth will be exacerbated by the spread of fiscal austerity to most advanced economies. Until now, the recessionary fiscal drag has been concentrated in the eurozone periphery and the UK. But now it is permeating the eurozone’s core. And in the US, even if President Barack Obama and the Republicans in Congress agree on a budget plan that avoids the looming “fiscal cliff,” spending cuts and tax increases will invariably lead to some drag on growth in 2013 – at least 1% of GDP. In Japan, the fiscal stimulus from post-earthquake reconstruction will be phased out, while a new consumption tax will be phased in by 2014.
The International Monetary Fund is thus absolutely right in arguing that excessively front-loaded and synchronized fiscal austerity in most advanced economies will dim global growth prospects in 2013. So, what explains the recent rally in US and global asset markets?
The answer is simple: Central banks have turned on their liquidity hoses again, providing a boost to risky assets. The US Federal Reserve has embraced aggressive, open-ended quantitative easing (QE). The European Central Bank’s announcement of its “outright market transactions” program has reduced the risk of a sovereign-debt crisis in the eurozone periphery and a breakup of the monetary union. The Bank of England has moved from QE to CE (credit easing), and the Bank of Japan has repeatedly increased the size of its QE operations.
Monetary authorities in many other advanced and emerging-market economies have cut their policy rates as well. And, with slow growth, subdued inflation, near-zero short-term interest rates, and more QE, longer-term interest rates in most advanced economies remain low (with the exception of the eurozone periphery, where sovereign risk remains relatively high). It is small wonder, then, that investors desperately searching for yield have rushed into equities, commodities, credit instruments, and emerging-market currencies.
But now a global market correction seems underway, owing, first and foremost, to the poor growth outlook. At the same time, the eurozone crisis remains unresolved, despite the ECB’s bold actions and talk of a banking, fiscal, economic, and political union. Specifically, Greece, Portugal, Spain, and Italy are still at risk, while bailout fatigue pervades the eurozone core.
Moreover, political and policy uncertainties – on the fiscal, debt, taxation, and regulatory fronts – abound. In the US, the fiscal worries are threefold: the risk of a “cliff” in 2013, as tax increases and massive spending cuts kick in automatically if no political agreement is reached; renewed partisan combat over the debt ceiling; and a new fight over medium-term fiscal austerity. In many other countries or regions – for example, China, Korea, Japan, Israel, Germany, Italy, and Catalonia – upcoming elections or political transitions have similarly increased policy uncertainty.
Yet another reason for the correction is that valuations in stock markets are stretched: price/earnings ratios are now high, while growth in earnings per share is slackening, and will be subject to further negative surprises as growth and inflation remain low. With uncertainty, volatility, and tail risks on the rise again, the correction could accelerate quickly.
Indeed, there are now greater geopolitical uncertainties as well: the risk of an Iran-Israel military confrontation remains high as negotiations and sanctions may not deter Iran from developing nuclear-weapons capacity; a new war between Israel and Hamas in Gaza is likely; the Arab Spring is turning into a grim winter of economic, social, and political instability; and territorial disputes in Asia between China, Korea, Japan, Taiwan, the Philippines, and Vietnam are inflaming nationalist forces.
As consumers, firms, and investors become more cautious and risk-averse, the equity-market rally of the second half of 2012 has crested. And, given the seriousness of the downside risks to growth in advanced and emerging economies alike, the correction could be a bellwether of worse to come for the global economy and financial markets in 2013.
Si è gridato troppe volte “siamo tutti poveri” al punto che quando sarà vero se ne accorgeranno in pochi
L’allarme povertà è suonato decine di volte sui giornali da quattro anni a oggi.“Istat, allarme povertà: il 5 per cento soffre per il cibo” è il titolo di un articolo pubblicato sulla Stampa nel dicembre del 2008. Si spiega che quindici famiglie su cento (è il sottotitolo) faticano ad arrivare a fine mese. L’articolo rende noto un sondaggio tra la popolazione, di per sé difficile da condurre (quanti sovrastimano e soprattutto sottostimano la propria condizione? Se sono povero potrei dire di stare meglio, se sto bene potrei piangere miseria) e di ancora più difficile lettura: il 5 per cento di un pur rappresentativo campione di 20 mila famiglie è già un allarme o un’avvisaglia? Al netto del singolo caso, dalla fine del 2008 è iniziato un “diluvio di dati” che ha contribuito a moltiplicare l’allarmismo in merito alle condizioni economiche dei cittadini italiani. Dire quanti poveri ci sono realmente è difficile e scomodo. Una battaglia di numeri fra gli enti di statistica e quelli caritatevoli fornisce una prova di quanto il freddo numero sia scivoloso: nel 2010 per la Caritas erano povere 8.370.000 persone e non 7.810.000 come diceva invece l’Istat che è arrivato a contare 8.173.000 poveri solo nel 2011, un dato peraltro stabile rispetto all’anno precedente (8.272.000). Ciò dimostra quanto sia facile “usare” i dati in base ai propri scopi. Come ha scritto nel 2010 il sociologo Luca Ricolfi su Panorama: “Supponiamo di essere il governo e di volere credere che le cose vadano bene. Allora ci basterà usare i dati Istat sulla povertà assoluta, […] se invece siamo i sindacati […] possiamo definire la povertà come deficit, ovvero spendere più di quello che si guadagna (non arrivare alla fine del mese)”. Ammesso che anche un ricco può spendere di più di quello che guadagna a fine mese (andando in deficit) è la definizione di povertà (ne esistono cinque) a fare la differenza perché essa stessa è un dato in generale sovrastimato. La povertà relativa, ad esempio, serve a valutare le diseguaglianze sociali perché si riferisce a un nucleo famigliare (due persone) che spende meno della spesa media pro capite (una persona, 992 euro mensili), non a valutare quanto si è effettivamente poveri. E “si mantiene stabile al 10 per cento negli ultimi 15 anni”, scriveva nel 2010 un’indagine dell’Istat. Paradossalmente se il paese nel complesso si impoverisce, cioè una persona spende meno, la spesa media diminuisce e così si riduce anche il divario (“povertà relativa”). Non è un inganno.
