venerdì 16 novembre 2012

La bufala del secolo cinese, di Matteo Matzuzzi


Il “victory speech” di Xi Jinping è molto americano, assomiglia a una zampata da superpotenza. Ma gli esperti ci dicono che Obama può stare tranquillo, per ora

"Buonasera a tutti, scusate il ritardo”, ha detto il nuovo segretario del Partito comunista cinese, Xi Jinping, presentando alla stampa i sette membri del Comitato permanente che governeranno la Cina per il prossimo quinquennio. Disinvolto, sorridente, lontano dai rigidi schemi cui per decenni ci hanno abituato i leader ingessati à la Jiang Zemin e à la Hu Jintao. Poco spazio alla retorica ufficiale, molta sobrietà, tanti i buoni propositi: risolvere “i problemi interni al Partito”, far conoscere di più la Cina al mondo e far sì che la Cina sappia di più sul mondo che la circonda, favorire il benessere del popolo. Sembrava il victory speech di un presidente americano appena eletto più che la prima conferenza stampa ufficiale del segretario del Pcc. Analisti e giornalisti erano pronti a decodificare le frasi di Xi, a sentire cosa avrebbe detto dopo mesi di silenzio e di sparizioni misteriose, a capire se dalle sue prime parole emergesse qualcosa di nuovo in merito alla rotta che Pechino seguirà nel prossimo decennio. Sono stati i modi affabili del presidente a colpire gli osservatori, abituati alle espressioni plastiche del vecchio Jiang Zemin e al grigiore di Hu Jintao.
Quello andato in scena ieri mattina è stato l’atto conclusivo e più atteso del diciottesimo Congresso del Partito comunista cinese. Il giorno prima, nella Sala dell’Assemblea del Popolo, la banda dell’Esercito di liberazione popolare suonava l’Internazionale, celebrando così il passaggio di consegne tra una generazione e l’altra di uomini al comando. I delegati tutti in piedi sull’attenti, gli uomini con la cravatta rossa d’ordinanza, le signore – poche – con l’austero tailleur da funzionario di stato. Per un giorno, le faide che per mesi hanno fatto tremare il Palazzo sono state sostituite da sorrisi, applausi e vigorose strette di mano. Le operazioni di rito si sono concluse senza intoppi: nessuna sorpresa riguardo l’elezione dei duecentosei membri del Comitato centrale (anche se il numero delle donne scende da tredici a dieci), al punto che l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua si limitava a svelare al mondo i nomi dei volti più noti che hanno passato il vaglio dei vari panel riservati e sono stati poi premiati dall’enorme urna rossa collocata al centro della sala. Tutto è andato come previsto: Xi Jinping, il figlio dell’eroe della Rivoluzione caduto in disgrazia e poi attivo riformista negli anni Ottanta, alla presidenza. Li Keqiang, avvocato di fama e pupillo di Hu Jintao – che lo avrebbe voluto come suo successore – prenderà il posto del chiacchieratissimo Wen Jiabao come premier.
La sfida per il prossimo decennio è lanciata: raggiungere l’armonia entro il 2020,  superare le diseguaglianze, annullare i contrasti sociali, azzerare la corruzione (soprattutto quella interna al Partito), diventare una grande potenza marittima in grado di vincere qualche conflitto locale, contare sempre di più nel mondo.
Finito il congresso, smontate le gigantesche composizioni floreali, ci si domanda se le parole della leadership uscente e di quella entrante lasceranno spazio ai fatti, se l’America – e noi con lei – deve preoccuparsi, temere che la sua stella sia destinata a brillare sempre meno, offuscata dal Dragone rampante. E’ a oriente che si decideranno le sorti del pianeta, soprattutto sul piano finanziario? Sono le premesse del “Secolo cinese”, il definitivo consolidamento di Pechino come potenza in grado di soppiantare Washington? Il tema non è nuovo: già da qualche anno – ben prima che questo secolo iniziasse – saggi sul risveglio della Cina hanno invaso le librerie di tutto il mondo, raccontando la continua e incessante marcia verso la posizione di leader mondiale, davanti a tutti gli altri. I primi segnali dell’avanzata di Pechino, del suo vero balzo verso la modernità, risalgono alle cene tra Henry Kissinger e Zhou Enlai, il premier cinese fedelissimo di Mao, negli anni Settanta. Si diceva, allora, che il mondo aveva scoperto la nuova grande potenza, ormai sdoganata pure dagli Stati Uniti.
In America, però, molti sono convinti che si stia esagerando, che il peso cinese sia sovrastimato, che la Frontiera resisterà alla competizione con la Grande muraglia. Esperti del calibro di William Kirby, che dirige il Centro per gli studi cinesi a Harvard, ricordano che anche all’inizio del Novecento si diceva che la Cina stava crescendo inesorabilmente, che presto tutti avrebbero dovuto fare i conti con la sua forza e il suo splendore. Diplomatici, avventurieri e romanzieri ne descrivevano le bellezze e l’efficienza del suo modello educativo (ogni giorno veniva fondata una nuova università), politico, culturale. Perfino le infrastrutture incantavano i visitatori dell’allora Impero di mezzo.
Poi, improvvisamente, la millenaria storia monarchica finì, la stagione d’oro dei mandarini fu archiviata per sempre, arrivò la parentesi repubblicana con Sun Yat Sen, quindi Mao con il suo libretto rosso e la cacciata dei nazionalisti del Kuomintang, prontamente rifugiatisi a Taiwan. E di quello che era il Secolo cinese non è rimasto nulla, se non l’illusione spezzata.
