Si è gridato troppe volte “siamo tutti poveri” al punto che quando sarà vero se ne accorgeranno in pochi
L’allarme povertà è suonato decine di volte sui giornali da quattro anni a oggi.“Istat, allarme povertà: il 5 per cento soffre per il cibo” è il titolo di un articolo pubblicato sulla Stampa nel dicembre del 2008. Si spiega che quindici famiglie su cento (è il sottotitolo) faticano ad arrivare a fine mese. L’articolo rende noto un sondaggio tra la popolazione, di per sé difficile da condurre (quanti sovrastimano e soprattutto sottostimano la propria condizione? Se sono povero potrei dire di stare meglio, se sto bene potrei piangere miseria) e di ancora più difficile lettura: il 5 per cento di un pur rappresentativo campione di 20 mila famiglie è già un allarme o un’avvisaglia? Al netto del singolo caso, dalla fine del 2008 è iniziato un “diluvio di dati” che ha contribuito a moltiplicare l’allarmismo in merito alle condizioni economiche dei cittadini italiani. Dire quanti poveri ci sono realmente è difficile e scomodo. Una battaglia di numeri fra gli enti di statistica e quelli caritatevoli fornisce una prova di quanto il freddo numero sia scivoloso: nel 2010 per la Caritas erano povere 8.370.000 persone e non 7.810.000 come diceva invece l’Istat che è arrivato a contare 8.173.000 poveri solo nel 2011, un dato peraltro stabile rispetto all’anno precedente (8.272.000). Ciò dimostra quanto sia facile “usare” i dati in base ai propri scopi. Come ha scritto nel 2010 il sociologo Luca Ricolfi su Panorama: “Supponiamo di essere il governo e di volere credere che le cose vadano bene. Allora ci basterà usare i dati Istat sulla povertà assoluta, […] se invece siamo i sindacati […] possiamo definire la povertà come deficit, ovvero spendere più di quello che si guadagna (non arrivare alla fine del mese)”. Ammesso che anche un ricco può spendere di più di quello che guadagna a fine mese (andando in deficit) è la definizione di povertà (ne esistono cinque) a fare la differenza perché essa stessa è un dato in generale sovrastimato. La povertà relativa, ad esempio, serve a valutare le diseguaglianze sociali perché si riferisce a un nucleo famigliare (due persone) che spende meno della spesa media pro capite (una persona, 992 euro mensili), non a valutare quanto si è effettivamente poveri. E “si mantiene stabile al 10 per cento negli ultimi 15 anni”, scriveva nel 2010 un’indagine dell’Istat. Paradossalmente se il paese nel complesso si impoverisce, cioè una persona spende meno, la spesa media diminuisce e così si riduce anche il divario (“povertà relativa”). Non è un inganno.
Peggio è confondere il “rischio povertà” e di “esclusione sociale” dell’Istat, che valuta in primis il calo stimato del reddito, con la “povertà”. E’ il caso di un rapporto dell’Istituto nazionale di statistica del maggio 2010 in cui si diceva – in realtà – che la povertà era stabile (al 13 per cento) così come il rischio povertà. I giornali hanno però lanciato un altro allarme infondato ed è intervenuto il presidente Istat Enrico Giovannini il giorno successivo: “Sono rimasto sorpreso da quanto riportato dai giornali, hanno confuso i dati sulla povertà col rischio di povertà e il rischio di esclusione sociale”. “L’indicatore della povertà è stabile al 13 per cento – ha puntualizzato – mentre al 25 per cento è l’indicatore, scelto dai governi a livello europeo, che comprende i rischi di povertà e i rischi di esclusione sociale. Un indicatore, come evidenziato nel Rapporto sulla situazione dell’Italia, che anche in questo caso è abbastanza stabile”. Esiste poi un certo “vuoto” statistico che nessuno è riuscito a colmare: quanti evasori si nascondono tra la massa di indigenti, cioè chi ha reddito zero? L’Agenzia delle entrate, in base alla simulazione del Redditest, ha comunicato che circa un quinto delle famiglie dichiara zero reddito eppure ammette di consumare. Ma non è detto che siano loro gli “intrusi”: il dato non è comparabile con l’indice Istat (basato sui consumi rilevati), e tra gli “zero reddito” si confondono evasori, ereditieri e poveri. Gli analisti concordano però sul fatto che una percentuale (inquantificabile) di nullatenenti è un evasore. Gli ultimi dati disponibili dell’Istat in “La povertà in Italia” del 2011 rivelano che le famiglie italiane non povere, in base alla spesa mensile sopra o sotto la soglia di povertà relativa, sono l’81,4 per cento del totale. Il restante è “sicuramente povero” (5 per cento, 1 milione e 272 mila persone) “appena povero” (6 per cento) e “quasi povero” (7,6 per cento). Questo non significa che la ricchezza degli italiani sia aumentata in tempi di crisi. Ci sono però dati più precisi ed estremi per valutare un fenomeno che una lunga recessione (e vent’anni senza crescita economica) porta con sé.
Il 2011 ha segnato una svolta “dopo una sostanziale stabilità” delle rinunce materiali.Gli italiani cominciano a non potere sostenere spese impreviste, a non andare in ferie, a lasciare rate arretrate da pagare, a non potere riscaldare adeguatamente l’abitazione. Nel 2011, dice l’Istat, l’indice di deprivazione è cresciuto di 6,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente arrivando a 22,2. Quello di deprivazione grave è invece passato dal 6,9 all’11,1 per cento. Un altro fronte per comprendere il graduale deterioramento della situazione è il risparmio delle famiglie. Quel risparmio privato considerato un punto di forza soprattutto dell’economia nazionale. Un report della banca d’affari Goldman Sachs ha certificato che con “un massiccio deterioramento dei risparmi dal 2008” il tesoretto complessivo potrebbe essere calato a 7.500 miliardi di euro (meno della Spagna). Significa un calo del 10 per cento rispetto ai primi anni Ottanta. Anche i non poveri stanno iniziando ad attingere alla cassaforte di casa. Sembra insomma che il vero allarme debba ancora arrivare. Ammesso che ci saranno orecchie (non troppo frastornate) ad ascoltare.
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