Peggio è confondere il “rischio povertà” e di “esclusione sociale” dell’Istat, che valuta in primis il calo stimato del reddito, con la “povertà”. E’ il caso di un rapporto dell’Istituto nazionale di statistica del maggio 2010 in cui si diceva – in realtà – che la povertà era stabile (al 13 per cento) così come il rischio povertà. I giornali hanno però lanciato un altro allarme infondato ed è intervenuto il presidente Istat Enrico Giovannini il giorno successivo: “Sono rimasto sorpreso da quanto riportato dai giornali, hanno confuso i dati sulla povertà col rischio di povertà e il rischio di esclusione sociale”. “L’indicatore della povertà è stabile al 13 per cento – ha puntualizzato – mentre al 25 per cento è l’indicatore, scelto dai governi a livello europeo, che comprende i rischi di povertà e i rischi di esclusione sociale. Un indicatore, come evidenziato nel Rapporto sulla situazione dell’Italia, che anche in questo caso è abbastanza stabile”. Esiste poi un certo “vuoto” statistico che nessuno è riuscito a colmare: quanti evasori si nascondono tra la massa di indigenti, cioè chi ha reddito zero? L’Agenzia delle entrate, in base alla simulazione del Redditest, ha comunicato che circa un quinto delle famiglie dichiara zero reddito eppure ammette di consumare. Ma non è detto che siano loro gli “intrusi”: il dato non è comparabile con l’indice Istat (basato sui consumi rilevati), e tra gli “zero reddito” si confondono evasori, ereditieri e poveri. Gli analisti concordano però sul fatto che una percentuale (inquantificabile) di nullatenenti è un evasore. Gli ultimi dati disponibili dell’Istat in “La povertà in Italia” del 2011 rivelano che le famiglie italiane non povere, in base alla spesa mensile sopra o sotto la soglia di povertà relativa, sono l’81,4 per cento del totale. Il restante è “sicuramente povero” (5 per cento, 1 milione e 272 mila persone) “appena povero” (6 per cento) e “quasi povero” (7,6 per cento). Questo non significa che la ricchezza degli italiani sia aumentata in tempi di crisi. Ci sono però dati più precisi ed estremi per valutare un fenomeno che una lunga recessione (e vent’anni senza crescita economica) porta con sé.
Il 2011 ha segnato una svolta “dopo una sostanziale stabilità” delle rinunce materiali.Gli italiani cominciano a non potere sostenere spese impreviste, a non andare in ferie, a lasciare rate arretrate da pagare, a non potere riscaldare adeguatamente l’abitazione. Nel 2011, dice l’Istat, l’indice di deprivazione è cresciuto di 6,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente arrivando a 22,2. Quello di deprivazione grave è invece passato dal 6,9 all’11,1 per cento. Un altro fronte per comprendere il graduale deterioramento della situazione è il risparmio delle famiglie. Quel risparmio privato considerato un punto di forza soprattutto dell’economia nazionale. Un report della banca d’affari Goldman Sachs ha certificato che con “un massiccio deterioramento dei risparmi dal 2008” il tesoretto complessivo potrebbe essere calato a 7.500 miliardi di euro (meno della Spagna). Significa un calo del 10 per cento rispetto ai primi anni Ottanta. Anche i non poveri stanno iniziando ad attingere alla cassaforte di casa. Sembra insomma che il vero allarme debba ancora arrivare. Ammesso che ci saranno orecchie (non troppo frastornate) ad ascoltare.
