"Après Nous le déluge!" LUIGI XV; http://ideas.repec.org/f/pma1570.html; http://papers.ssrn.com/sol3/cf_dev/AbsByAuth.cfm?per_id=1590874; https://www.researchgate.net/profile/Cosimo_Magazzino/; uniroma3.academia.edu/CosimoMagazzino; http://scienzepolitiche.uniroma3.it/cmagazzino/
sabato 31 marzo 2012
La trappola delle tasse, di Alberto Alesina Francesco Giavazzi
TAGLIARE LE SPESE SI PUO' (E SI DEVE)
L'Europa e l'Italia si trovano fra Scilla (la recessione) e Cariddi (debito e deficit). Sono acque molto difficili ed errori di navigazione possono essere fatali. I mercati li temono e le loro preoccupazioni si riflettono negli spread che si stanno di nuovo allargando. Quelli italiani sono saliti di 50 punti in meno di due settimane. Lo sbaglio da evitare, e che invece in Europa è sempre più frequente, è dare eccessiva importanza alla dimensione dell'aggiustamento dei conti pubblici, trascurandone la qualità. In Paesi come l'Italia, dove la pressione fiscale è vicina al 50% del reddito nazionale (Pil), ostinarsi a ridurre deficit e debito aumentando le imposte è inutile, o addirittura controproducente perché ogni beneficio rischia di essere annullato dall'effetto recessivo di un ulteriore aumento della pressione fiscale.
Negli ultimi otto mesi, in quattro successive manovre volte a correggere i nostri conti pubblici, la pressione fiscale è cresciuta di quasi 2 punti: dal 44,7% del Pil nel 2010 al 46,5% fra due anni. Quelle quattro manovre hanno anche ridotto le spese al netto degli interessi: apparentemente di 3 punti, dal 49,5 al 46,5% del Pil. Ma un'analisi più attenta mostra che una parte significativa di questa riduzione di spesa è avvenuta mediante tagli nei trasferimenti dello Stato a Comuni, Province e Regioni. Questi ultimi non hanno compensato i minori trasferimenti riducendo a loro volta la spesa, ma hanno aumentato alcune imposte locali, come le addizionali Irpef che sono entrate in vigore in questi giorni. Rifacendo i conti si scopre che dei circa 5 punti di correzione dei conti pubblici attuati nei mesi scorsi, quattro si otterranno tramite aumenti di imposte e uno soltanto per effetto di minori spese. Il risultato è che fra due anni la pressione fiscale complessiva (cioè sommando imposte pagate allo Stato e ad enti locali) supererà il 50%. Non è una peculiarità italiana: sta accadendo un po' ovunque in Europa.
E, tuttavia, studiando le correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 40 anni nei maggiori Paesi industriali si apprendono tre lezioni. 1) Gli aggiustamenti fiscali che funzionano sono quelli che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale; 2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnati da riforme che stimolino la crescita; 3) la discesa del debito è un processo che richiede tempi molto lunghi. Per essere credibile, servono quindi istituzioni che garantiscano la continuità delle politiche necessarie per ridurre il debito.
Le regole europee, anche le modifiche ai trattati decise tre mesi fa, continuano invece a porre l'accento esclusivamente sul pareggio di bilancio, senza dir nulla sulla composizione delle manovre per raggiungerlo, né sull'assetto istituzionale necessario per garantire continuità, ad esempio creando Commissioni fiscali indipendenti, la cui creazione avevamo proposto in un articolo del 3 marzo scorso. Dovendo scegliere tra un aggiustamento più severo, ma attuato solo elevando la pressione fiscale, e uno più moderato, ma attuato riducendo in via strutturale, e quindi permanente, la spesa, va preferito il secondo.
Nelle scorse settimane si è parlato di spostare il peso fiscale dalle imposte dirette (sul reddito) a quelle indirette (sui consumi). Le seconde sono meno distorsive delle prime e scoraggiano meno il lavoro, ma sempre imposte sono e riducono il potere d'acquisto dei salari. Facciamo pure una riforma fiscale di questo tipo, ma in un quadro di riduzione non di aumento del carico fiscale complessivo!
Riforma del mercato del lavoro ed equilibrio dei conti pubblici hanno un ovvio collegamento: l'impiego pubblico, che è una delle fonti principali di rigidità della spesa. Tant'è vero che le amministrazioni pubbliche, per acquisire un po' di flessibilità, fanno esse pure ricorso a contratti a tempo determinato, contribuendo a creare anche qui un mercato del lavoro «duale».
Per molti aspetti, quindi, i problemi del mercato del lavoro del settore pubblico sono simili a quelli del settore privato. Non solo. Soprattutto nel Sud l'impiego pubblico è una forma di sussidio permanente, un modo molto inefficiente per trasferire reddito alle regioni del Mezzogiorno, che non le aiuta a diventare più produttive, anzi ostacola lo sviluppo dell'occupazione nel settore privato. Per giusti motivi di equità questo governo ha eliminato ogni differenza nel trattamento pensionistico tra dipendenti pubblici e privati. Non applicare le medesime regole al mercato del lavoro significa reintrodurre differenze inique nella natura dei contratti.
