giovedì 11 aprile 2013

Thatcherismo - Storia di una rivoluzione liberale, di Antonio Martino

Per capire l’importanza di Margaret Thatcher per il suo paese bisogna prendere le mosse da una breve analisi della crisi economica dell’Inghilterra negli anni Settanta, il cosiddetto “male inglese”. Per dirla brutalmente, la Gran Bretagna degli anni Settanta era un caso disperato. Molti economisti concordano sul fatto che lo strapotere dei sindacati fosse responsabile dello stato pietoso dell’economia inglese, tra questi Samuel Brittan, il quale sosteneva: «Molte delle storture tipiche della politica economica britannica traggono origine dalla convinzione che l’inflazione si combattesse regolando determinati adeguamenti salariali. Il governo si è impegnato a creare un clima in cui i sindacati avrebbero tollerato simili interventi. Ciò ha comportato il controllo dei prezzi, un’alta progressività della tassazione sul reddito e un’attenzione particolare alle opinioni dei leader sindacali su diversi aspetti della politica economica. Il periodo post-1972, caratterizzato da un intervento statale particolarmente pressante, non cominciò con un cambio di governo, ma con la conversione del governo conservatore di Heath al controllo dei salari e dei prezzi».  Brittan si riferisce alle politiche economiche disastrose uniformemente applicate dai governi conservatori e laburisti in Gran Bretagna nel corso degli anni Settanta. In modo particolare, il governo conservatore a cui Brittan fa riferimento aveva iniziato la sua attività con intenzioni lodevoli. Nel manifesto conservatore per le elezioni del 1970 si legge: «Rifiutiamo l’intervento capillare del socialismo, che usurpa la funzione della gestione imprenditoriale per dettare all’industria i prezzi e i salari. […] Il nostro obiettivo è identificare e rimuovere gli ostacoli che impediscono l’effettiva competizione e che impongono restrizioni all’iniziativa economica». Queste ammirevoli intenzioni, prosegue Brittan, non sono però state seguite da politiche egualmente lodevoli. In realtà, il «governo conservatore del 1970-’74 è stato il più corporativista del dopoguerra. La sua politica economica è stata un disastro che ha fatto perdere al Partito conservatore due elezioni consecutive. Non sorprende che Heath abbia perso la guida del partito […]». Secondo Brittan, lo strapotere dei sindacati è riuscito anche ad influenzare il sistema tributario, con conseguenze devastanti: «Per gran parte del dopoguerra il vero problema non sono state […] le normali aliquote fiscali, ma la loro elevatissima progressività, sia in cima che in fondo alla scala del reddito. La tassazione marginale sul reddito è non solo più alta che negli altri paesi industrializzati, ma la sua curva diventa estremamente ripida a partire da redditi molto più bassi che altrove. Si tratta di tasse esclusivamente politiche. Le entrate raccolte in cima sono in termini statistici insignificanti; e ciò che ne risulta sono di fatto entrate più basse. […] Altrettanto importante è il fatto che risorse scarse quali energia e talenti siano state impiegate per convertire il reddito in capitale accumulato o benefici non soggetti a questi livelli di aliquote fiscali».  L’avvento di Margaret Thatcher Questo era lo scenario che vide l’avvento di Margaret Thatcher. Teorie economiche errate, gruppi d’interesse radicati e un’avversione generalizzata per il libero mercato erano sfociati nella sclerosi economica, nell’inflazione, nella disoccupazione e nel declino generale. La Lady di Ferro voleva cambiare tutto questo, e ci è riuscita.  La sua prima battaglia è stata in campo macroeconomico, dove si è verificato un passaggio dalla politica fiscale volta al controllo della domanda aggregata all’applicazione di una politica monetaria rigorosamente ispirata alla stabilità. In politica fiscale, l’obiettivo era quello di ridurre il disavanzo pubblico. In materia di tassazione, ci si riprometteva di ristabilire gli incentivi al lavoro, al risparmio e all’investimento, attraverso tagli a tutte le aliquote, in modo particolare quelle più alte. La filosofia alla base di questi provvedimenti era che ristabilire gli incentivi fosse più importante della ricerca dell’equità. Ma il campo in cui è stata davvero una campionessa è stato, come scrive Patrick Minford, quello delle riforme microeconomiche, o delle politiche dell’offerta: «Dopo la campagna del 1979-’82, volta all’abbattimento dell’inflazione, [intraprese] una riforma senza sosta per rivitalizzare l’economia dell’offerta, con leggi specifiche su regolamentazione dei sindacati, privatizzazioni, deregulation, riforma finanziaria delle amministrazioni locali, edilizia, riforme radicali delle tasse e molto altro».  