giovedì 25 aprile 2013

Alla corte di George W. Bush, di Mattia Ferraresi


Oggi a Dallas i presidenti americani viventi s’affacciano nell’anticamera del tribunale della storia che già ha riscattato l’ex presidente che ha cambiato il mondo

Districandosi fra i memorabilia seri e faceti del museo di George W. Bush che viene inaugurato oggi a Dallas dal “club più esclusivo del mondo” – quello dei presidenti americani ancora in vita – ci si ritrova nell’anticamera del tribunale della storia. E’ un piccolo esperimento che l’ex presidente ha voluto chiamare “Decision Points Theater”, ricalcando il titolo delle sue memorie e lo spirito della sua legacy presidenziale, punteggiata di decisioni epocali e punti di non ritorno. Sono le decisioni che hanno esposto il corpo ancora vivo di Bush al linciaggio permanente del mondo per rendere ai posteri meno arduo il formulare la manzoniana sentenza.
Molti storici si sono messi avanti con i verdetti quando Bush era ancora alla Casa Bianca, e l’uomo che ora si compiace assai di guidare la diplomazia americana, John Kerry, nel 2006 era pronto a piazzare un “safe bet”, una scommessa di quelle che non si possono perdere: “Bush sarà per sempre ammanettato all’ultimo piolo della scala presidenziale”. Il caso è chiuso, la seduta è tolta. L’animosità da campagna elettorale miseramente perduta era svanita da tempo, e l’affermazione del senatore del Massachusetts – sintesi di un apparente consenso globale costruito in modo scientifico – non era altro che l’esternazione verbale di un’operazione di reductio caricaturale della figura di Bush. Il presidente della guerra al terrore, dell’asse del male, dell’avventurismo incosciente in Iraq e della democrazia esportata con gli anfibi, il grande inquisitore metodista delle cellule staminali con inclinazioni compassionevoli – certamente strumentali e coltivate a mo’ di espiazione di peccati ben più mortali – il distruttore liberista della prosperità americana doveva essere appiattito, reso sagoma cartonata per meglio accogliere il copioso lancio di pomodori. Il “Decision Points Theater” contiene il primo, simbolico tentativo di riacquistare la tridimensionalità perduta: i visitatori che dal primo maggio potranno esplorare questo angolo del centro presidenziale si ritroveranno a dover prendere le decisioni che Bush si è trovato di fronte con gli stessi elementi che il presidente aveva a disposizione all’epoca dei fatti; ogni elemento del centro presidenziale è organizzato per favorire l’immedesimazione e ricreare il senso della complessità che è stato messo nel tritacarne della sciatteria o della cattiva coscienza (spesso la prima indotta dalla seconda): “Voglio che pensino ai principi che hanno fatto da fondamenta alle decisioni che sono state prese”, ha detto Bush in un’intervista al magazine Parade per incorniciare l’occasione
Non si tratta di una giustificazione a posteriori, non è un artificio per dire “nessuno di voi avrebbe fatto diversamente”, ma dell’inizio della riconquista di una dimensione storica negata da una giuria popolare che aveva fretta di compiere la damnatio memoriae. Un visitatore si è ritrovato a esplorare quella parte del museo oltre quattro anni fa, quando non c’erano ancora i muri e le vetrate della biblioteca presidenziale, né erano stati catalogati i cimeli della legacy bushiana; c’era però la sostanza reale e storica delle decisioni da prendere, di una continuità da mantenere o interrompere, di fattori ineludibili dei quali tenere conto, dal terrorismo al trattamento dei prigionieri di Guantanamo, ai droni e ai teatri di guerra, passando per la gestione della crisi finanziaria. Quel visitatore ante litteram, Barack Obama, è stato il primo a doversi confrontare con la logica complessa dei decision points denigrata a parole pagando il prezzo di conformarsi alla “caricatura di Bush che spesso viene rappresentata”, come ha detto Tony Blair in un’intervista al Washington Post.
La prassi obamiana trasuda di elementi di continuità con il predecessore, quelli che fanno ribollire il sangue dei liberal che volevano chiudere la porta del passato e buttare la chiave nel pozzo del “change”. In realtà il passato non si è mai mosso dalla Casa Bianca, ha preso a danzare con il presente in quella che sulle prime è stata descritta come una mascherata spiacevole e necessaria: è tutta colpa dell’eredità maledetta di Bush se occorre un surge in Afghanistan, se i bombardamenti con i droni tendono a moltiplicarsi, se non si trova un pertugio legale per tradurre i prigionieri di Guantanamo in una corte civile. Poi Obama è passato dal registro delle tristi necessità a quello delle scelte ponderate. Voleva smantellare quello che con sottotesto cospirazionista Gore Vidal chiamava il “National Security State”, il minaccioso impianto di dominazione che aveva soppiantato la Repubblica immaginata dai padri fondatori, e si è trovato a dirigerne l’opera di manutenzione. Il presidente che con il suo bagaglio di rivoluzioni a metà si riunisce oggi al suo club venuto da un passato non troppo passato è la testimonianza vivente della necessità di un giudizio equanime sul predecessore. E l’America si sta preparando. Un sondaggio Abc/Washington Post dice che il 47 per cento degli americani approva a posteriori l’operato di Bush, mentre il 50 per cento ne ha un giudizio negativo. Nel gennaio del 2009, mentre Obama saliva la scalinata del Congresso per l’insediamento, il disprezzo per il presidente uscente era al 66 per cento.