Sono queste le sfide che attendono il governo Monti, un esecutivo nato per avviare riforme che la politica non ha avuto il coraggio di fare. Entrambi dovrebbero ricordarlo, governo e politica, prima che la luna di miele finisca.
http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_31/la-trappola-delle-tasse-alberto-alesina-francesco-giavazzi_aea8a71c-7af0-11e1-b4e4-2936cade5253.shtml
Monti Pulls a Thatcher
The Italian PM's labor market reform shows political courage.
Italian Prime Minister Mario Monti has walked away from negotiations with Italy's labor unions and announced that he is going to move ahead with reforming the country's notorious employment laws—with or without union consent. If Rome is spared the fate that recently befell Athens, mark this as the week the turnaround began.
Italy's labor laws are some of the most restrictive in the Western world. The totemic Article 18 all but bans companies with more than 15 employees from involuntarily dismissing workers, regardless of the severance offered. Mr. Monti has proposed replacing this job-for-life scheme with a generous system of guaranteed severance when employees are dismissed for "economic reasons."
In most of the free world, this would count as a useful, albeit mild, reform. Among other weaknesses, the new law would not affect a worker's right to challenge his dismissal in court when fired for disciplinary reasons—an unreciprocated gift to the unions.
But standing up to Italy's labor unions takes courage, and not only of the political sort. Ten years ago this month economist Marco Biagi was gunned down by left-wing terrorists for his role in designing a previous attempt at labor reform. Mr. Monti's move has prompted calls for a general strike from CGIL, Italy's largest union confederation.
Since coming to power in November, Mr. Monti has passed some measures by emergency decree, bypassing parliament. On Friday, however, he announced that the labor-law changes would be voted through the National Assembly in the normal way.
This, too, is politically courageous. The center-left Democratic Party—an ally of the CGIL and one of the three main political blocs supporting Mr. Monti's grand coalition—has called the reform unacceptable. A split in the coalition could doom both the reform and Mr. Monti's government. The alternative is to pass the law over Democratic Party opposition, which would saddle Mr. Monti with former Prime Minister Silvio Berlusconi's base of right-of-center support.
That prospect probably doesn't thrill Mr. Monti. But holding a vote is also right. Italy's labor laws have been a fixture of economic life for decades. Successful—and lasting—reform won't be accomplished by decree, but by demonstrating that the changes enjoy a popular mandate.
Mr. Monti has three chief advantages over his recent predecessors. He remains popular in Italy. He also says he doesn't intend to run for re-election. This gives him a chance to maintain control over his reforms as they move toward a parliamentary vote.
More importantly, Mr. Monti—a former economics professor—has a rare opportunity to educate Italians on the consequences of opposing reform. This won't require sophisticated explanations of why employers will still employ people even when the law does not force them to do so. He can merely ask Italians to look across the Ionian Sea. If that doesn't scare them sober, then nothing will help.
Postwar Italian politics has chewed up more than a few would-be reformers while career politicians and union leaders enjoy the spoils of power. The difference with Mr. Monti is that he didn't take this job to be a caretaker PM. If he means to make his current reform the first, not last, step in a more ambitious agenda for reviving Italian growth, he could make his one term in office a great one.
http://online.wsj.com/article/SB10001424052702303816504577305240774653740.html?KEYWORDS=monti+thatcher
Italian Prime Minister Mario Monti has walked away from negotiations with Italy's labor unions and announced that he is going to move ahead with reforming the country's notorious employment laws—with or without union consent. If Rome is spared the fate that recently befell Athens, mark this as the week the turnaround began.
Italy's labor laws are some of the most restrictive in the Western world. The totemic Article 18 all but bans companies with more than 15 employees from involuntarily dismissing workers, regardless of the severance offered. Mr. Monti has proposed replacing this job-for-life scheme with a generous system of guaranteed severance when employees are dismissed for "economic reasons."
In most of the free world, this would count as a useful, albeit mild, reform. Among other weaknesses, the new law would not affect a worker's right to challenge his dismissal in court when fired for disciplinary reasons—an unreciprocated gift to the unions.
But standing up to Italy's labor unions takes courage, and not only of the political sort. Ten years ago this month economist Marco Biagi was gunned down by left-wing terrorists for his role in designing a previous attempt at labor reform. Mr. Monti's move has prompted calls for a general strike from CGIL, Italy's largest union confederation.
Since coming to power in November, Mr. Monti has passed some measures by emergency decree, bypassing parliament. On Friday, however, he announced that the labor-law changes would be voted through the National Assembly in the normal way.
This, too, is politically courageous. The center-left Democratic Party—an ally of the CGIL and one of the three main political blocs supporting Mr. Monti's grand coalition—has called the reform unacceptable. A split in the coalition could doom both the reform and Mr. Monti's government. The alternative is to pass the law over Democratic Party opposition, which would saddle Mr. Monti with former Prime Minister Silvio Berlusconi's base of right-of-center support.
