domenica 18 novembre 2012

L’uomo che ha sconfitto Krugman, di Claudio Cerasa


Nell’Europa che combatte contro l’austerity s’avanza un politico che ha zittito “gli struzzi liberal” e che ha sculacciato il Nobel barbuto a colpi di tweet. Storia (con intervista) del presidente dell’Estonia

"If you look back, the crash is very good”. Le immagini delle migliaia e migliaia e migliaia di persone che tre giorni fa hanno partecipato in tutta Europa ai cortei, alle protese, alle manifestazioni e agli scioperi organizzati contro il famoso regime dell’austerity imposto a gran parte dei paesi del nostro continente dalle tecnoburocrazie europee non si possono capire fino in fondo senza imparare a memoria questo nome: Toomas Hendrik Ilves. Ilves ha 59 anni, è un ex giornalista, è nato a Stoccolma, ha vissuto a lungo in America, ha studiato alla Columbia University, è stato ambasciatore negli Stati Uniti e dal 9 ottobre del 2006 è il presidente dell’unica nazione d’Europa che è riuscita in questi mesi a rimettere in discussione la risposta alla domanda chiave di questa complicata fase del capitalismo europeo: ma insomma, questa benedetta “austerità” è una medicina utile per curare i paesi che si trovano in gravi difficoltà economiche oppure è un medicinale che piuttosto che aiutare il malato a rialzarsi in piedi non fa altro che peggiorare le sue già precarie condizioni di salute? Fino a oggi – e bisogna partire da qui per arrivare alla storia del presidente estone, vedremo perché – il più grande paladino della tesi “l’austerità è brutta, sporca e cattiva” è stato, ed è, il grande economista e Nobel americano Paul Krugman, che negli ultimi mesi, tra libri, post, blog, tweet e apprezzate (e assai tradotte) column sul New York Times, non ha perso occasione per ribadire un concetto molto semplice: l’austerità non serve in nessun modo a ridare ossigeno a un paese in difficoltà e se si vuole aiutare una nazione a uscire fuori dalle sacche di una crisi bisogna fare due cose: stampare tanta moneta attraverso una Banca centrale che abbia funzione di prestatore di ultima istanza e aprire i cordoni della spesa pubblica per investire, creare più posti di lavoro e riattivare la domanda aggregata anche a costo di drogare l’economia con ripetute iniezioni di denaro preso in prestito a tassi agevolati. La dottrina Krugman, che altro poi non è che un’evoluzione moderna del pensiero keynesiano, è stata per molti mesi una clava che molti economisti e molti politici (non solo liberal) hanno scelto di impugnare per bastonare gli apostoli del rigore e dell’austerity identificati il più delle volte con le figure di Angela Merkel, di Wolfgang Schäuble e, se non altro per ruolo istituzionale, di Mario Draghi. In questi mesi, in realtà, la Banca centrale è riuscita ad allentare la presa e a creare delle scialuppe di salvataggio che hanno permesso ai paesi più in difficoltà di navigare con più serenità nel mare della crisi e di ritrovare forza nel promuovere le politiche del rigore. Ma nonostante questo gli apostoli del krugmanesimo non hanno smesso in tutte queste settimane di rivendicare la loro teoria dell’“austerità brutta sporca e cattiva”, e non hanno potuto fare a meno di gioire quando anche alcuni santuari del liberismo – come il Fondo monetario internazionale, come il Financial Times e come l’Economist – sono stati costretti ad ammettere in più occasioni che sì, è vero, scusateci, l’austerità in molte occasioni non ha portato i frutti che si aspettavano, e “l’argomento secondo cui i tagli di bilancio potrebbero dare impulso alla crescita oggi è un argomento che è stato screditato” (Economist, 27 ottobre 2012). In questo quadro di oggettiva depressione psicologica per i campioni del liberismo, esiste però un unico e in qualche modo eroico personaggio che negli ultimi mesi ha scelto di duellare senza timori contro il barbuto profeta liberal del New York Times, riuscendo a tenere testa al Nobel americano e riuscendo persino a infliggergli alcuni colpi sopra la cinghia politicamente letali. Il suo nome lo avrete visto forse comparire qualche volta tra i boxini che di rado i giornaloni italiani dedicano al suo paese per esaltarne le grandi doti di nazione all’avanguardia nel campo della banda larga, ma a guardar bene dietro quei boxini si nasconde quello che forse oggi è l’unico uomo politico che sia riuscito a sconfiggere e a sculacciare sul campo il grande teorico del no all’austerità. Lui, come avrete capito, è Toomas Hendrik Ilves e non è soltanto il presidente di un dinamico stato europeo ma è anche il capo dell’unica nazione d’Europa che ha resistito alla crisi economica riuscendo a trasformare la parola austerity non in un sinonimo di disgrazia o in un coro da stadio – “Ollelle-Ollalla-No-alla-Bce-no-all’austerità” – ma in un simbolo di un meccanismo virtuoso utile e forse indispensabile (a certe condizioni) per far crescere e maturare l’economia di un paese in difficoltà. Un paese, in questo caso l’Estonia, che nonostante la crisi ha raggiunto performance da sballo attraverso una miscela fatta di alcuni piccoli e semplici ingredienti: riforme del mercato del lavoro, tagli alla spesa pubblica, tagli agli stipendi del settore pubblico, innalzamento dell’età pensionabile, leggero aumento dell’Iva ma niente aggravi sulle tasse sui redditi (in Estonia, detto tra parentesi, c’è una flat tax al venti per cento: roba da far svenire Giavazzi).