La Thatcher, inoltre, è riuscita a domare i sindacati. Persino i suoi detrattori riconoscono che questo è stato uno dei suoi più grandi successi, che condivide col presidente Reagan: «Reagan e la Thatcher – scrive a questo proposito Irving Stelzer – hanno fatto molto per ridurre il ruolo del governo, e per espandere i confini delle forze del mercato in campo microeconomico. Entrambi sono riusciti in questo intento ridimensionando in primo luogo il potere dei sindacati. […] Nel 1981 il Presidente è riuscito a interrompere uno sciopero dei controllori di volo, […] e con altrettanto successo, il primo ministro è riuscito a interrompere lo sciopero che i minatori tra il 1984 e il 1985 avevano intrapreso per imporre l’agenda politica del loro leader a un elettorato che l’aveva respinta».  È inoltre riuscita a ridurre il ruolo diretto del governo nell’economia attraverso le privatizzazioni. Tutti riconoscono che: «Il successo del thatcherismo nel convertire le imprese da statali a private […] è stato un programma così radicale come concetto, e di esito così felice nella pratica, che si è guadagnato la più alta forma di lusinga dalle altre nazioni: l’imitazione», conclude Stelzer. Contrariamente a ciò che sia a sinistra sia a destra si continua ad affermare, tra i successi della Thatcher non possiamo annoverare una riduzione della spesa pubblica totale. Nel 1999, l’Economist scriveva: «In realtà, 18 anni di governo tory hanno lasciato la fetta di economia sotto diretto controllo dello Stato praticamente intatta: dal 44 per cento del prodotto interno lordo del 1979 al 43 per cento del 1996».  La ricetta del successo Come ci è riuscita? È indubbio che il successo di Margaret Thatcher sia in gran parte dovuto alla forza delle idee. Lei stessa ha riconosciuto l’importante ruolo svolto dall’Institute of economic affairs nel fornire le munizioni e l’ispirazione per il suo programma. Per il trentesimo anniversario dell’istituto, ha affermato: «L’Istituto ha iniziato la propria attività in un periodo in cui, a dispetto della libertà di parola che caratterizza un paese libero, prevaleva quella che oserei chiamare la moda della censura dei comportamenti. Chiunque osasse sfidare le credenze comunemente accettate del dopoguerra riceveva in risposta scetticismo, critiche, veniva deriso e bollato come un ignorante reazionario. […] Vi siete riproposti di cambiare il sentire comune. […] Vorrei esprimere la nostra gratitudine a quegli accademici, alcuni dei quali hanno subito l’isolamento, e a quei giornalisti che si sono uniti alla nostra impresa. Non penso che abbiano mai raggiunto il numero di 364. Sono stati una minoranza. Ma erano nel giusto e hanno salvato la Gran Bretagna». Senza queste idee, la rivoluzione thatcheriana sarebbe stata impossibile ma bisogna riconoscere che le idee, da sole, non sono una spiegazione sufficiente per la rivoluzione. Erano una causa necessaria, ma non sufficiente del cambiamento.  Circostanze È vero che alla fine degli anni Settanta le prove del fallimento delle politiche stataliste perseguite sia dai governi laburisti sia da quelli conservatori erano schiaccianti. Sono convinto che le circostanze abbiano avuto la loro importanza nel determinare il successo della Thatcher. Ad ogni modo, i segni del fallimento di queste politiche anti-mercato vi erano già nel 1970, anche se non così evidenti come nel 1979. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che non tutti hanno tratto le stesse conclusioni dalle stesse esperienze. Certo non il Partito laburista, che nel 1979 era socialista come sempre. E, per quanto riguarda gli accademici, la stragrande maggioranza di essi era convinta che non ci fosse bisogno di nessun cambiamento nella pratica politica, come dimostra il documento firmato da quei 364 economisti contrari alle politiche del governo Thatcher. Le prove erano senza dubbio sotto gli occhi di tutti, il che ha favorito la causa della Thatcher, ma erano già presenti da prima seppure senza alcun impatto, e molte persone istruite si erano rifiutate di trarne le giuste conclusioni.  Interessi I sindacati avevano abusato del proprio potere, e questo aveva reso più forte che mai la necessità di ridurne l’influenza. E comunque, non si trattava certo di un fenomeno nuovo: il pericolo rappresentato dalla loro onnipotenza era stato più che evidente per anni, eppure nessuno aveva cercato di affrontarlo.  Leadership Credo che tutti questi fattori abbiano avuto il loro ruolo nel determinare il successo della Thatcher, ma che l’elemento cruciale sia stata la sua personalità, la sua leadership fedele ai principi e incapace di scendere a compromessi. Si può dire di lei ciò che Ted Kennedy aveva detto di Reagan: «Sarebbe sciocco negare che il suo successo fosse fondamentalmente basato sulla sua profonda conoscenza delle idee diffuse. Reagan poteva dimenticare i nomi, ma mai i suoi obiettivi. Era un grande comunicatore, non solo per la sua personalità o per il suo teleprompter, ma soprattutto perché aveva qualcosa da comunicare».  