That prospect probably doesn't thrill Mr. Monti. But holding a vote is also right. Italy's labor laws have been a fixture of economic life for decades. Successful—and lasting—reform won't be accomplished by decree, but by demonstrating that the changes enjoy a popular mandate.
Mr. Monti has three chief advantages over his recent predecessors. He remains popular in Italy. He also says he doesn't intend to run for re-election. This gives him a chance to maintain control over his reforms as they move toward a parliamentary vote.
More importantly, Mr. Monti—a former economics professor—has a rare opportunity to educate Italians on the consequences of opposing reform. This won't require sophisticated explanations of why employers will still employ people even when the law does not force them to do so. He can merely ask Italians to look across the Ionian Sea. If that doesn't scare them sober, then nothing will help.
Postwar Italian politics has chewed up more than a few would-be reformers while career politicians and union leaders enjoy the spoils of power. The difference with Mr. Monti is that he didn't take this job to be a caretaker PM. If he means to make his current reform the first, not last, step in a more ambitious agenda for reviving Italian growth, he could make his one term in office a great one.
http://online.wsj.com/article/SB10001424052702303816504577305240774653740.html?KEYWORDS=monti+thatcher
venerdì 30 marzo 2012
Lo Stronzetto di Sinistra, di Stefano Di Michele
Non sopporto più la scatarrosa inquisizione di chi chiama “servo” chiunque non abbia le sue paranoie
Lo Stronzetto di Sinistra (da adesso in poi inteso SdS), quando è il momento solleva sempre un angolo della bocca – uno solo, però, e neanche tutto, ché la situazione è drammatica, la democrazia pericolante, su certe cose non si ride, mica siamo sul divano della Dandini: a simulare prima sorriso (di compatimento), e subito dopo mutarsi in smorfia (d’indignazione). Lo SdS ha l’indignazione facile, scatarrosa, lavica. Per qualche minuto la tiene, la trattiene con sovrumana fatica – un contrarre di mascelle, un irrigidimento del busto, un sospetto serrare di chiappe a motivo di più risoluta stabilità sulla sedia. Ha spesso – in quell’interregno (spaventosi gli interregni: bisognerebbe essere gramsciani, per saperlo, ma lo SdS ignora Gramsci e preferisce “Annozero”) tra il serrare lo sdegno e il prorompere dello stesso – una faccia, diciamo così, topigna, a muso appuntito: da fiutatore di nemici, però, non di parmigiano, a perfetta conformazione per scrutare in uno spioncino. La radicata e diffusa persistenza, nell’italica sventura, dello Stronzone di Destra (da adesso in poi inteso SdD) carduccianamente né lo consola né lo rallegra: nella landa desolata in cui crede di essere stato schiantato dalla Sorte Oscura e dalla Ragione Dissolta dei connazionali, egli s’assume il compito della Vigilanza Interna. E’ sul vicino che l’occhio sorcigno si punta, è sulle parole degli altri che le orecchie rese sensibili da tante denunce e da tanto denunciare vibrano. Ora che il Noto Utilizzatore Finale (da adesso in poi inteso NUF) pare in sella rinsaldato, con maggior vigore hanno ripreso le loro scorribande queste Milizie della Virtù de’ noantri – che col miele della Verità vorrebbero cospargerti. Per poi legarti, e lasciarti in balia di qualche migliaio di mosche.
E’ diventato piuttosto facile incontrare lo SdS: a tavola, al bar, in compagnia di amici. Troppo facile, per i miei gusti. Serata a casa di amici. L’uomo oltre il tavolo mi fissa. Alza l’angolo destro della bocca. Forse c’è un accenno di risucchio – come faceva l’immortale barone Fefè, quello interpretato da Mastroianni nel film di Pietro Germi. Ci conosciamo da pochi minuti. “Così tu fai il giornalista?” – ma so che sa, dal sogghigno lo so, e dice “giornalista” col tono di chi indica il palo in una banda di rapinatori. “Sì”. “E’ vero che lavori al F., con quel ciccione servo di B.?”. Non nego il ciccione, provo a obiettare sul servo. Non mi fa neanche aprire bocca: “Lascia stare. Come vi sentirete, tu e quell’altro, quando avrete davanti otto baionette della gente pronta a fare giustizia?” – e il ghigno si muta in risolino soddisfatto, come a dire agli altri intorno: gliel’ho detto, avete visto? Lo SdS sorseggia spesso vino, ha il sorrisetto odioso di commiserazione, sono i gruppi scelti, i più puri tra i puri, la Pura Razza Antiberlusconiana d’incrollabile fede. “Perché non vai a fare in culo?”, domando. “Ti pagano bene, eh?”. Gelo intorno. Gli amici provano a far finta di niente. “Sai, non farci caso, è fatto così”. Ah, sì, è fatto così? Conosco uno da un quarto d’ora e quello vorrebbe vedermi fucilato, e non dovrei farci caso? E perché non si cura? Chi gli ha messo in testa che può vomitare cose del genere, continuare a bere vino e a disquisire delle sorti nazionali, della merda governativa e della merda collaborazionista (inteso il sottoscritto)? E perché io mi ritrovo a cena con un simile SdS? Ma non è facile sfuggire. C’è sempre un indice pronto e puntato – Indice supremo, da Verità e Via, non indice qualsiasi – c’è sempre un raccattatore di verbali di questura e di pessima letteratura di complotti e svelamenti delinquenziali, tutta una trama, tutta una spiata, tutta una verbalizzazione – gente che sogna celle, e spioncini da cui spiare. E non perché i farabutti in cella non debbano andare, e possibilmente lì restare. Macché, lo SdS chiede altro: partecipazione diretta al suo sbavamento, nessun dubbio, nessuna moderazione ammessa – che subito te la ritrovi come capo d’imputazione: diserzione. E’ una sudorazione continua, quella dello SdS: come per i replicanti di “Blade Runner”, va a caccia dei Non-Abbastanza-Antiberlusconiani, essendo Berlusconi la sua ossessione e il suo concentrato vitaminico quotidiano. Non ci fosse, si sentirebbe come san Girolamo quando Roma cadde in mano ai barbari, dopo che per anni e anni il sant’uomo ne aveva denunciato vizi e corruzione: “La fonte delle nostre lacrime si è disseccata…”. Dovrebbe allora andare al cinema, magari, solo per vedere un film, e non per vedere comunque un film contro il Cavaliere: una faticosissima rieducazione.