Nell’Europa che combatte contro l’austerity s’avanza un politico che ha zittito “gli struzzi liberal” e che ha sculacciato il Nobel barbuto a colpi di tweet. Storia (con intervista) del presidente dell’Estonia
"If you look back, the crash is very good”. Le immagini delle migliaia e migliaia e migliaia di persone che tre giorni fa hanno partecipato in tutta Europa ai cortei, alle protese, alle manifestazioni e agli scioperi organizzati contro il famoso regime dell’austerity imposto a gran parte dei paesi del nostro continente dalle tecnoburocrazie europee non si possono capire fino in fondo senza imparare a memoria questo nome: Toomas Hendrik Ilves. Ilves ha 59 anni, è un ex giornalista, è nato a Stoccolma, ha vissuto a lungo in America, ha studiato alla Columbia University, è stato ambasciatore negli Stati Uniti e dal 9 ottobre del 2006 è il presidente dell’unica nazione d’Europa che è riuscita in questi mesi a rimettere in discussione la risposta alla domanda chiave di questa complicata fase del capitalismo europeo: ma insomma, questa benedetta “austerità” è una medicina utile per curare i paesi che si trovano in gravi difficoltà economiche oppure è un medicinale che piuttosto che aiutare il malato a rialzarsi in piedi non fa altro che peggiorare le sue già precarie condizioni di salute? Fino a oggi – e bisogna partire da qui per arrivare alla storia del presidente estone, vedremo perché – il più grande paladino della tesi “l’austerità è brutta, sporca e cattiva” è stato, ed è, il grande economista e Nobel americano Paul Krugman, che negli ultimi mesi, tra libri, post, blog, tweet e apprezzate (e assai tradotte) column sul New York Times, non ha perso occasione per ribadire un concetto molto semplice: l’austerità non serve in nessun modo a ridare ossigeno a un paese in difficoltà e se si vuole aiutare una nazione a uscire fuori dalle sacche di una crisi bisogna fare due cose: stampare tanta moneta attraverso una Banca centrale che abbia funzione di prestatore di ultima istanza e aprire i cordoni della spesa pubblica per investire, creare più posti di lavoro e riattivare la domanda aggregata anche a costo di drogare l’economia con ripetute iniezioni di denaro preso in prestito a tassi agevolati. La dottrina Krugman, che altro poi non è che un’evoluzione moderna del pensiero keynesiano, è stata per molti mesi una clava che molti economisti e molti politici (non solo liberal) hanno scelto di impugnare per bastonare gli apostoli del rigore e dell’austerity identificati il più delle volte con le figure di Angela Merkel, di Wolfgang Schäuble e, se non altro per ruolo istituzionale, di Mario Draghi. In questi mesi, in realtà, la Banca centrale è riuscita ad allentare la presa e a creare delle scialuppe di salvataggio che hanno permesso ai paesi più in difficoltà di navigare con più serenità nel mare della crisi e di ritrovare forza nel promuovere le politiche del rigore. Ma nonostante questo gli apostoli del krugmanesimo non hanno smesso in tutte queste settimane di rivendicare la loro teoria dell’“austerità brutta sporca e cattiva”, e non hanno potuto fare a meno di gioire quando anche alcuni santuari del liberismo – come il Fondo monetario internazionale, come il Financial Times e come l’Economist – sono stati costretti ad ammettere in più occasioni che sì, è vero, scusateci, l’austerità in molte occasioni non ha portato i frutti che si aspettavano, e “l’argomento secondo cui i tagli di bilancio potrebbero dare impulso alla crescita oggi è un argomento che è stato screditato” (Economist, 27 ottobre 2012). In questo quadro di oggettiva depressione psicologica per i campioni del liberismo, esiste però un unico e in qualche modo eroico personaggio che negli ultimi mesi ha scelto di duellare senza timori contro il barbuto profeta liberal del New York Times, riuscendo a tenere testa al Nobel americano e riuscendo persino a infliggergli alcuni colpi sopra la cinghia politicamente letali. Il suo nome lo avrete visto forse comparire qualche volta tra i boxini che di rado i giornaloni italiani dedicano al suo paese per esaltarne le grandi doti di nazione all’avanguardia nel campo della banda larga, ma a guardar bene dietro quei boxini si nasconde quello che forse oggi è l’unico uomo politico che sia riuscito a sconfiggere e a sculacciare sul campo il grande teorico del no all’austerità. Lui, come avrete capito, è Toomas Hendrik Ilves e non è soltanto il presidente di un dinamico stato europeo ma è anche il capo dell’unica nazione d’Europa che ha resistito alla crisi economica riuscendo a trasformare la parola austerity non in un sinonimo di disgrazia o in un coro da stadio – “Ollelle-Ollalla-No-alla-Bce-no-all’austerità” – ma in un simbolo di un meccanismo virtuoso utile e forse indispensabile (a certe condizioni) per far crescere e maturare l’economia di un paese in difficoltà. Un paese, in questo caso l’Estonia, che nonostante la crisi ha raggiunto performance da sballo attraverso una miscela fatta di alcuni piccoli e semplici ingredienti: riforme del mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, tagli agli stipendi del settore pubblico, innalzamento dell’età pensionabile, leggero aumento dell’Iva ma niente aggravi sulle tasse sui redditi (in Estonia, detto tra parentesi, c’è una flat tax al venti per cento: roba da far svenire Giavazzi).
Le conseguenze? Beh, clamorose. Dopo alcuni mesi di difficoltà immediatamente successivi alla bancarotta della Lehman Brothers (quando il debito sovrano di Tallinn era il terzo più rischioso in Europa, quando il pil del paese era crollato del 3,7 per cento nel 2008 e del 14,3 per cento nel 2009 e quando il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 19,8 per cento), nel 2011 l’Estonia ricomincia a respirare e grazie alla sua particolare politica d’austerity riesce a risorgere con dei numeri da urlo. E così nel 2011 l’economia torna a crescere al ritmo del 7,6 per cento annuo e sempre nello stesso anno la disoccupazione scende all’11 per cento e l’Estonia riesce a diventare l’unico paese della zona euro con un avanzo di bilancio (e, detto ancora tra parentesi, con un debito nazionale pari al 6 per cento del suo pil, che, con le dovute proporzioni, è un numero non male rispetto all’81 per cento della Germania e al 165 per cento della Grecia).
