giovedì 11 aprile 2013

Maggie e la laundrette, di Mariarosa Mancuso

Il film che scardina il cliché antithatcheriano e il tanto odio creativo

Prima di vincere tre Oscar e di calarsi nel ruolo di Abraham Lincoln, Daniel Day-Lewis si aggirava con la cresta bionda da punk e il giubbotto a scacchi in “My Beautiful Laundrette” di Stephen Frears. John non aveva un lavoro, né fisso né saltuario: viveva di sussidi, in una casa fatiscente; lo sfrattavano scaraventandogli il materasso e le suppellettili giù dalla finestra. Pochi isolati più in là, l’immigrato pachistano Omar inaugurava la sua lavanderia a gettone. Felice e soddisfatto della piccola impresa, pronto a seguire le ricette liberiste di Margaret Thatcher e a votarla.
Nel film che nel 1985 segna la rinascita del cinema britannico, liquidato qualche anno prima da François Truffaut come “una contraddizione in termini”, il gioco delle parti non è quello che ci aspettiamo: gli immigrati faticano e guadagnano, gli inglesi rimpiangono le sicurezze del welfare. Basta per sopportare tutti i film e i romanzi anti Thatcher a venire, frutto di una lunga stagione dove la figlia del droghiere diventata premier è ritratta come il diavolo che mette in ginocchio i minatori e toglie il latte mattutino ai bambini delle scuole. Non si può neppure dare la colpa a uno sceneggiatore con simpatie thatcheriane: Hanif Kureishi, anglo-pachistano, aveva capito l’andazzo meglio degli altri, accecati dalla rabbia e felici di aver trovato un nemico da mettere alla berlina. Ultima tappa, “The Iron Lady” di Phillyda Lloyd con Meryl Streep: una character assassination che insiste sull’Alzheimer e inquadra la Thatcher mentre sciacqua le tazzine (lei che nella vita le aveva sempre sdegnate, le tazzine, trovando più appassionante la rinascita economica del suo paese).

Punita, sbeffeggiata, messa in ridicolo. Ma compare dappertutto. Nel romanzo di Jonathan Coe “La famiglia Winshaw”: le malefatte di un nucleo familiare conservatore che distrugge la buona tv, si arricchisce con allevamenti intensivi, intrallazza politicamente e finanziariamente. Nel romanzo di Philip Hensher “Kitchen Venom”, dove viene descritta così: “Sembrava che a ogni passo dovesse spegnere un mozzicone di sigaretta. Camminava come chi è convinto di avere sempre ragione”. Mentre Martin Amis metteva mano a “Money”, romanzo che considera la ricchezza il male del mondo (sarebbe stato bene rileggersi “Il Grande Gatsby”, per non sopravvalutare il lusso degli anni Venti rispetto a quello degli anni 80), il padre Kingsley Amis concedeva alla neoeletta, nel 1979, un’apertura di credito: “Gli inglesi hanno guardato al futuro, lo hanno visto nero, e hanno deciso di cambiare strada”. La votò anche Harold Pinter, e mai se lo perdonò (avrebbe fatto meglio a pentirsi per certe poesie e certe scellerate dichiarazioni).
Nella vita Lady Thatcher si era faticosamente costruita, nei romanzi e nei film che la dipingono cattiva (certi della complicità di lettori e spettatori) appare come Minerva, uscita armata dalla testa di Giove. Riduce alla miseria il papà di Billy Elliot nel film di Stephen Daldry, fa arrabbiare una banda di minatori in “Grazie, signora Thatcher” di Mark Herman (titolo originale: “Brassed Off”, allude sia agli ottoni sia al licenziamento). Improvvisamente il lavoro nelle miniere si rivestì di rivoluzionario romanticismo: le facce sporche di carbone erano una bandiera contro l’avanzata liberista. Ancora ieri, tra chi ballava per la morte della Thatcher el’ingrato Ken Loach che le deve buona metà della carriera, qualcuno rimpiangeva il “tessuto sociale distrutto”. Come se l’alcolismo, la povertà, le violenze familiari – già note al cinema inglese neorealista che Hitchcock detestava – fossero state inventate dal premier conservatore. Prima, un paradiso carbonaro, e allegre fabbriche dove nel Dopoguerra si progettava un welfare degno del nome (è ancora Ken Loach a tracciare la strada, nel documentario “The Spirit of ’45”: qualcuno lo informi che a quei tempi si facevano tanti figli, si cominciava a lavorare presto, la quarta età non era stata inventata).
Come insegnano la regina Grimilde e Crudelia Demon, un nemico è una manna dal cielo, per i registi e gli scrittori senza fantasia: consente di invocare giustizia sociale dai propri attici e di schierarsi a paladini dei deboli (gli stessi che in tempo di pace e di elezioni non leggono e votano da ignoranti: il fronte compatto anti Thatcher sospese per un po’ l’ottusa lagna). Una nemica è una doppia manna dal cielo, e viene utile anche a chi non ne avrebbe bisogno, come Angela Carter. Fatta pratica sui lupi cattivi, sugli orchi e sui barbablù, rovesciando le favole classiche a favore delle femmine, contro Margaret Thatcher parte all’attacco: “Tuba come una colomba, abbaia come un cane dei quartieri alti, finisce per somigliare a una zia nei romanzi di Wodehouse”.
David Peace, lo scrittore dello Yorkshire che i lettori di romanzi calcistici conoscono per “Il maledetto United”, in “GB84” butta sulle spalle della Thatcher “la perdita dell’innocenza britannica”, oltre al proprio allontanamento dalla politica (gli americani si impressionano meno, l’innocenza si perde a ogni generazione, poi si ricupera, e si riperde). Michele Dalai, nel romanzo “Le più strepitose cadute della mia vita”, la descrive traballante sui tacchi: ha appena trattato la cessione di Hong Kong, alla fine dell’incontro inciampa sui gradini.

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