“Ma che cazzo dici? Come fai a non essere indignato? Ma lo vedi che fa, quel porco?”. La diserzione è anche semplicemente la noia mostrata dell’ascoltare sempre le stesse lagne. Uno vorrebbe parlare dei gatti, di un libro non scritto da Travaglio, persino dei mandarini – che siamo a fine marzo e si trovano ancora. “Senti, non me ne frega un cazzo!”. Oh, oh… Occhiata di compatimento: “E già, quello ti passa lo stipendio e tu devi fare pippa!”. C’è sempre un presidio, una casamatta dello SdS in ogni casa meglio frequentata – all’improvviso l’occhio si ravviva, la lingua si fa sciolta, il mantra ricomincia. Anzi, prende un ritmo accelerato, frenetico. “De sinistra? Famme er piacere! Casomai sarai della sinistra genere D’Alema, con tutte le porcate che avete fatto nella bicamerale! Eh, eh, di questo non parli, eh? Rispondi, forza”. Come per Oscar Wilde l’unico pregio del rugby era quello di “tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”, così, anche a voler riconoscere un solo pregio a D’Alema, c’è di essere il perfetto Anticristo per lo SdS – più satanico persino del Satana berlusconiano in persona – l’aglio per i suoi canini, la pietra di paragone da dove s’innalza e si stordisce di chiacchiere. “Perché, D’Alema sarebbe uno de sinistra?”: capisci che, solo per come li fa incazzare, qualche qualità il compagno Massimo deve averla. Poi, ecco: la bicamerale. Per lo SdS è peggio che una bestemmia, l’antro del male assoluto, luogo di perdizione – caverna di loschi accordi, pratiche da tagliagole, inciuci banditeschi. Contro la buona Italia, la meglio Italia, tutta la delinquenza politica là s’adunava – a fottere i magistrati, a fottere la democrazia, a fottere, a sentire l’ardore del ragionamento, personalmente lo stesso SdS che hai davanti. “Eh, te le sei scordate le porcate che avete provato a fare… Certo, se la pensi come D’Alema si capisce perché difendi Berlusconi!”. Proprio così: “Tu difendi Berlusconi”. Che neanche ti passa per l’anticamera del cervello, tenuto conto che: a) non ti pare difendibile; b) si difende benissimo (o malissimo: dipende dai punti di vista) da solo.
La sinistra che di solito ha in mente il prototipo dello SdS è del genere cavernicolo – loro urlo ideale potrebbe essere quello di Fred Flinstone: “Wilma, dammi la clava!” – da ogni contaminazione preservata, il sospetto di qualche ogm berlusconiano sempre presente. Perché il più delle volte quello che colpisce non è una polemica aperta, magari durissima – hai scritto delle stronzate, non sono d’accordo con quello che dici, un bellissimo, salutare: a Ste’, vaffanculo! – ma il giudizio che avverti sulla tua stessa persona. Una cosa di sguardi e di sorrisetti di condiscendenza, prima che di parole. La senti sulla pelle, fa immediatamente girare le palle. Nessuno, tra gli amici che ti conoscono, pensa che tu sia un venduto, che ricevi la mattina gli ordini di Berlusconi – che di me saggiamente se ne frega – recàti dal truce Denis Verdini, che F. ti metta a cuccia insieme ai bassotti se non mostri abbastanza considerazione per le posizioni del senatore Quagliariello. Ma sei lì, con gli occhi dello SdS addosso che sparge il piccolo veleno delle sue paranoie. “Vabbé, fatti pagare bene, ma non ci coglionare: tu fai quello che ti dicono di fare”. E’ l’immoralità di fondo di tutti i purissimi – i Nostri Migliori, non fosse, il paragone, offensivo con il Migliore che fu.