Risultato? L’Estonia oggi cresce con una media cinque volte superiore a quella dell’Unione europea e nonostante i tagli, la riforma del lavoro, le pensioni e tutto il resto Tallinn non ha conosciuto un solo giorno di sciopero, non ha visto sfilare un solo corteo “Ollelle-Ollalla-No-alla-Bce-no-all’austerità” e il governo è stato così apprezzato che nel 2011, ripresentandosi alle elezioni, non solo non è stato sputazzato dagli elettori ma è stato – caso unico in Europa – persino confermato. Il governo, sì, e anche il presidente della Repubblica, Toomas Hendrik Ilves, che in questa intervista al Foglio, dopo essersi preso una bella soddisfazione a raffiche di tweet con Krugman (ne parleremo tra poco), prova a spiegare il senso di quella frase: “If you look back, the crash is very good”. Ovvero: se oggi guardiamo indietro la crisi è stata un vero affare.
“Io credo che il mio paese oggi sia davvero un esempio virtuoso di cosa significhi portare avanti una vera politica d’austerity. Un esempio anche scomodo, mi verrebbe da dire, e perdonatemi il termine, perché noi nel nostro piccolo abbiamo dimostrato quanto sia insensata la dicotomia tra la parola crescita e la parola austerità. L’austerità non è né brutta né cattiva, a volte è semplicemente necessaria, e quando si verificano quelle condizioni che ti fanno capire che non ci sono altre strade da prendere se non quella legata all’austerità tu devi lavorare a testa bassa e fare del tuo meglio per trasformare quella costrizione in un vantaggio per il tuo paese. Ma questo bisogna farlo avendo chiaro in testa alcuni principi fondamentali”. Tre in particolare. “Non voglio fare polemica con nessuno, per carità – dice Ilves con un pizzico di malizia – ma guardando con attenzione il resto della zona Euro osservo che il nostro paese è stato uno dei pochi a essersi rifiutato di sottoporsi a un regime forzato di rianimazione. In che senso? Nel senso che l’Estonia ha scelto di non far ricorso ad alcun tipo di bailout perché la nostra cultura va contro quel principio del prendere i soldi in prestito e poi dimenticarsi, accecati da quei soldi, i problemi che hanno generato la crisi di un paese. Non prendiamoci in giro, su. Prendere tanti soldi in prestito è un palliativo che spesso non fa altro che peggiorare le cose. Noi, come paese, siamo cresciuti in modo diverso: siamo cresciuti con sacrifici e con liberalizzazioni, con tagli e con poche tasse, e puntando forte su riforme fondamentali come quelle del lavoro e delle pensioni. Ed è questo ciò che serve quando un paese si trova in difficoltà con il pil, la disoccupazione, la crescita e la recessione: più apertura al mercato interno, più concorrenza, più liberalizzazioni. Questo serve, non i bailout, checché ne dica Krugman”.
La polemica tra il presidente dell’Estonia e il principe dei pensatori liberal anti rigoristi non è solo legata a una battaglia puramente teorica tra due modi diversi di intendere l’evoluzione del capitalismo moderno ma è legata anche a un piccolo fatto di cronaca che quest’estate ha messo uno contro l’altro Ilves e il Nobel americano. Il fatto di cronaca, molto gustoso, è avvenuto il pomeriggio del 6 giugno di quest’anno qualche minuto dopo un post polemico e sarcastico (almeno nelle intenzioni) scritto sul suo blog proprio da Krugman. Titolo del post: “Estonian Rhapsody”. Svolgimento: guardate cari amici liberisti che è inutile che ci raccontiate frottole, perché l’austerità non funziona da nessuna parte e non funziona nemmeno nella vostra adorata Estonia: e se non ci credete guardate questa tabella qui. La tabella in questione pubblicata da Krugman riportava l’andamento del pil estone dal 2007 al 2012 e attraverso quella tabella il Nobel americano ha provato a dimostrare che nonostante tutti gli sforzi fatti dal governo del paese ancora non erano stati ripristinati nel 2012 i valori economici del 2007. “Di fronte a voi – scriveva Krugman – c’è un terribile crollo, ai livelli della Depressione, seguito da un significativo, ma ancora incompleto recupero. Meglio di nessun recupero, ovvio, ma è questo quello che può essere definito un trionfo economico?”. Pochi minuti dopo la pubblicazione del post, il presidente Ilves, dopo aver letto sul tablet quanto scritto da Krugman, al termine di una visita ufficiale nella vicina Lettonia torna nel suo albergo a Riga, tira fuori il suo iPhone e inizia a rispondere alle critiche dell’economista americano a colpi di tweet. Ilves ne scrive cinque in 73 minuti (dalle 20.57 alle 22.10) e in ogni tweet il presidente mostra in modo piuttosto convinto la sua indignazione. I tweet sono di questo genere: “Massì, scriviamo pure di cose che non conosciamo con fare compiaciuto e arrogante: tanto quelli sono solo maledetti straccioni, che ce ne importa”; “Immagino che avere un Nobel per una teoria sul commercio, autorizzi a pontificare anche in materia fiscale e dichiarare il mio paese una terra perduta”; “Ma certo, come no? Noi siamo solo dei buffi e stupidi europei orientali. Non illuminati. Anche noi, un giorno, capiremo. Colpa nostra”. Ecco. Ma perché il presidente Ilves si è arrabbiato così tanto? E perché nelle settimane successive ha trasformato l’invettiva di Krugman in una specie di guerra di religione? E perché il presidente estone da cinque mesi non fa altro che ripetere nei suoi speech il nome di Krugman (ad agosto un cronista di Bloomberg inviato in Estonia ha raccontato