Capita ai presidenti di essere glorificati retrospettivamente dopo mandati disastrosi agli occhi dei contemporanei. Dwight Eisenhower è uno dei presidenti americani più popolari del secolo scorso e fra i più citati dai democratici quando cercano nel territorio avversario sprazzi di ragionevolezza da mettere a contrasto con l’ottusità presente (Obama è un maestro in quest’arte), ma nessuno lo avrebbe previsto negli anni Sessanta. Ma il fattore inusuale è che negli ultimi quattro anni Bush non s’è adoperato per propiziare una riabilitazione ufficiale, anzi. Si è ritirato nel ranch di Crawford con la sua Laura, lontano dalla Washington verso la quale “non sono affatto friendly”, come ha detto in un’intervista a C-Span, si è ormeggiato ai margini della comunità delle “talking heads” della politica per vivere in un luogo dove “la cosa più difficile da fare è scegliere a che ora andare a fare un giro in bicicletta”. Alla disperata ricerca di un passatempo ha letto, su consiglio dello storico John Gaddis, il libro sulla pittura di uno dei suoi numi tutelari, Winston Churchill, e ha preso a dipingere. Ha scritto le memorie, come da prassi post presidenziale, e ha tenuto una settantina di discorsi a porte chiuse ma è rimasto fuori dall’arena, non ha fatto sentire la sua voce, non ha preso le parti di nessuno né ha rivendicato meriti quando pure le circostanze lo avrebbero consentito. Non ha accettato l’invito di Obama a celebrare l’uccisione di Osama bin Laden, preso grazie a una caccia decennale di cui il raid di Abbottabad è soltanto un’appendice, non ha voluto la sua fetta di gloria, non ha sottolineato che la vittoria simbolicamente ineguagliabile sul principe del terrore è l’esito di scelte contrastate e necessità che hanno pesato sulle sue spalle. C’è voluta la rappresentazione cinematografica di Kathryn Bigelow per spiegare a livello popolare che nella guerra al terrore non c’è il guerrafondaio torturatore e il chirurgo che rimuove i cattivi con il bisturi. Le due figure sono sequenze distinte di una vicenda comune. “La mia Amministrazione e quella del presidente Obama hanno aggredito chi voleva farci del male. Eppure, il modo ultimo per garantire la pace è radicare la libertà e la democrazia. E questo sta cominciando ad accadere con la primavera araba”, dice Bush, e l’affermazione è un pungolo per un presidente che a parole si affretta a schierarsi dalla parte giusta della storia, nei fatti procede in nome della tattica e del piccolo cabotaggio.
Il silenzio di Bush è il contrario della passività, del nascondimento vergognoso. E’ il distacco necessario perché siano le vicende a parlare chiaramente, senza rumori di fondo e distrazioni da campagna elettorale permanente. E oltre al basso profilo con gli avversari, Bush ha dovuto farsi quieto anche con gli alleati che hanno fatto qualunque cosa per trovare il vaccino alla sua eredità infetta. Non ha partecipato alla convention di Tampa perché nessuno, meno di tutti Mitt Romney, lo avrebbe mai voluto vedere su quel palco. Avrebbe distrutto ogni velleità presidenziale coltivata dall’establishment conservatore, e l’establishment conservatore preferisce distruggersele da sé, le velleità. Anche in quel caso il silenzio è stato l’araldo della vittoria. Certo, l’effetto collaterale del silenzio è la solitudine, e si nota una punta di malinconia quando Bush racconta che il rapporto con Dick Cheney è talmente “cordiale” che i due non si vedono mai; ci sono gli strascichi del noto litigio su Scooter Libby, il capo dello staff di Cheney condannato da un tribunale e al quale Bush non ha concesso la grazia presidenziale, “un nostro soldato ferito che abbiamo lasciato a terra”, nelle parole dell’ex vicepresidente. Qualcosa non si è mai aggiustato del tutto, ma Bush si è trovato, ancora una volta, di fronte a un bivio: rimanere nell’arena per cercare di ricucire le ferite e sperare di essere riammesso un giorno in società, oppure ritirarsi senza dire nulla aspettando il soccorso della storia. Alle scelte di breve respiro Bush ha sempre preferito quelle di prospettiva storica e moralmente connotate. Oggi, quattro anni dopo la sua dipartita dalla Casa Bianca e a quasi dodici dall’attacco dell’11 settembre, lancia un messaggio ai compagni del club più esclusivo del mondo e al mondo intero: giudicate voi.

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