Non me ne frega neanche più niente del loro oltranzismo da operetta, del perenne “fare ammuina” che si tirano dietro, del sordido ravanare non solo tra le faccende di Berlusconi (che se sordide sono, lodato sia chi vuole portarle alla luce), ma anche nella personale vita e coscienza della persona che hanno davanti. “Aho, ognuno fa le sue scelte, c’è chi si vende e chi no. Io la penso così”. Una volta reagivo con un sorrisino, adesso non ho più voglia di farne passare mezza. Ma chi cazzo sei? Oltre al pattugliamento delle vite altrui, di che cazzo ti occupi, nella tua vita? Fino ai paradossi assoluti. Una sera, cena – bisognerà cominciare a limitare le cene, di questo passo – in un quartiere periferico. A tavola, a sorpresa, una ex terrorista (niente da dire sugli ex terroristi, ma per me è chiaro che, se niente di meglio ho combinato, di niente di paragonabile al male da loro fatto sono responsabile). Si chiacchiera del più e del meno. A un certo punto: “Certo, tu dici di essere di sinistra… Ma non capisco che senso dai alla tua vita, lavorando per il giornale di F. Ma come fai?”. Quella volta risuonarono urla quasi da intervento della forza pubblica, lì al ristorante. Io non ho mai nemmeno attaccato un manifesto fuori posto – e una persona con quel passato si permetteva di giudicare il senso della mia vita. O ti tieni dentro l’umiliazione o sbotti. E’ il caso di sbottare, di non concedere altro. “Non ti permettere più” – è una frase un po’ comica, ma prende le distanze e le mantiene. Tutta salute. Perché a volte lo SdS è seriamente convinto di essere – moralmente e politicamente – superiore, e allora lo vedi (per un momento: di solito hanno la struttura mentale di quei pupazzi con il culo tondo che appena li tiri giù, con uno scatto sono di nuovo in piedi) barcollare, quasi incredulo che una merda in sospetto di collaborazionismo con il Satanasso di Arcore possa avere l’ardire di replicare a una così ovvia considerazione.
C’è un fatto personale. Anzi, ce ne sono due. Il primo: voto Pd, sono stato per una vita nel Pci – e neanche pentito. E mai, in un partito pur ideologico, a volte duro, il più delle volte sensato, ho incrociato gente (dev’essere la società civile, che ha preso il posto della politica e innalza ogni rutto a declamata pratica democratica) capace di giudizi così offensivi e personali. Solo una volta, all’Unità, un coltissimo collega mi accusò di immoralità perché avevo scritto su una rivista diretta da Pietrangelo Buttafuoco. “Sei immorale, hai scritto per i fascisti!”. A momenti si convocava una pubblica adunata di tutta la redazione. Lo mandai a fare in culo: oggi sta decisamente più a destra di me. Il secondo: questo giornale. Quando vuole mostrarsi comprensivo, lo SdS dice: “Sarai magari bravo, ma non ti fa schifo stare lì?”. Artisti d’ignoto valore (“Io non voglio avere niente a che fare con il mercato” – quando palesemente è il mercato che non vuole avere niente a che fare con lui), colleghi di fervida vocazione, persone conosciute per caso: niente da raccontare su di loro, ma subito alla baionetta per un democratico assalto. Non solo Berlusconi – bisognerà detestarlo di più, non fosse che per la qualità di certo antiberlusconismo che nel suo nome si satolla e si alimenta – ma pure F.* Dopo il ritorno in televisione, l’esondazione si è fatta crescente. “L’hai sentito cosa ha detto? Ma tu non ti vergogni? Non dici niente? C’hai paura, eh…”. La signora – genere democratica metropolitana: “Lo sai io quanto ci metto per guadagnare tremila euro?”. Non lo so, ma neanche me ne frega. Strepiti. “Certo, tu sei pagato per difenderlo”. Roba da matti, sempre di soldi parlano – immediatamente dopo una plateale riverenza alla Costituzione, però, così che sia chiaro chi la democrazia tutela e chi la democrazia fotte.
E poi quell’altra cosa – becera, insopportabile, surreale. Almeno cinque o sei volte me lo sono sentito ripetere: “Ma hai capito, lo capisci che F. ha preso il posto di Biagi?”. Qui ci vuole molta pazienza – essendo piazzato nel mezzo di ogni obiezione quella solenne stronzata dell’editto bulgaro di Berlusconi. Ci si prova con l’ironia: “Casomai ha preso il posto di ‘Max e Tux’, che sono arrivati dopo”. Niente. “Che cazzo c’hai da ridere? Ti fa ridere ’sta cosa? Già c’è Minzolini…” – e uno si ritrova pure gravato del peso del tigìuno, che francamente, questo proprio no… Ci si riprova, con disponibilità: “Pure il giovedì sera, allora, Santoro ha preso il posto del ‘Rischiatutto’ di Mike Bongiorno …”. Vanno in bestia – un illogico scoppio d’ira. “Allora F. fa il servo di Berlusconi, e tu il servo di F.!”. La cosa buffa è che non è quasi mai un argomentare sulle cose dette in trasmissione – giuste o sbagliate, da genio o da stronzo, belle o brutte. Niente, è il luogo, la postazione, l’orario. A me Biagi piaceva – da ragazzo lo leggevo, e un vecchio compagno falegname di nome Giovanni accanitamente insisteva: lascia perdere Biagi, sei comunista, leggi Fortebraccio, è finita che li ho letti tutti e due – a F. non molto. Ma adesso, che purtroppo non c’è più, cosa dovrebbero mettere, in quell’orario? Un tricolore? Una cappella votiva? L’inno di Mameli? Cos’è, un’usurpazione? Uno cambia canale, spegne la televisione, va a fare sesso (che è meglio qualunque cosa vada in onda): ma perché ’sta fissazione di chi sta al posto di chi?