Le conseguenze? Beh, clamorose. Dopo alcuni mesi di difficoltà immediatamente successivi alla bancarotta della Lehman Brothers (quando il debito sovrano di Tallinn era il terzo più rischioso in Europa, quando il pil del paese era crollato del 3,7 per cento nel 2008 e del 14,3 per cento nel 2009 e quando il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 19,8 per cento), nel 2011 l’Estonia ricomincia a respirare e grazie alla sua particolare politica d’austerity riesce a risorgere con dei numeri da urlo. E così nel 2011 l’economia torna a crescere al ritmo del 7,6 per cento annuo e sempre nello stesso anno la disoccupazione scende all’11 per cento e l’Estonia riesce a diventare l’unico paese della zona euro con un avanzo di bilancio (e, detto ancora tra parentesi, con un debito nazionale pari al 6 per cento del suo pil, che, con le dovute proporzioni, è un numero non male rispetto all’81 per cento della Germania e al 165 per cento della Grecia).
Risultato? L’Estonia oggi cresce con una media cinque volte superiore a quella dell’Unione europea e nonostante i tagli, la riforma del lavoro, le pensioni e tutto il resto Tallinn non ha conosciuto un solo giorno di sciopero, non ha visto sfilare un solo corteo “Ollelle-Ollalla-No-alla-Bce-no-all’austerità” e il governo è stato così apprezzato che nel 2011, ripresentandosi alle elezioni, non solo non è stato sputazzato dagli elettori ma è stato – caso unico in Europa – persino confermato. Il governo, sì, e anche il presidente della Repubblica, Toomas Hendrik Ilves, che in questa intervista al Foglio, dopo essersi preso una bella soddisfazione a raffiche di tweet con Krugman (ne parleremo tra poco), prova a spiegare il senso di quella frase: “If you look back, the crash is very good”. Ovvero: se oggi guardiamo indietro la crisi è stata un vero affare.
“Io credo che il mio paese oggi sia davvero un esempio virtuoso di cosa significhi portare avanti una vera politica d’austerity. Un esempio anche scomodo, mi verrebbe da dire, e perdonatemi il termine, perché noi nel nostro piccolo abbiamo dimostrato quanto sia insensata la dicotomia tra la parola crescita e la parola austerità. L’austerità non è né brutta né cattiva, a volte è semplicemente necessaria, e quando si verificano quelle condizioni che ti fanno capire che non ci sono altre strade da prendere se non quella legata all’austerità tu devi lavorare a testa bassa e fare del tuo meglio per trasformare quella costrizione in un vantaggio per il tuo paese. Ma questo bisogna farlo avendo chiaro in testa alcuni principi fondamentali”. Tre in particolare. “Non voglio fare polemica con nessuno, per carità – dice Ilves con un pizzico di malizia – ma guardando con attenzione il resto della zona Euro osservo che il nostro paese è stato uno dei pochi a essersi rifiutato di sottoporsi a un regime forzato di rianimazione. In che senso? Nel senso che l’Estonia ha scelto di non far ricorso ad alcun tipo di bailout perché la nostra cultura va contro quel principio del prendere i soldi in prestito e poi dimenticarsi, accecati da quei soldi, i problemi che hanno generato la crisi di un paese. Non prendiamoci in giro, su. Prendere tanti soldi in prestito è un palliativo che spesso non fa altro che peggiorare le cose. Noi, come paese, siamo cresciuti in modo diverso: siamo cresciuti con sacrifici e con liberalizzazioni, con tagli e con poche tasse, e puntando forte su riforme fondamentali come quelle del lavoro e delle pensioni. Ed è questo ciò che serve quando un paese si trova in difficoltà con il pil, la disoccupazione, la crescita e la recessione: più apertura al mercato interno, più concorrenza, più liberalizzazioni. Questo serve, non i bailout, checché ne dica Krugman”.