che nel corso della sua visita di una settimana in tre città del paese ha incontrato solo due persone che non sapevano quello che Krugman aveva scritto sul sull’Estonia”). Insomma, perché Krugman è diventato il nemico pubblico numero uno di un piccolo paese come l’Estonia (1,9 milioni di abitanti)? Semplice. Krugman nel suo post non aveva presentato un quadro completo dell’economia estone e, in modo truffaldino sostiene Ilves, aveva preso in considerazione solo gli anni in cui il paese aveva subito lo choc della crisi finanziaria globale, mentre sarebbe stato sufficiente allargare il grafico dall’inizio dell’età dell’austerity (che in Estonia è cominciata nel 2000) per scoprire che i progressi compiuti nel corso del decennio con il rigore e con i bassi livelli di tassazione avevano portato risultati notevoli. (E ora fermatevi un attimo e prima di leggere il prossimo virgolettato di Ilves immaginatevi una scena simile in Italia, con Giorgio Napolitano che dalla sua camera d’albergo dopo aver letto sul tablet un post contro le politiche economiche da lui apprezzate risponde via tweet a un’intemerata sull’austerity di Maurizio Landini o di Stefano Fassina).
“Krugman – ripete Ilves chiacchierando con il Foglio – ha giocato con i dati e io sinceramente non potevo stare in silenzio e sono contento che alla fine tutti, anche gli osservatori liberal, mi abbiano dato ragione. Ma lasciamo perdere Krugman – continua il presidente estone nel nostro colloquio – e andiamo al succo della questione. E il succo è questo. E’ che quando si è costretti ad affrontare una fase di rigore non bisogna rinviare i problemi e diluirli nel tempo ma bisogna affrontarli tutti di petto, e subito, anche a costo di fare scelte impopolari (noi, per dire, abbiamo persino temporaneamente sospeso il contributo del governo al fondo pensionistico volontario). Nel nostro piccolo, in Estonia abbiamo scelto di non portare avanti una politica espansionistica nell’ambito della spesa pubblica perché sapevamo che c’erano diverse riforme che andavano fatte subito per rendere più competitivo il nostro paese, e lo abbiamo fatto fino in fondo, senza girare attorno al problema – e anzi, dirò di più: il nostro avanzo di bilancio lo abbiamo messo in un fondo di stabilizzazione e abbiamo deciso di non spenderlo durante i mesi della crisi. Tutto questo però non lo si può comprendere senza capire la filosofia di questa impostazione culturale che abbiamo scelto per affrontare la crisi. La questione è semplice: bisogna mettersi in testa che con questa politica – dice Ilves sempre in un inglese perfetto – it’s clear that things will get worse before they get better, è ovvio che le cose, come si dice, andranno peggio prima di andare meglio, ed è chiaro che bisogna serrare i denti ma bisogna anche far capire bene che risultati darà al paese la scelta di stringere la cinghia. Perché la verità è una: la politica dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia per non vedere i problemi non funziona ed è irresponsabile”. Il presidente estone poi – che politicamente fa parte di una famiglia conservatrice anche se in Estonia i conservatori si fanno chiamare socialdemocratici – rivolge una piccola provocazione alle sinistre europee (“E’ stupefacente che molte sinistre moderne siano diventate delle realtà protezionistiche che si ergono a difesa delle aziende decotte che vivono soltanto con sovvenzioni artificiali quando il protezionismo con le sue restrizioni artificiali sul commercio dovrebbe essere il nemico numero uno dei pensatori liberal”) e poi prova a offrire un suo punto di vista sul nostro paese.
“Mario Monti – aggiunge Ilves – ha fatto molto per aiutare l’Italia a uscire da una situazione difficile e ho il più profondo rispetto per il vostro premier. Purtroppo non conosco l’economia italiana o le sue finanze pubbliche abbastanza bene per offrire un mio giudizio complessivo sul vostro sistema ma una cosa la posso dire. Praticare l’austerità è sempre difficile se il settore pubblico ha goduto per anni di concessioni generose senza chiedersi da dove diavolo provenisse tutto quel denaro. Se i benefici provengono da denaro preso in prestito, cioè da debito, cioè da denaro non propriamente guadagnato, allora ci si deve rendere conto prima che quella ricchezza non è reale, che non proviene dalla redistribuzione del gettito fiscale, ma che semplicemente viene da prestiti e come tutti i prestiti prima o poi bisogna restituirlo, il gruzzolo”. Secondo Ilves, in fondo, è proprio questa la lezione più importante che ci ha regalato questa crisi economica. “Credo – conclude il presidente – che tutti gli stati che sono passati sotto il giogo della recessione oggi hanno capito che vivere sui prestiti e basarsi su quei prestiti per pagare i servizi sociali non è più sostenibile. E’ questo il vero problema, non l’euro. E il problema è che finora ci siamo trovati di fronte a troppi governi che ritenevano possibile tirare avanti con un indebitamento a basso costo senza incrementi di produttività e con una competitività insignificante. Questo è il punto, e non venitemi a dire poi che da questa crisi si esce con politiche keynesiane. Perché la verità la sappiamo tutti qual è: le soluzioni keynesiane storicamente funzionano solo con piccole recessioni, e questa crisi non è stata affatto una leggera recessione. Dico un’ovvietà forse, ma chi lo sa, magari Krugman si era distratto un attimo”.