Se Berlusconi si deve rassegnare agli antiberlusconiani, a sinistra bisognerà almeno per un po’ rassegnarsi, se non alla prevalenza (quella era del cretino, anche se, come diceva Mark Twain, odio ripetermi), certo alla persistenza dello SdS. Allora, calibrare meglio le cene, avere sempre un vaffanculo di riserva, e mai pronunciare la frase che suona quasi come giustificazione: “Sono di sinistra anch’io” – ti prego, cerca di capirmi. Tanto, la stessa sinistra non siamo – e alla fine, inevitabilmente, per questi buonisti feroci e fanatici, uno (nel caso, io) resterà (delicato pensiero scovato sul web) comunque “un sacco di merda berlusconiano”. Beh, scusate se è poco.
*Lo SdS ne avrà ora attesa riconferma: “Ve l’ho detto, sta a libro paga. Questo SdM è solo lo Stronzetto di Mediaset…”.
E’ diventato piuttosto facile incontrare lo SdS: a tavola, al bar, in compagnia di amici. Troppo facile, per i miei gusti. Serata a casa di amici. L’uomo oltre il tavolo mi fissa. Alza l’angolo destro della bocca. Forse c’è un accenno di risucchio – come faceva l’immortale barone Fefè, quello interpretato da Mastroianni nel film di Pietro Germi. Ci conosciamo da pochi minuti. “Così tu fai il giornalista?” – ma so che sa, dal sogghigno lo so, e dice “giornalista” col tono di chi indica il palo in una banda di rapinatori. “Sì”. “E’ vero che lavori al F., con quel ciccione servo di B.?”. Non nego il ciccione, provo a obiettare sul servo. Non mi fa neanche aprire bocca: “Lascia stare. Come vi sentirete, tu e quell’altro, quando avrete davanti otto baionette della gente pronta a fare giustizia?” – e il ghigno si muta in risolino soddisfatto, come a dire agli altri intorno: gliel’ho detto, avete visto? Lo SdS sorseggia spesso vino, ha il sorrisetto odioso di commiserazione, sono i gruppi scelti, i più puri tra i puri, la Pura Razza Antiberlusconiana d’incrollabile fede. “Perché non vai a fare in culo?”, domando. “Ti pagano bene, eh?”. Gelo intorno. Gli amici provano a far finta di niente. “Sai, non farci caso, è fatto così”. Ah, sì, è fatto così? Conosco uno da un quarto d’ora e quello vorrebbe vedermi fucilato, e non dovrei farci caso? E perché non si cura? Chi gli ha messo in testa che può vomitare cose del genere, continuare a bere vino e a disquisire delle sorti nazionali, della merda governativa e della merda collaborazionista (inteso il sottoscritto)? E perché io mi ritrovo a cena con un simile SdS? Ma non è facile sfuggire. C’è sempre un indice pronto e puntato – Indice supremo, da Verità e Via, non indice qualsiasi – c’è sempre un raccattatore di verbali di questura e di pessima letteratura di complotti e svelamenti delinquenziali, tutta una trama, tutta una spiata, tutta una verbalizzazione – gente che sogna celle, e spioncini da cui spiare. E non perché i farabutti in cella non debbano andare, e possibilmente lì restare. Macché, lo SdS chiede altro: partecipazione diretta al suo sbavamento, nessun dubbio, nessuna moderazione ammessa – che subito te la ritrovi come capo d’imputazione: diserzione. E’ una sudorazione continua, quella dello SdS: come per i replicanti di “Blade Runner”, va a caccia dei Non-Abbastanza-Antiberlusconiani, essendo Berlusconi la sua ossessione e il suo concentrato vitaminico quotidiano. Non ci fosse, si sentirebbe come san Girolamo quando Roma cadde in mano ai barbari, dopo che per anni e anni il sant’uomo ne aveva denunciato vizi e corruzione: “La fonte delle nostre lacrime si è disseccata…”. Dovrebbe allora andare al cinema, magari, solo per vedere un film, e non per vedere comunque un film contro il Cavaliere: una faticosissima rieducazione.
