giovedì 8 novembre 2012

La nazione, e la coalizione giusta, di Giuliano Ferrara


La vittoria di Obama è di misura, ma può innescare un ciclo strategico di egemonia liberal perché si fonda su un indebolimento sociale e demografico dell’America di Reagan. Tutta roba da studiare

Repubblica se la cava con la solita iperbole tabloid. Nei titoli on line ieri pomeriggio campeggiava “Il trionfo di Obama”. Il New York Times nel suo sito web titolava compostamente: “Un’America divisa sceglie Obama”. E aggiungeva che è una “vittoria di misura”, che “uno slittamento a destra non basta a Romney”. Conclusione, sulla scorta dei numeri, ai quali i grandi giornali fanno attenzione: “Il grosso della nazione si è spostato a destra nel voto di martedì”. Questa fredda e veritiera registrazione del fatto elettorale non ha alcuna virtù consolatoria per i conservatori, anzi. Come mai i repubblicani non sono riusciti a smentire la costante statistica favorevole all’incumbent (otto volte su dieci il presidente in carica si assicura un secondo mandato) nonostante questa protesta legata alla condizione depressa dell’occupazione, sia pure in presenza di una lenta ripresa oltre le conseguenze più buie della crisi finanziaria del 2008, che ha spostato a destra il baricentro elettorale del paese? La tentazione sarebbe quella di prendersela con il candidato Mitt Romney, in parte è inevitabile. Era un po’ una minestra riscaldata fin dall’inizio, il candidato incarnava la ripresa di una battaglia inabissata quattro anni prima nelle primarie contro John McCain.
L’uomo ha un suo tratto onesto di faticone del capitalismo e di competente amministratore delegato dell’azienda americana, ma non ha charme, non trascina, il suo non è uno script hollywoodiano, non si vede non dico il sogno ma nemmeno una qualche ispirazione. Avevamo segnalato, con Mattia Ferraresi, che anche per Obama era nell’aria un ritorno di pragmatismo, e che l’America ha bisogno comunque di un amministratore delegato che salvi i conti del suo debito crescente, ma up to a point. Le campagne elettorali sono pur sempre una fabbrica di suggestioni e di illusioni. C’è solo Obama che può dire in modo persuasivo, sensuale e senza il minimo imbarazzo, leggendo nel teleprompter un bel discorso della vittoria che pubblichiamo integralmente, parole ispirate d’amore alla moglie, come in una sceneggiatura di Aaron Sorkin; e solo lui può essere così fictional, così istrionicamente compassionevole dall’alto della montagna di un miliardo di dollari raccolto dalla macchina operativa di Chicago per il finanziamento dell’assalto elettorale al pescecane della Bain Capital, quello che paga il 14 per cento sul reddito e lo paga all’estero (legale ma irritante in tempi di crisi e di retorica della crisi). L’insufficienza del candidato un poco ha contato, sebbene poi Romney si sia riscattato in occasioni pubbliche decisive in apparenza, come il primo dibattito, e abbia trovato il modo di riscaldare la sua presenza scenica fino all’evocazione finale riuscita e diffusamente percepita, ma delusa, di una possibile ondata travolgente (l’ondata c’è stata, Obama ha preso meno voti di McCain nel 2008, come certifica l’americanista Christian Rocca, ma non era appunto sufficiente). Ma c’è altro.
Il movimento dei Tea Party avrebbe paralizzato il partito repubblicano, e alla fine questa vitale irruzione di radicalismo ideologico furiosamente contrario alla deriva statale e fiscale della presidenza Obama avrebbe impedito la formazione di una coalizione sociale e politica vincente. Questo poteva sembrare possibile con la scelta come numero due di Paul Ryan, un radicale ma anche un competente uomo dei conti e il detentore di una visione culturalmente connotata del modello americano, cioè di un sogno. Vero è che Ryan è stato brandito a tutta prima e poi relativamente nascosto nelle pieghe di una svolta elettorale moderata che la campagna di Romney ha imboccato dopo la vittoria del primo debate con il presidente in carica. Ma anche qui il sospetto è di soluzioni analitiche facili, con il senno del poi.
Proviamo invece a pensare che si è fatalmente indebolita l’America di Reagan, e prima di lui di Barry Goldwater, e dei Bush e della classe dirigente che ha protetto la sicurezza dell’occidente nella tempesta del XXI secolo, gente che ha tagliato le tasse, ha creato lavoro e impresa, e ha dato valore alla famiglia e alla tradizione individualistica e comunitaria che si identifica con il destino libero del settore privato dell’economia. E proviamo a pensare che nel frattempo, mentre si diluiva e perdeva coesione questo impasto di esperienze e movimenti, l’ondata liberista, con Obama profeta di assistenza, diritti sociali, tutele e socialismo riformatore per le minoranze demograficamente rampanti prendeva un tratto aggressivo e coesivo una right coalition al posto della right nation. Vedrete che il conto torna e ha il sapore di un cambiamento strategico più importante delle responsabilità di un candidato.
Giuliano Ferrara

http://www.ilfoglio.it/soloqui/15676

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