Il “victory speech” di Xi Jinping è molto americano, assomiglia a una zampata da superpotenza. Ma gli esperti ci dicono che Obama può stare tranquillo, per ora
"Buonasera a tutti, scusate il ritardo”, ha detto il nuovo segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping, presentando alla stampa i sette membri del Comitato permanente che governeranno la Cina per il prossimo quinquennio. Disinvolto, sorridente, lontano dai rigidi schemi cui per decenni ci hanno abituato i leader ingessati à la Jiang Zemin e à la Hu Jintao. Poco spazio alla retorica ufficiale, molta sobrietà, tanti i buoni propositi: risolvere “i problemi interni al Partito”, far conoscere di più la Cina al mondo e far sì che la Cina sappia di più sul mondo che la circonda, favorire il benessere del popolo. Sembrava il victory speech di un presidente americano appena eletto più che la prima conferenza stampa ufficiale del segretario del Pcc. Analisti e giornalisti erano pronti a decodificare le frasi di Xi, a sentire cosa avrebbe detto dopo mesi di silenzio e di sparizioni misteriose, a capire se dalle sue prime parole emergesse qualcosa di nuovo in merito alla rotta che Pechino seguirà nel prossimo decennio. Sono stati i modi affabili del presidente a colpire gli osservatori, abituati alle espressioni plastiche del vecchio Jiang Zemin e al grigiore di Hu Jintao.
Quello andato in scena ieri mattina è stato l’atto conclusivo e più atteso del diciottesimo Congresso del Partito comunista cinese. Il giorno prima, nella Sala dell’Assemblea del Popolo, la banda dell’Esercito di liberazione popolare suonava l’Internazionale, celebrando così il passaggio di consegne tra una generazione e l’altra di uomini al comando. I delegati tutti in piedi sull’attenti, gli uomini con la cravatta rossa d’ordinanza, le signore – poche – con l’austero tailleur da funzionario di stato. Per un giorno, le faide che per mesi hanno fatto tremare il Palazzo sono state sostituite da sorrisi, applausi e vigorose strette di mano. Le operazioni di rito si sono concluse senza intoppi: nessuna sorpresa riguardo l’elezione dei duecentosei membri del Comitato centrale (anche se il numero delle donne scende da tredici a dieci), al punto che l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua si limitava a svelare al mondo i nomi dei volti più noti che hanno passato il vaglio dei vari panel riservati e sono stati poi premiati dall’enorme urna rossa collocata al centro della sala. Tutto è andato come previsto: Xi Jinping, il figlio dell’eroe della Rivoluzione caduto in disgrazia e poi attivo riformista negli anni Ottanta, alla presidenza. Li Keqiang, avvocato di fama e pupillo di Hu Jintao – che lo avrebbe voluto come suo successore – prenderà il posto del chiacchieratissimo Wen Jiabao come premier. La sfida per il prossimo decennio è lanciata: raggiungere l’armonia entro il 2020, superare le diseguaglianze, annullare i contrasti sociali, azzerare la corruzione (soprattutto quella interna al Partito), diventare una grande potenza marittima in grado di vincere qualche conflitto locale, contare sempre di più nel mondo.
Finito il congresso, smontate le gigantesche composizioni floreali, ci si domanda se le parole della leadership uscente e di quella entrante lasceranno spazio ai fatti, se l’America – e noi con lei – deve preoccuparsi, temere che la sua stella sia destinata a brillare sempre meno, offuscata dal Dragone rampante. E’ a oriente che si decideranno le sorti del pianeta, soprattutto sul piano finanziario? Sono le premesse del “Secolo cinese”, il definitivo consolidamento di Pechino come potenza in grado di soppiantare Washington? Il tema non è nuovo: già da qualche anno – ben prima che questo secolo iniziasse – saggi sul risveglio della Cina hanno invaso le librerie di tutto il mondo, raccontando la continua e incessante marcia verso la posizione di leader mondiale, davanti a tutti gli altri. I primi segnali dell’avanzata di Pechino, del suo vero balzo verso la modernità, risalgono alle cene tra Henry Kissinger e Zhou Enlai, il premier cinese fedelissimo di Mao, negli anni Settanta. Si diceva, allora, che il mondo aveva scoperto la nuova grande potenza, ormai sdoganata pure dagli Stati Uniti. In America, però, molti sono convinti che si stia esagerando, che il peso cinese sia sovrastimato, che la Frontiera resisterà alla competizione con la Grande muraglia. Esperti del calibro di William Kirby, che dirige il Centro per gli studi cinesi a Harvard, ricordano che anche all’inizio del Novecento si diceva che la Cina stava crescendo inesorabilmente, che presto tutti avrebbero dovuto fare i conti con la sua forza e il suo splendore. Diplomatici, avventurieri e romanzieri ne descrivevano le bellezze e l’efficienza del suo modello educativo (ogni giorno veniva fondata una nuova università), politico, culturale. Perfino le infrastrutture incantavano i visitatori dell’allora Impero di mezzo.
