venerdì 23 novembre 2012

Non possiamo più comprare tempo a debito, rassegniamoci a tagliare, di Giuseppe Vegas


Guadagnare tempo è l’imperativo categorico di ciascuno di noi. Per vivere più a lungo possibile si fa ogni sforzo per mantenersi sani. E la gente ammira e invidia i centenari. La storia, come ci ricorda il Manzoni, “si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo”. Questa “guerra illustre” si declina in tutti gli aspetti della vita. Dall’economia alla politica. In economia si cerca di investire in modo da poter conseguire utilità permanenti o per lo meno di lungo periodo o si cercano lavori che diano garanzia per tutta la vita. In politica si persegue il consenso per mantenere il potere più a lungo possibile.
A fronte di questa inalienabile attitudine, oggi si assiste, in politica e in economia, a una realtà che sembra contraddirla. In un momento di incertezza straordinaria la fa da padrone lo shortermismo. Non si guarda più al lungo periodo, ma si cerca di sopravvivere giorno per giorno. Basti considerare, per esempio, che non si fanno più investimenti in infrastrutture o in istruzione e che si guarda alle prossime elezioni di primavera come un evento ancora remoto. E’ vero che la situazione è profondamente cambiata e che le novità spaventano l’animo dell’uomo – che molte volte assume l’atteggiamento tipico dello struzzo – ma è anche vero che in questo modo il rischio diventa certezza. Il fallimento, anziché combattuto, risulta accettato e quasi ricercato. Ma è un approccio irrazionale e innaturale, a cui non ci si può rassegnare. In passato, in politica come in economia, è stato possibile “comperare tempo” con politiche distributive che sono servite ad accrescere il benessere della popolazione indipendentemente dall’andamento del ciclo economico. Queste politiche sono state finanziate con la crescita del debito pubblico, il cui onere è stato posto a carico delle nuove generazioni. Ma, prima o poi, il conto arriva. La globalizzazione lo ha fatto arrivare ancora prima del previsto. Oggi, compreso l’inganno, le giovani generazioni non sono disposte a mettere mano al portafogli per consentire alle generazioni precedenti di vivere nel (relativo) benessere sulle loro spalle. In sostanza, la riserva di tempo si è esaurita. Quello che occorre fare oggi è ricomprare nuovo tempo. Con quali risorse e strumenti?
In primo luogo occorre garantirsi la possibilità di comperare tempo anche in futuro e non essere travolti subito. E questo lo ha fatto benissimo la Bce garantendo la stabilità dell’euro ed evitando l’assalto ai mercati per un periodo ragionevole. Ma, in secondo luogo, occorre che questo piccolo “tesoretto” non sia sotterrato come lo zecchino d’oro di Pinocchio, ma sia messo a frutto. Come? Con un meccanismo non diverso da una sorta di “banca del tempo”. Le vecchie generazioni – che non sono solo le persone anziane, ma anche tutti quelli che appartengono a categorie protette dal sistema – dovrebbero rinunciare a una parte del loro benessere e investire risorse da destinare alla costruzione di un ambiente economico che garantisca un futuro ai giovani. Intendiamoci. Non si tratta di puro altruismo, ma di un egoismo razionale. Infatti, se la situazione non cambia, è difficile pensare che i giovani di oggi saranno disposti a rinunciare alle proprie pensioni per pagare quelle dei vecchi, di oggi e di domani. Quindi, chi oggi gode dell’“ombrello” di un lavoro sicuro e di una pensione adeguata, farebbe bene, per salvaguardare la possibilità di riscuoterla comunque anche in futuro, a prevedere di accantonarne una quota da destinare a un meccanismo di riequilibrio. Ma il vero riequilibrio non si può ottenere altrimenti che per la via dello sviluppo. E la chiave, come ha ribadito ancora una volta – con cristallina chiarezza – il presidente della Bce Mario Draghi giovedì scorso all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, non passa per l’aumento delle tasse, ma solo ed esclusivamente per la riduzione della spesa pubblica. Corollario di questo approccio è costituito dall’apertura della società: solo quelle società capaci di includere tutte le loro componenti sono in grado di far crescere le capacità di ciascun individuo e di incrementare il benessere complessivo. Quelle che privilegiano alcuni rispetto ad altri, escludendoli dalla distribuzione del reddito, perdono il lievito della crescita e sono inevitabilmente destinate al declino. E’ una strada assai stretta, ma il mondo dell’economia ha capito già da tempo che si tratta di un percorso ineludibile e i segnali che provengono dai mercati evidenziano, anche violentemente, la necessità di percorrerla. I comuni cittadini lo hanno capito benissimo, tanto è vero che stanno cambiando in tempi rapidissimi abitudini di vita e attitudini di spesa. Chi sembra non averlo ancora compreso è il mondo della politica.

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