Girotondo di economisti sugli effetti (negativi o catartici) della politica che ha vincolato l’Europa intera
L’austerità è stata molto più di una teoria economica. Ha rappresentato la strategia usata per affrontare la crisi europea negli ultimi due anni e solo ultimamente è stata messa in seria discussione dagli stessi organismi sovranazionali che l’avevano promossa. Non solo il Fondo monetario internazionale ma anche i governi che hanno assunto il consolidamento fiscale e la riduzione del debito pubblico come un assioma stanno cambiando posizione. Il governo tecnico di Mario Monti ne è stato l’esecutore per l’Italia, così come concordato con l’Unione europea e con l’economia dominante dell’Eurozona, quella tedesca. L’obiettivo di “mantenere i conti in ordine” è stato raggiunto almeno in parte: sebbene sia difficile centrare il pareggio di bilancio (reale) per quest’anno, le previsioni macroeconomiche dicono che il deficit non supererà il 3 per cento in rapporto al pil. Il rigore è stato ottenuto anche per mezzo di un aumento delle imposte che deve ancora dispiegare i suoi effetti ma il “baratro greco”, cioè lo spauracchio del fallimento, è stato di fatto evitato.
L’ex membro dell’esecutivo della Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi (oggi presidente di Snam) nel suo libro “Morire di austerità” (il Mulino) in uscita in questi giorni critica Monti: “Prima il pacchetto di misure ‘salva-Italia’, a fine 2011, e dopo quello ‘cresci-Italia’. La prima parte ha prodotto nell’immediato effetti fortemente recessivi, mentre la seconda è stata svuotata di contenuto”. Ma la recessione che morde dal 2011, la chiusura di centinaia di imprese, e tutti i problemi che stanno emergendo all’unisono negli ultimi mesi, sono il frutto solo dell’austerità? Non tutti gli economisti sentiti dal Foglio sono d’accordo. Ci sono “nodi” strutturali mai sciolti che sono semmai emersi per effetto del consolidamento fiscale. E’ di questo avviso Marcello Messori, docente di Economia politica all’Università Luiss di Roma: “Rischiamo un forte ridimensionamento nel settore manifatturiero e delle attività collegate con riflessi drammatici sul tasso di ‘inoccupazione’, che somma i disoccupati e chi ha smesso di cercare lavoro. Sono stati molti i fattori concomitanti che hanno portato a questa situazione – dice Messori al Foglio – a cominciare dalle carenze del settore produttivo che non ha attuato quelle innovazioni organizzative, legate alle nuove tecnologie informatiche, quando altri paesi lo facevano e c’erano condizioni favorevoli per farlo. Ma in Italia esistono anche posizioni di rendita consolidate e un ambiente sfavorevole al cambiamento. Inoltre le aziende, sia di piccole sia di grandi dimensioni, sono eccessivamente dipendenti dalle banche, che hanno un quasi-monopolio nell’intermediazione della ricchezza finanziaria delle famiglie. Questo modello di intermediazione non regge più”.
“Tutti i nodi che stanno venendo al pettine”, come dice Messori, portano anche i macroeconomisti a convergere verso la microeconomia in quanto “disciplina” chiave per analizzare e, nel caso, risolvere problemi contingenti. Lo dice Franco Bruni, professore di Teoria monetaria all’Università Bocconi di Milano, macroeconomista da sempre: “Dobbiamo guardare alle inefficienze microeconomiche e risolverle sia nella Pubblica amministrazione sia nel settore privato, in questo caso, a partire dalla struttura delle piccole e medie imprese che dovranno fondersi per sopravvivere. Con l’austerità dovremo convivere ma non è affatto tardi per migliorare. Serve però un governo che abbia una strategia di politica industriale di lunghissimo termine, nella consapevolezza che sarà una ristrutturazione dolorosa in un contesto di crescita lenta per i prossimi dieci anni. Crescita che sarà però robusta se ben preparata”. “Bisogna partire da una riforma drastica della Pubblica amministrazione – dice Bruni – Il settore pubblico deve mettere al centro il merito e non servono vaghi progetti di riduzione dell’apparato bensì un governo preparato ad affrontare l’impopolarità e capace di lasciare sfilare in piazza chi protesterà senza retrocedere”.
L’economista Giulio Sapelli è stato contrario all’austerità fin dal 2010, quando i professori di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, teorizzarono la “Crescita in tempi di austerity”, lavoro accademico che si è rivelato fallace per errori di calcolo. Sapelli sostiene che l’austerità in Italia dev’essere scardinata a partire dalla burocrazia. Vede nella Ragioneria dello stato il “guardiano” della “filosofia recessiva dell’austerità” e ne ipotizza il rinnovamento dei vertici affinché essi rispondano al Parlamento e non ai “dettami” dell’Europa. “L’abbiamo visto nel caso del pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese, deciso per decreto, ma bloccato dalla Ragioneria dello stato contro la volontà popolare”, dice Sapelli. Da qui, la necessità, secondo il docente di Storia economica all’Università Statale di Milano, di una Ragioneria che non risponda più alle regole imposte da Bruxelles ma a quelle del governo italiano che adesso “dovrebbe impegnarsi a rinegoziare il Fiscal compact o addirittura uscire dai suoi vincoli di bilancio perché, come abbiamo visto, ai mercati non interessa più il rigore a tutti i costi dal momento che gli spread sono fermi e le aste dei titoli di stato sono positive”. Non tutti i “vincoli” con l’austerità sono dunque sciolti. Lo pensa anche Alberto Bagnai, economista dell’Università di Chieti-Pescara, convinto che la stretta fiscale attuata sotto il governo Monti “ci abbia avvicinato alla Grecia e non allontanato da essa”. “La rimozione dell’austerità non basta – dice Bagnai – perché qualsiasi provvedimento espansivo, a prescindere da come venga finanziato, alimenterebbe le importazioni, con un conseguente aumento del debito privato estero, all’origine della nostra attuale fragilità”. Secondo le previsioni dell’Economist intelligence unit saranno infatti le finanze private a pesare sul ciclo economico. “Ci aspettiamo – scrivono gli analisti – un’ulteriore riduzione dei consumi privati in conseguenza della stretta fiscale, delle condizioni deteriorate del mercato del lavoro, di un’altra caduta dei salari e delle stringenti condizioni del credito. La ripresa prevista nel 2014-’17 è modesta per via della necessità di mantenere ferma la politica fiscale”. Secondo uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, think tank liberista di Torino, non servirebbe però chissà quanta austerità per avere i conti in ordine e crescere, perché “se l’Italia allineasse la propria spesa pubblica, in proporzione al pil, ai livelli della Germania, si troverebbero le risorse per abolire l’Irap e ridurre del 10-15 per cento l’Irpef”.
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