La polemica tra il presidente dell’Estonia e il principe dei pensatori liberal anti rigoristi non è solo legata a una battaglia puramente teorica tra due modi diversi di intendere l’evoluzione del capitalismo moderno ma è legata anche a un piccolo fatto di cronaca che quest’estate ha messo uno contro l’altro Ilves e il Nobel americano. Il fatto di cronaca, molto gustoso, è avvenuto il pomeriggio del 6 giugno di quest’anno qualche minuto dopo un post polemico e sarcastico (almeno nelle intenzioni) scritto sul suo blog proprio da Krugman. Titolo del post: “Estonian Rhapsody”. Svolgimento: guardate cari amici liberisti che è inutile che ci raccontiate frottole, perché l’austerità non funziona da nessuna parte e non funziona nemmeno nella vostra adorata Estonia: e se non ci credete guardate questa tabella qui. La tabella in questione pubblicata da Krugman riportava l’andamento del pil estone dal 2007 al 2012 e attraverso quella tabella il Nobel americano ha provato a dimostrare che nonostante tutti gli sforzi fatti dal governo del paese ancora non erano stati ripristinati nel 2012 i valori economici del 2007. “Di fronte a voi – scriveva Krugman – c’è un terribile crollo, ai livelli della Depressione, seguito da un significativo, ma ancora incompleto recupero. Meglio di nessun recupero, ovvio, ma è questo quello che può essere definito un trionfo economico?”. Pochi minuti dopo la pubblicazione del post, il presidente Ilves, dopo aver letto sul tablet quanto scritto da Krugman, al termine di una visita ufficiale nella vicina Lettonia torna nel suo albergo a Riga, tira fuori il suo iPhone e inizia a rispondere alle critiche dell’economista americano a colpi di tweet. Ilves ne scrive cinque in 73 minuti (dalle 20.57 alle 22.10) e in ogni tweet il presidente mostra in modo piuttosto convinto la sua indignazione. I tweet sono di questo genere: “Massì, scriviamo pure di cose che non conosciamo con fare compiaciuto e arrogante: tanto quelli sono solo maledetti straccioni, che ce ne importa”; “Immagino che avere un Nobel per una teoria sul commercio, autorizzi a pontificare anche in materia fiscale e dichiarare il mio paese una terra perduta”; “Ma certo, come no? Noi siamo solo dei buffi e stupidi europei orientali. Non illuminati. Anche noi, un giorno, capiremo. Colpa nostra”. Ecco. Ma perché il presidente Ilves si è arrabbiato così tanto? E perché nelle settimane successive ha trasformato l’invettiva di Krugman in una specie di guerra di religione? E perché il presidente estone da cinque mesi non fa altro che ripetere nei suoi speech il nome di Krugman (ad agosto un cronista di Bloomberg inviato in Estonia ha raccontato che nel corso della sua visita di una settimana in tre città del paese ha incontrato solo due persone che non sapevano quello che Krugman aveva scritto sul sull’Estonia”). Insomma, perché Krugman è diventato il nemico pubblico numero uno di un piccolo paese come l’Estonia (1,9 milioni di abitanti)? Semplice. Krugman nel suo post non aveva presentato un quadro completo dell’economia estone e, in modo truffaldino sostiene Ilves, aveva preso in considerazione solo gli anni in cui il paese aveva subito lo choc della crisi finanziaria globale, mentre sarebbe stato sufficiente allargare il grafico dall’inizio dell’età dell’austerity (che in Estonia è cominciata nel 2000) per scoprire che i progressi compiuti nel corso del decennio con il rigore e con i bassi livelli di tassazione avevano portato risultati notevoli. (E ora fermatevi un attimo e prima di leggere il prossimo virgolettato di Ilves immaginatevi una scena simile in Italia, con Giorgio Napolitano che dalla sua camera d’albergo dopo aver letto sul tablet un post contro le politiche economiche da lui apprezzate risponde via tweet a un’intemerata sull’austerity di Maurizio Landini o di Stefano Fassina).