Margaret Thatcher aveva osato fare ciò che in Gran Bretagna nessun altro aveva avuto il coraggio di fare per decenni: combattere le opinioni diffuse, i luoghi comuni, gli interessi radicati, e guidare un partito riluttante e un paese stordito in una direzione completamente nuova. Posso dare testimonianza della sua singolare personalità. Ho avuto occasione di incontrarla diverse volte, prima di entrare in politica. Una volta, nel 1991, fu durante una conferenza a Fiesole, vicino Firenze, organizzata dal National Review Institute. Durante la pausa, camminavamo sotto il portico dell’hotel, mentre la campagna Toscana splendeva nel sole del pomeriggio. La signora Thatcher mi disse: «Il suo è un bel paese con un governo marcio». Al che io risposi: «Mia cara signora, sarebbe assai peggio il contrario».  Il suo modo diretto di porre le questioni, così insolito per un leader politico, le ha fatto guadagnare diversi nemici tra gli altri leader, ma ha prodotto un affascinante contrasto con l’ipocrisia e la vacuità dei dettami politici comunemente accettati. A volte, probabilmente, ha esagerato. Ad esempio, durante la stessa conferenza di Fiesole, nel corso della sua relazione, pronunciò la seguente frase: «La civiltà è una prerogativa esclusiva dei popoli di lingua inglese». Nella stanza, ero l’unico che non fosse di nazionalità inglese o americana. Guardai John O’Sullivan, che mi sedeva accanto. Sorridendo, mi disse: «Sei stato relegato alla barbarie!». Margaret Thatcher sa anche essere amabile e gentile. Quando, nel 1994, vincemmo le elezioni, mi mandò le sue congratulazioni via fax. La richiamai per ringraziarla per la sua cortesia. Mi incoraggiò nel solito modo: «Dovrete fare per l’Italia ciò che io ho fatto per la Gran Bretagna». Cercai di spiegarle che, in confronto a lei, eravamo svantaggiati. Dissi: «Lei aveva una Costituzione scritta nei cuori e nelle menti della vostra gente. Noi no. Aveva un potere giudiziario indipendente. Noi no. Aveva una pubblica amministrazione pulita ed efficace. Noi no. Aveva una maggioranza costituita da un partito unico. Noi no. Aveva questi think tank come l’Iea, che le ha fornito le idee giuste. Noi no. Ma comunque, aggiunsi, abbiamo qualcosa che lei non aveva». «Che cosa?», chiese lei. «Il suo esempio!» le risposi. Sulla importanza delle idee e della leadership, Margaret Thatcher ha espresso la sua opinione durante le celebrazioni per il trentesimo anniversario dell’Iea. Dopo aver ascoltato una serie di discorsi di eminenti accademici, tutti in lode dell’importanza delle idee, concluse così il suo intervento: «Come undicesimo speaker e come unica donna, spero ricorderete che sarà anche il gallo a cantare, ma è la gallina a deporre le uova». L’insegnamento che possiamo trarne è piuttosto semplice, e non molto incoraggiante: Margaret Thatcher deve il suo successo soprattutto alla rivoluzione intellettuale nelle teorie economiche. Non ha inventato nulla di nuovo: non c’era nulla di innovativo o di originale nella sua politica economica. In ogni caso, queste idee erano già presenti da molto tempo, ma non sono state tradotte in pratica politica finché lei non è arrivata sulla scena. Sono stati la sua leadership, il suo coraggio, la sua determinazione e la sua integrità intellettuale che hanno permesso a quelle idee di ispirare le politiche economiche effettive e il cambiamento in Gran Bretagna. Tutto questo mi porta a una spiacevole conclusione: l’ostacolo, nel panorama politico attuale, non è la comprensione della natura dei problemi sociali e delle soluzioni auspicabili, anche se c’è ancora molto da fare per far sì che la causa della libertà economica sia compresa appieno dalla gran parte dell’opinione pubblica e dei politici. Ciò che scarseggia davvero è la leadership. Un leader che persegua le proprie convinzioni senza scendere a compromessi, capace di costruire una coalizione, un consenso di maggioranza attorno alla propria piattaforma, è essenziale se vogliamo davvero costruire un mondo libero. Per nostra sfortuna, personaggi della caratura della Thatcher e di Reagan sono assai rari, e non possiamo aspettarne un altro. «Finché gli abitanti di un qualsiasi paese riporranno le loro speranze di salvezza politica in un determinato tipo di leadership, la delusione li attenderà dietro l’angolo». Dobbiamo continuare ad affinare le nostre ragioni, a renderle più convincenti, esplorando nuovi modi di accrescere le nostre libertà e, soprattutto, dobbiamo convertire ad esse i nostri politici.

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