Poi, improvvisamente, la millenaria storia monarchica finì, la stagione d’oro dei mandarini fu archiviata per sempre, arrivò la parentesi repubblicana con Sun Yat Sen, quindi Mao con il suo libretto rosso e la cacciata dei nazionalisti del Kuomintang, prontamente rifugiatisi a Taiwan. E di quello che era il Secolo cinese non è rimasto nulla, se non l’illusione spezzata. Oggi siamo allo stesso punto, dice al Foglio Robert J. Lieber, docente di Affari internazionali alla Georgetown University: “Stiamo sopravvalutando troppo la Cina e allo stesso tempo sottovalutiamo i suoi gravi problemi interni. Inoltre, non va dimenticato che nonostante la spettacolare crescita economica degli ultimi trent’anni, il suo prodotto interno lordo è poco più che la metà di quello americano”. Fare un paragone con gli Stati Uniti e dire che il gigante asiatico sta per superare Washington non è credibile: “Ovviamente l’America deve darsi da fare per risolvere i problemi di bilancio che l’attanagliano da qualche anno, almeno dal 2008, ma non c’è altro paese al mondo con la sua capacità tecnologica e la sua tradizione di democrazia, libertà e rispetto del diritto”.
Con la crisi che nell’ultimo quadriennio ha colpito l’occidente, molti si sono convinti che ormai la strada sia tracciata, che Pechino è destinata ineluttabilmente a superare tutti i concorrenti, anche perché al contempo sta diventando sempre più aggressiva in campo militare, spiega Anthony Saich, esperto di Asia a Harvard. Uno scenario troppo pessimista, visto che dopotutto “la Cina rimane un paese povero che rimarrà ancora a lungo dietro gli Stati Uniti”, aggiunge. “Dire che questo è il Secolo cinese è esagerato – nota Saich – Per diventare una potenza di primo piano ha ancora molto da fare, innanzitutto risolvere i suoi numerosi problemi economici, politici e sociali”.
A mostrare crepe è il suo modello di crescita, che tanto successo ha avuto negli ultimi quindici/vent’anni: “A Pechino devono fare i conti con la popolazione che invecchia, con l’aumento della classe media che chiede sempre di più. La Cina si concentrerà sui problemi interni, punta a diventare leader regionale. Non è pensabile che nel breve periodo sfidi gli Stati Uniti”. L’Asia come regione in cui la Cina sarà la potenza egemone indiscussa è la prospettiva più credibile e realista anche per Gideon Rachman, del Financial Times, che in un colloquio con il Foglio profetizza uno scenario in cui – nel giro di una generazione – “Pechino diventerà sempre più potente e, probabilmente, la più grande economia del pianeta”. Sarà allora che la leadership al comando dovrà dimostrare tutta la sua abilità per “prevenire i rischi derivanti dalla sua vulnerabilità e fragilità”. Questo però non significa che gli Stati Uniti siano condannati al declino: “Anche quando la Cina sarà diventato il più forte attore economico del mondo, Washington rimarrà la potenza dominante sul piano politico ancora per molti anni”, assicura Rachman, aggiungendo che “la rete di alleanze che ha come terminale l’America, la sua capacità tecnologica, l’uso che fa del soft power continueranno a far sì che gli Stati Uniti occuperanno il centro del sistema politico globale, almeno per qualche tempo”.
L’America dovrà imparare a condividere di più il potere con gli altri attori presenti sulla scena internazionale e le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, dice Anthony Saich: “In futuro la maggiorparte dei problemi non potrà essere risolta senza un confronto con Pechino, dal commercio al cambiamento climatico, dalla finanza alle crisi internazionali”. Una realtà non troppo lontana, se è vero che a inizio novembre il governo cinese ha proposto un piano di mediazione per la soluzione del conflitto siriano, proponendosi come interlocutore per le parti in causa e mettendo in ombra la leadership di Barack Obama, impegnato nella campagna elettorale per la rielezione alla Casa Bianca. Al Secolo cinese non crede neppure Joseph S. Nye, già assistente segretario alla Difesa e capo del National intelligence council durante la presidenza di Bill Clinton, che al Foglio dice che “quando si parla della forza della Cina si esagera. Anche se il suo pil supererà entro un decennio quello degli Stati Uniti, il suo prodotto interno lordo pro capite (che è la misura vera della ricchezza di una società) non raggiungerà quello americano ancora per molti decenni, ammesso che ciò avvenga prima o poi. E tutto questo, comunque, si concretizzerebbe ben prima che Pechino possa avvicinare Washington sul piano della potenza militare”, spiega. Tra l’altro, aggiunge, “la Cina è piena di problemi interni che terranno occupata la leadership nel prossimo decennio”.