“Krugman – ripete Ilves chiacchierando con il Foglio – ha giocato con i dati e io sinceramente non potevo stare in silenzio e sono contento che alla fine tutti, anche gli osservatori liberal, mi abbiano dato ragione. Ma lasciamo perdere Krugman – continua il presidente estone nel nostro colloquio – e andiamo al succo della questione. E il succo è questo. E’ che quando si è costretti ad affrontare una fase di rigore non bisogna rinviare i problemi e diluirli nel tempo ma bisogna affrontarli tutti di petto, e subito, anche a costo di fare scelte impopolari (noi, per dire, abbiamo persino temporaneamente sospeso il contributo del governo al fondo pensionistico volontario). Nel nostro piccolo, in Estonia abbiamo scelto di non portare avanti una politica espansionistica nell’ambito della spesa pubblica perché sapevamo che c’erano diverse riforme che andavano fatte subito per rendere più competitivo il nostro paese, e lo abbiamo fatto fino in fondo, senza girare attorno al problema – e anzi, dirò di più: il nostro avanzo di bilancio lo abbiamo messo in un fondo di stabilizzazione e abbiamo deciso di non spenderlo durante i mesi della crisi. Tutto questo però non lo si può comprendere senza capire la filosofia di questa impostazione culturale che abbiamo scelto per affrontare la crisi. La questione è semplice: bisogna mettersi in testa che con questa politica – dice Ilves sempre in un inglese perfetto – it’s clear that things will get worse before they get better, è ovvio che le cose, come si dice, andranno peggio prima di andare meglio, ed è chiaro che bisogna serrare i denti ma bisogna anche far capire bene che risultati darà al paese la scelta di stringere la cinghia. Perché la verità è una: la politica dello struzzo che mette la testa sotto la sabbia per non vedere i problemi non funziona ed è irresponsabile”.
Il presidente estone poi – che politicamente fa parte di una famiglia conservatrice anche se in Estonia i conservatori si fanno chiamare socialdemocratici – rivolge una piccola provocazione alle sinistre europee (“E’ stupefacente che molte sinistre moderne siano diventate delle realtà protezionistiche che si ergono a difesa delle aziende decotte che vivono soltanto con sovvenzioni artificiali quando il protezionismo con le sue restrizioni artificiali sul commercio dovrebbe essere il nemico numero uno dei pensatori liberal”) e poi prova a offrire un suo punto di vista sul nostro paese.
“Mario Monti – aggiunge Ilves – ha fatto molto per aiutare l’Italia a uscire da una situazione difficile e ho il più profondo rispetto per il vostro premier. Purtroppo non conosco l’economia italiana o le sue finanze pubbliche abbastanza bene per offrire un mio giudizio complessivo sul vostro sistema ma una cosa la posso dire. Praticare l’austerità è sempre difficile se il settore pubblico ha goduto per anni di concessioni generose senza chiedersi da dove diavolo provenisse tutto quel denaro. Se i benefici provengono da denaro preso in prestito, cioè da debito, cioè da denaro non propriamente guadagnato, allora ci si deve rendere conto prima che quella ricchezza non è reale, che non proviene dalla redistribuzione del gettito fiscale, ma che semplicemente viene da prestiti e come tutti i prestiti prima o poi bisogna restituirlo, il gruzzolo”. Secondo Ilves, in fondo, è proprio questa la lezione più importante che ci ha regalato questa crisi economica. “Credo – conclude il presidente – che tutti gli stati che sono passati sotto il giogo della recessione oggi hanno capito che vivere sui prestiti e basarsi su quei prestiti per pagare i servizi sociali non è più sostenibile. E’ questo il vero problema, non l’euro. E il problema è che finora ci siamo trovati di fronte a troppi governi che ritenevano possibile tirare avanti con un indebitamento a basso costo senza incrementi di produttività e con una competitività insignificante. Questo è il punto, e non venitemi a dire poi che da questa crisi si esce con politiche keynesiane. Perché la verità la sappiamo tutti qual è: le soluzioni keynesiane storicamente funzionano solo con piccole recessioni, e questa crisi non è stata affatto una leggera recessione. Dico un’ovvietà forse, ma chi lo sa, magari Krugman si era distratto un attimo”.

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