mercoledì 3 aprile 2013

Il manifesto di Stockman, un viaggio al termine del mercato, di Mattia Ferraresi


L’ex economista di Reagan esplora le deformazioni del sistema (a partire dall’incrocio tra Fed e politica). Come curare il free market

New YorkSfuggire alla furia polemica di David Stockman è un privilegio concesso a pochissimi. E’ una vita che l’ex deputato repubblicano che ha diretto l’ufficio budget di Ronald Reagan dal 1981 al 1985 rosola gli avversari al sacro fuoco di un libero mercato frainteso e adulterato anche dai suoi sostenitori; smontare gli alleati conservatori che hanno tradito la causa per coltivare vanità piccine o per incassare giganteschi dividendi di potere è l’attività che più di ogni altra vellica lo spirito di questo irruducibile “contrarian” della filosofia economica. In “The Triumph of Politics: Why the Reagan Revolution Failed” ha raccontato, da destra, il fallimento di un’Amministrazione conservatrice che ha rinunciato a ridurre drasticamente il ruolo dello stato nell’economia per potersi permettere i tagli fiscali che hanno generato bolle speculative e prosperità per una breve stagione. Il trentenne Stockman aveva dato le dimissioni da quell’amministrazione per il suo rifiuto di mettere mano al tentacolare sistema di welfare, minaccioso segno degli eccessi dello stato nell’economia. Tutto era cominciato, secondo Stockman, nell’agosto del 1971 con il “Nixon choc”, che ha disancorato il dollaro dall’oro: “In una decisione che avrebbe avuto ricadute per decenni, Nixon ha sdoganato l’insolvenza economica degli Stati Uniti e ha inagurato un’èra di sbilanciamento commerciale, di manipolazione monetaria, di massiccia creazione di debito e di speculazione finanziaria”. Quando Reagan diceva che il “debito è abbastanza grande per badare a se stesso”, Stockman stralunava gli occhi in segno di dissenso.
La crisi globale da debito ha offerto all’economista l’occasione per una mietitura delle opinioni antagoniste seminate per decenni e “The Great Deformation: the Corruption of Capitalism in America”, in uscita oggi in America per PublicAffairs, è una iperbolica indagine alla ricerca delle cause ultime della cacciata del capitalismo dal paradiso terrestre. Stockman unisce il genere della lamentazione biblica a quello della polemica da pamphlet in un coacervo da 768 pagine che non risparmia quasi nessuno: lancia scudisciate a Milton Friedman e Alan Greenspan, torna sulla critica reaganiana, mette in croce l’ortodossia keynesiana, censura l’involuzione manipolatoria della Fed, attacca la politica dello stimolo introdotta da Bush e sviluppata da Obama, spiega i criteri selettivi con cui lo stato ha salvato le banche e i loro profitti. Profitti che poi finanziano le campagne elettorali e influenzano le scelte politiche. Questa distorsione cominciata al tramonto dell’Amministrazione Eisenhower è frutto di una visione miope in cui le scelte di politica economica che si concentrano sul breve termine generano mostri di lungo periodo. “Bisogna guardare al trend, non soltanto ai dati economici dell’ultimo trimestre. La Borsa è ai livelli di 13 anni fa. E cos’è successo negli ultimi 13 anni? Sono stati creati soltanto 2 milioni di posti di lavoro, cioè 17 mila al mese, mentre la nostra economia avrebbe bisogno di crearne 150 mila al mese”.
Il fuoco polemico di Stockman si concentra sul lungo processo di corruzione del libero mercato: l’America ha abbandonato la libertà virtuosa per gettarsi nelle braccia di un sistema economico a regime controllato. Per questo l’ultraliberal Paul Krugman archivia frettolosamente Stockman come un invasato di Rush Limbaugh. Il Partito repubblicano, scrive Stockman, si è concentrato soltanto su tagli fiscali non adeguatamente bilanciati da scelte responsabili sul deficit, e la molla dello sbilanciamento per Stockman non è altro che il potere politico, alimentato a suon di spesa. Così, dice, il movimento conservatore si è ridotto a una corporazione e la natura del vizio repubblicano non è poi molto diversa da quella della Fed, idolo polemico supremo. Quando è passato dalla politica di Washington alla finanza di Wall Street, Stockman diceva che avrebbe “investito su qualunque cosa che Bernanke non può toccare”, e nella breve parte prescrittiva della requisitoria contro la “grande deformazione”, invoca una retrocessione della Fed a “banca dei banchieri”. L’unica soluzione per riguadagnare la prospettiva perduta nel processo di snaturamento dell’economia è “una radicale operazione chirurgica”, una combinazione di tagli alla spesa e di riforme dell’ordinamento politico. Soluzione depressiva? “Al momento l’America non ha un’alternativa ai sacrifici”, risponde Stockman. Se lacrime e sangue sono inevitabili, meglio versarli per riedificare le vilipese virtù del mercato.

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