Washington, insomma, non deve temere. “Più volte nella storia gli americani hanno sottovalutato la propria forza e il proprio ruolo nel mondo”, dice Nye. “Negli anni Cinquanta e Sessanta, dopo il lancio dello Sputnik da parte dei sovietici, molti pensavano che Mosca avesse ormai superato gli Stati Uniti. Negli anni Ottanta è stata la stessa cosa con il Giappone. Ora con la Cina”. Molte analisi, spiega l’ex capo del National Intelligence Council, “non tengono conto dei vantaggi di cui gode Washington nel campo militare, al punto che molte potenze asiatiche accolgono ben volentieri sul loro territorio la presenza americana per bilanciare il peso di Pechino. E’ come se il Canada o il Messico si alleassero con la Cina per bilanciare il ruolo degli Stati Uniti in America del nord”.
Many economists are advocating for regulation that would make banking “boring” and uncompetitive once again. After a crisis, it is not uncommon to hear calls to limit competition. During the Great Depression, the head of the United States National Recovery Administration argued that employers were being forced to lay off workers as a result of “the murderous doctrine of savage and wolfish competition, [of] dog-eat-dog and devil take the hindmost.” He appealed for a more collusive business environment, with the profits made from consumers to be shared between employers and workers.
Concerns about the deleterious effects of competition have always existed, even among those who are not persuaded that government diktat can replace markets, or that intrinsic human goodness is a more powerful motivator than monetary reward and punishment. Where the debate has been most heated, however, concerns the effects of competition on incentives to innovate.
The great Austrian economist Joseph Schumpeter believed that innovation was a much more powerful force for human betterment than was ordinary price competition between firms. As a young man, Schumpeter seemed to believe that monopolies deaden the incentive to innovate – especially to innovate radically. Simply put, a monopolist does not like to lose his existing monopoly profits by undertaking innovation that would cannibalize his existing business.
By contrast, if the industry were open to new players, potential entrants, with everything to gain and little to lose, would have a strong incentive to unleash the waves of “creative destruction” that Schumpeter thought so essential to human progress. In a competitive industry, only paranoid incumbents – those constantly striving for betterment – have any hope of surviving.
As an older man, Schumpeter qualified his views to argue that some degree of monopoly might be preferable to competition in creating stronger incentives for companies to innovate. The rationale is simple: If patent protection were limited, or if it were easy for competitors to innovate around intellectual property, a firm in a competitive market would have very little incentive to invest in pathbreaking research and development. After all, the firm would gain only a temporary advantage at best. If, instead, it withheld spending, and simply copied or worked around others’ R&D, it could survive perfectly well – and might be better off. Knowing this, no one would innovate.
But if the firm enjoyed a monopoly, it would have the incentive to undertake innovations that improved its profitability (so called “process” innovations), because it would be able to capture the resulting profits, rather than see them be competed away. A “boring” bank, shielded from competition and knowing that it “owns” its customers, would want to go the extra mile to help them, because it would get its pound of flesh from their future business. Customers can be happy even when faced by a monopoly, though they would grumble far more if they knew how much they were paying for good service!
An analogy may be useful. A monopoly is like running on firm ground. Nothing compels you to move, but if you do, you move forward. The faster you run, the more scenery you see – so you have some incentive to run fast.
Competition is like a treadmill. If you stand still, you get swept off. But when you run, you can never really get ahead of the treadmill and cover new terrain – so you never run faster than the speed that is set.
So which industrial structure is better for encouraging you to run? As economists are prone to say, it depends.
Perhaps one can have the best of both worlds if one starts on a treadmill, but can jump off if one runs particularly fast – the system is competitive, but those who are particularly innovative secure some monopoly rents for a while. This is what a strong system of patent protection does.
But patents are ineffective in some industries, like finance. The overwhelming evidence, though, is that financial competition promotes innovation. Much of the innovation in finance in the US and Europe came after it was deregulated in the 1980’s – that is, after it stopped being boring.
The critics of finance, however, believe that innovation has been the problem. Instead of Schumpeter’s “creative destruction,” bankers have engaged in destructive creation in order to gouge customers at every opportunity while shielding themselves behind a veil of complexity from the prying eyes of regulators (and even top management). Former US Federal Reserve Board Chairman Paul Volcker has argued, somewhat tongue-in-cheek, that the only useful financial innovation in recent years has been the ATM. Hence, the critics are calling for limits on competition to discourage innovation.
Of course, the critics are right to argue that not all innovations in finance have been useful, and that some have been downright destructive. By and large, however, innovations such as interest-rate swaps and junk bonds have been immensely beneficial, allowing a variety of firms to emerge and obtain finance in a way that simply was not possible before.
Even mortgage-backed securities, which were at the center of the financial crisis that erupted in 2008, have important uses in spreading home and auto ownership. The problem was not with the innovation, but with how it was used – that is, with financiers’ incentives.
And competition does play a role here. Competition makes it harder to make money, and thus depletes the future rents (and stock prices) of the incompetent. In an ordinary industry, incompetent firms (and their employees) would be forced to exit. In the financial sector, the incompetent take on more risk, hoping to hit the jackpot, even while the regulator protects them by deeming them too systemically important to fail.
Instead of abandoning competition and giving banks protected monopolies once again, the public would be better served by making it easier to close banks when they get into trouble. Instead of making banking boring, let us make it a normal industry, susceptible to destruction in the face of creativity.