Addii
Caro Maurizio Crippa, ci sono rimasto male a leggere che per la sinistra Enzo Jannacci non avrebbe mai potuto essere “un’icona”*. A parte l’icona, e a parte l’articolo determinativo – ci sono tante sinistre quante teste, benché non altrettante teste quante sinistre, sicché vale solo l’autocertificazione. Allora, come dicono i nuovi arrivati che non rappresentano la società ma sono la società, io mi guardo dal rappresentare la sinistra ma lo sono, e l’affetto grato a Enzo Jannacci mi accompagna da cinquantadue anni. Ne avevo venti e lui ventisette, e fui iniziato dai miei anziani a una pisana conoscenza unilaterale di Jannacci, in cui non c’era il cabaret e il rock and roll e il jazz, bensì le canzoni stralunate sì ma soprattutto malinconicamente socialiste. Andava a Rogoredo, per esempio: voglio raccontarvi una storia vera di uno che non era capace di dire di no, si erano conosciuti un giorno vicino alla Breda. Io non ero mai andato a Rogoredo, conoscevo poco Milano e non l’ho mai amata, ma ero già assiduo a posti simili alla Breda, in orari in cui la nebbia arriva anche in Toscana, e i bar aprono prima dell’alba e ce n’è tanti che non hanno gli spiccioli per un cappuccino. Triste è un mattin d’aprile senza l’amore, e la tristezza gentile era appropriata alla sinistra di quei primissimi anni Sessanta che venivano molto prima della rivoluzione, e oscillavano fra la tentazione di suicidarsi per una delusione d’amore e la decisione di farsi restituire i soldi di un kraffen ingannatore. La storia si ripetè di lì a poco con quello delle scarpe da tennis: vorrei raccontarvi di un mio amico, era lì, e l’amore lo colpì. Questa volta muore, alla buona, roba da barboni, ma ha avuto il suo grande amore, roba minima, e anche il suo giro in macchina. Perché noi, che andavamo seri seri alle fabbriche al primo turno prima dell’alba e all’ultimo prima della mezzanotte, eravamo sì per gli operai della Breda, ma anche per i barboni dell’Idroscalo e per il palo di mestiere dell’Ortica, ed era una delle differenze, quella indulgenza imperdonata al sottoproletariato. E le donne? Mah, eravamo maschi – non tutti, quelli di noi che erano maschi – e pieni di pregiudizi, con l’aggravante di sentirci per la prima volta nel mondo liberi dai pregiudizi, con quella mescolanza di brutalità e di sentimentalismo di chi viene prima della rivoluzione – poi, resta la brutalità. Ce l’avevamo con l’America, e andavamo pazzi per Veronica. Di Jannacci sapevamo poco, sì e no che era medico, che era un medico premuroso, e le sue canzoni. Dario Fo e Franca Rame erano già leggendari, e la mobilità sociale di quegli anni era così viva che poi facemmo amicizia con loro in carne e ossa, e oggi non so che cosa potrebbe capitare di simile ai ventenni, se non di rifare amicizia con Franca Rame e Dario Fo.
La tristezza gentile, dunque, come quando vai a chiedere mille lire a Rino, e ci hai fatto la guerra insieme, però ti rendi conto che è tardi, era tardi, lo sapevi che non dovevi andare a disturbare il Rino a quell’ora, in tempo di pace. Le donne amate si perdono, in queste canzoni, o muoiono, ammazzate da chissà chi: “So’ disgrazie, ’e chill’ambiente… voi sapete…”. E’ lì, sotto il lenzuolo bianco, la stessa bocca grande, gli stessi capelli, la stessa aria da prendere in giro – io ho detto di no, che non è vero, che non eri tu. Lui, per un bacino, sarebbe partito soldato, sarebbe andato a Como in moto, e poi tornato a piedi: per un solo bacino, roba senza risultato. E la Resistenza, affare dei padri, e già quasi dei nonni, da commemorare guardandosi dalla retorica: sei minuti all’alba, uno vorrebbe piangere perché stanno per ammazzarlo e si sente male, ma è meglio di no, entra un ufficiale e gli offre da fumare, “grazie, ma non fumo prima di mangiar…”. Brassens aveva detto: morire per delle idee, d’accordo, ma di morte lenta. Lui no, sa che per delle idee bisogna morire, e però di morte riservata. La tristezza gentile e romantica di Giovanni telegrafista, stessa storia, Alba arrivata e andata, e quell’anticipo di canzone mononota: Piripiripiripippi, Piripiripiripippi Piripiripiripiri… Era tutto un altro mondo quando arrivò Vincenzina davanti alla fabbrica, era il 1974. Allora ci si ricordò di una canzone del 1968, diceva: “Ti ricordo Amanda, la strada bagnata, mentre correvi alla fabbrica dove lavorava Manuel”. Ma era di Victor Jara, che un anno prima, nel 1973, era stato assassinato nello stadio di Santiago. Tutto un altro mondo.
Ti ho scritto in fretta questa sommaria parafrasi delle canzoni di Enzo Jannacci di cui non avevo bisogno di andare a controllare il testo, perché le so a memoria, e volevo mostrarti che non è vero che Jannacci per la sinistra eccetera. Poi la vita fu ancora molto lunga per lui e per me, e una volta quando ero in galera mi chiesero quale fosse la mia canzone preferita. Che domande, dirai. Infatti. Ma bisognava rispondere, e risposi: “Messico e nuvole”, cantata da Jannacci. Lo so che non è sua, ma era la più adatta, con tutte quelle nuvole e la faccia triste dell’America, che da giovani per noi era Veronica, e quella voce spezzata con una voglia di piangere – ma è meglio di no.
* Il riferimento è a un articolo di Maurizio Crippa scritto nel 2007, e riproposto nei giorni scorsi sul Foglio.it (http://www.ilfoglio.it/ritratti/969).
* Il riferimento è a un articolo di Maurizio Crippa scritto nel 2007, e riproposto nei giorni scorsi sul Foglio.it (http://www.ilfoglio.it/ritratti/969).
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