“Ma che cazzo dici? Come fai a non essere indignato? Ma lo vedi che fa, quel porco?”. La diserzione è anche semplicemente la noia mostrata dell’ascoltare sempre le stesse lagne. Uno vorrebbe parlare dei gatti, di un libro non scritto da Travaglio, persino dei mandarini – che siamo a fine marzo e si trovano ancora. “Senti, non me ne frega un cazzo!”. Oh, oh… Occhiata di compatimento: “E già, quello ti passa lo stipendio e tu devi fare pippa!”. C’è sempre un presidio, una casamatta dello SdS in ogni casa meglio frequentata – all’improvviso l’occhio si ravviva, la lingua si fa sciolta, il mantra ricomincia. Anzi, prende un ritmo accelerato, frenetico. “De sinistra? Famme er piacere! Casomai sarai della sinistra genere D’Alema, con tutte le porcate che avete fatto nella bicamerale! Eh, eh, di questo non parli, eh? Rispondi, forza”. Come per Oscar Wilde l’unico pregio del rugby era quello di “tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”, così, anche a voler riconoscere un solo pregio a D’Alema, c’è di essere il perfetto Anticristo per lo SdS – più satanico persino del Satana berlusconiano in persona – l’aglio per i suoi canini, la pietra di paragone da dove s’innalza e si stordisce di chiacchiere. “Perché, D’Alema sarebbe uno de sinistra?”: capisci che, solo per come li fa incazzare, qualche qualità il compagno Massimo deve averla. Poi, ecco: la bicamerale. Per lo SdS è peggio che una bestemmia, l’antro del male assoluto, luogo di perdizione – caverna di loschi accordi, pratiche da tagliagole, inciuci banditeschi. Contro la buona Italia, la meglio Italia, tutta la delinquenza politica là s’adunava – a fottere i magistrati, a fottere la democrazia, a fottere, a sentire l’ardore del ragionamento, personalmente lo stesso SdS che hai davanti. “Eh, te le sei scordate le porcate che avete provato a fare… Certo, se la pensi come D’Alema si capisce perché difendi Berlusconi!”. Proprio così: “Tu difendi Berlusconi”. Che neanche ti passa per l’anticamera del cervello, tenuto conto che: a) non ti pare difendibile; b) si difende benissimo (o malissimo: dipende dai punti di vista) da solo.
La sinistra che di solito ha in mente il prototipo dello SdS è del genere cavernicolo – loro urlo ideale potrebbe essere quello di Fred Flinstone: “Wilma, dammi la clava!” – da ogni contaminazione preservata, il sospetto di qualche ogm berlusconiano sempre presente. Perché il più delle volte quello che colpisce non è una polemica aperta, magari durissima – hai scritto delle stronzate, non sono d’accordo con quello che dici, un bellissimo, salutare: a Ste’, vaffanculo! – ma il giudizio che avverti sulla tua stessa persona. Una cosa di sguardi e di sorrisetti di condiscendenza, prima che di parole. La senti sulla pelle, fa immediatamente girare le palle. Nessuno, tra gli amici che ti conoscono, pensa che tu sia un venduto, che ricevi la mattina gli ordini di Berlusconi – che di me saggiamente se ne frega – recàti dal truce Denis Verdini, che F. ti metta a cuccia insieme ai bassotti se non mostri abbastanza considerazione per le posizioni del senatore Quagliariello. Ma sei lì, con gli occhi dello SdS addosso che sparge il piccolo veleno delle sue paranoie. “Vabbé, fatti pagare bene, ma non ci coglionare: tu fai quello che ti dicono di fare”. E’ l’immoralità di fondo di tutti i purissimi – i Nostri Migliori, non fosse, il paragone, offensivo con il Migliore che fu.
Non me ne frega neanche più niente del loro oltranzismo da operetta, del perenne “fare ammuina” che si tirano dietro, del sordido ravanare non solo tra le faccende di Berlusconi (che se sordide sono, lodato sia chi vuole portarle alla luce), ma anche nella personale vita e coscienza della persona che hanno davanti. “Aho, ognuno fa le sue scelte, c’è chi si vende e chi no. Io la penso così”. Una volta reagivo con un sorrisino, adesso non ho più voglia di farne passare mezza. Ma chi cazzo sei? Oltre al pattugliamento delle vite altrui, di che cazzo ti occupi, nella tua vita? Fino ai paradossi assoluti. Una sera, cena – bisognerà cominciare a limitare le cene, di questo passo – in un quartiere periferico. A tavola, a sorpresa, una ex terrorista (niente da dire sugli ex terroristi, ma per me è chiaro che, se niente di meglio ho combinato, di niente di paragonabile al male da loro fatto sono responsabile). Si chiacchiera del più e del meno. A un certo punto: “Certo, tu dici di essere di sinistra… Ma non capisco che senso dai alla tua vita, lavorando per il giornale di F. Ma come fai?”. Quella volta risuonarono urla quasi da intervento della forza pubblica, lì al ristorante. Io non ho mai nemmeno attaccato un manifesto fuori posto – e una persona con quel passato si permetteva di giudicare il senso della mia vita. O ti tieni dentro l’umiliazione o sbotti. E’ il caso di sbottare, di non concedere altro. “Non ti permettere più” – è una frase un po’ comica, ma prende le distanze e le mantiene. Tutta salute. Perché a volte lo SdS è seriamente convinto di essere – moralmente e politicamente – superiore, e allora lo vedi (per un momento: di solito hanno la struttura mentale di quei pupazzi con il culo tondo che appena li tiri giù, con uno scatto sono di nuovo in piedi) barcollare, quasi incredulo che una merda in sospetto di collaborazionismo con il Satanasso di Arcore possa avere l’ardire di replicare a una così ovvia considerazione.