Oggi siamo allo stesso punto, dice al Foglio Robert J. Lieber, docente di Affari internazionali alla Georgetown University: “Stiamo sopravvalutando troppo la Cina e allo stesso tempo sottovalutiamo i suoi gravi problemi interni. Inoltre, non va dimenticato che nonostante la spettacolare crescita economica degli ultimi trent’anni, il suo prodotto interno lordo è poco più che la metà di quello americano”. Fare un paragone con gli Stati Uniti e dire che il gigante asiatico sta per superare Washington non è credibile: “Ovviamente l’America deve darsi da fare per risolvere i problemi di bilancio che l’attanagliano da qualche anno, almeno dal 2008, ma non c’è altro paese al mondo con la sua capacità tecnologica e la sua tradizione di democrazia, libertà e rispetto del diritto”.
Con la crisi che nell’ultimo quadriennio ha colpito l’occidente, molti si sono convinti che ormai la strada sia tracciata, che Pechino è destinata ineluttabilmente a superare tutti i concorrenti, anche perché al contempo sta diventando sempre più aggressiva in campo militare, spiega Anthony Saich, esperto di Asia a Harvard. Uno scenario troppo pessimista, visto che dopotutto “la Cina rimane un paese povero che rimarrà ancora a lungo dietro gli Stati Uniti”, aggiunge. “Dire che questo è il Secolo cinese è esagerato – nota Saich – Per diventare una potenza di primo piano ha ancora molto da fare, innanzitutto risolvere i suoi numerosi problemi economici, politici e sociali”.
A mostrare crepe è il suo modello di crescita, che tanto successo ha avuto negli ultimi quindici/vent’anni: “A Pechino devono fare i conti con la popolazione che invecchia, con l’aumento della classe media che chiede sempre di più. La Cina si concentrerà sui problemi interni, punta a diventare leader regionale. Non è pensabile che nel breve periodo sfidi gli Stati Uniti”.
L’Asia come regione in cui la Cina sarà la potenza egemone indiscussa è la prospettiva più credibile e realista anche per Gideon Rachman, del Financial Times, che in un colloquio con il Foglio profetizza uno scenario in cui – nel giro di una generazione – “Pechino diventerà sempre più potente e, probabilmente, la più grande economia del pianeta”. Sarà allora che la leadership al comando dovrà dimostrare tutta la sua abilità per “prevenire i rischi derivanti dalla sua vulnerabilità e fragilità”. Questo però non significa che gli Stati Uniti siano condannati al declino: “Anche quando la Cina sarà diventato il più forte attore economico del mondo, Washington rimarrà la potenza dominante sul piano politico ancora per molti anni”, assicura Rachman, aggiungendo che “la rete di alleanze che ha come terminale l’America, la sua capacità tecnologica, l’uso che fa del soft power continueranno a far sì che gli Stati Uniti occuperanno il centro del sistema politico globale, almeno per qualche tempo”.
L’America dovrà imparare a condividere di più il potere con gli altri attori presenti sulla scena internazionale e le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, dice Anthony Saich: “In futuro la maggiorparte dei problemi non potrà essere risolta senza un confronto con Pechino, dal commercio al cambiamento climatico, dalla finanza alle crisi internazionali”. Una realtà non troppo lontana, se è vero che a inizio novembre il governo cinese ha proposto un piano di mediazione per la soluzione del conflitto siriano, proponendosi come interlocutore per le parti in causa e mettendo in ombra la leadership di Barack Obama, impegnato nella campagna elettorale per la rielezione alla Casa Bianca.
Al Secolo cinese non crede neppure Joseph S. Nye, già assistente segretario alla Difesa e capo del National intelligence council durante la presidenza di Bill Clinton, che al Foglio dice che “quando si parla della forza della Cina si esagera. Anche se il suo pil supererà entro un decennio quello degli Stati Uniti, il suo prodotto interno lordo pro capite (che è la misura vera della ricchezza di una società) non raggiungerà quello americano ancora per molti decenni, ammesso che ciò avvenga prima o poi. E tutto questo, comunque, si concretizzerebbe ben prima che Pechino possa avvicinare Washington sul piano della potenza militare”, spiega. Tra l’altro, aggiunge, “la Cina è piena di problemi interni che terranno occupata la leadership nel prossimo decennio”.
Washington, insomma, non deve temere. “Più volte nella storia gli americani hanno sottovalutato la propria forza e il proprio ruolo nel mondo”, dice Nye. “Negli anni Cinquanta e Sessanta, dopo il lancio dello Sputnik da parte dei sovietici, molti pensavano che Mosca avesse ormai superato gli Stati Uniti. Negli anni Ottanta è stata la stessa cosa con il Giappone. Ora con la Cina”. Molte analisi, spiega l’ex capo del National Intelligence Council, “non tengono conto dei vantaggi di cui gode Washington nel campo militare, al punto che molte potenze asiatiche accolgono ben volentieri sul loro territorio la presenza americana per bilanciare il peso di Pechino. E’ come se il Canada o il Messico si alleassero con la Cina per bilanciare il ruolo degli Stati Uniti in America del nord”.

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