C’è un fatto personale. Anzi, ce ne sono due. Il primo: voto Pd, sono stato per una vita nel Pci – e neanche pentito. E mai, in un partito pur ideologico, a volte duro, il più delle volte sensato, ho incrociato gente (dev’essere la società civile, che ha preso il posto della politica e innalza ogni rutto a declamata pratica democratica) capace di giudizi così offensivi e personali. Solo una volta, all’Unità, un coltissimo collega mi accusò di immoralità perché avevo scritto su una rivista diretta da Pietrangelo Buttafuoco. “Sei immorale, hai scritto per i fascisti!”. A momenti si convocava una pubblica adunata di tutta la redazione. Lo mandai a fare in culo: oggi sta decisamente più a destra di me. Il secondo: questo giornale. Quando vuole mostrarsi comprensivo, lo SdS dice: “Sarai magari bravo, ma non ti fa schifo stare lì?”. Artisti d’ignoto valore (“Io non voglio avere niente a che fare con il mercato” – quando palesemente è il mercato che non vuole avere niente a che fare con lui), colleghi di fervida vocazione, persone conosciute per caso: niente da raccontare su di loro, ma subito alla baionetta per un democratico assalto. Non solo Berlusconi – bisognerà detestarlo di più, non fosse che per la qualità di certo antiberlusconismo che nel suo nome si satolla e si alimenta – ma pure F.* Dopo il ritorno in televisione, l’esondazione si è fatta crescente. “L’hai sentito cosa ha detto? Ma tu non ti vergogni? Non dici niente? C’hai paura, eh…”. La signora – genere democratica metropolitana: “Lo sai io quanto ci metto per guadagnare tremila euro?”. Non lo so, ma neanche me ne frega. Strepiti. “Certo, tu sei pagato per difenderlo”. Roba da matti, sempre di soldi parlano – immediatamente dopo una plateale riverenza alla Costituzione, però, così che sia chiaro chi la democrazia tutela e chi la democrazia fotte.
E poi quell’altra cosa – becera, insopportabile, surreale. Almeno cinque o sei volte me lo sono sentito ripetere: “Ma hai capito, lo capisci che F. ha preso il posto di Biagi?”. Qui ci vuole molta pazienza – essendo piazzato nel mezzo di ogni obiezione quella solenne stronzata dell’editto bulgaro di Berlusconi. Ci si prova con l’ironia: “Casomai ha preso il posto di ‘Max e Tux’, che sono arrivati dopo”. Niente. “Che cazzo c’hai da ridere? Ti fa ridere ’sta cosa? Già c’è Minzolini…” – e uno si ritrova pure gravato del peso del tigìuno, che francamente, questo proprio no… Ci si riprova, con disponibilità: “Pure il giovedì sera, allora, Santoro ha preso il posto del ‘Rischiatutto’ di Mike Bongiorno …”. Vanno in bestia – un illogico scoppio d’ira. “Allora F. fa il servo di Berlusconi, e tu il servo di F.!”. La cosa buffa è che non è quasi mai un argomentare sulle cose dette in trasmissione – giuste o sbagliate, da genio o da stronzo, belle o brutte. Niente, è il luogo, la postazione, l’orario. A me Biagi piaceva – da ragazzo lo leggevo, e un vecchio compagno falegname di nome Giovanni accanitamente insisteva: lascia perdere Biagi, sei comunista, leggi Fortebraccio, è finita che li ho letti tutti e due – a F. non molto. Ma adesso, che purtroppo non c’è più, cosa dovrebbero mettere, in quell’orario? Un tricolore? Una cappella votiva? L’inno di Mameli? Cos’è, un’usurpazione? Uno cambia canale, spegne la televisione, va a fare sesso (che è meglio qualunque cosa vada in onda): ma perché ’sta fissazione di chi sta al posto di chi?
Se Berlusconi si deve rassegnare agli antiberlusconiani, a sinistra bisognerà almeno per un po’ rassegnarsi, se non alla prevalenza (quella era del cretino, anche se, come diceva Mark Twain, odio ripetermi), certo alla persistenza dello SdS. Allora, calibrare meglio le cene, avere sempre un vaffanculo di riserva, e mai pronunciare la frase che suona quasi come giustificazione: “Sono di sinistra anch’io” – ti prego, cerca di capirmi. Tanto, la stessa sinistra non siamo – e alla fine, inevitabilmente, per questi buonisti feroci e fanatici, uno (nel caso, io) resterà (delicato pensiero scovato sul web) comunque “un sacco di merda berlusconiano”. Beh, scusate se è poco.
*Lo SdS ne avrà ora attesa riconferma: “Ve l’ho detto, sta a libro paga. Questo SdM è solo lo Stronzetto di Mediaset…”.
29 marzo 2012, di Camillo Langone
Che il Santo Padre, nonostante l’età recatosi a Cuba per chiedere a quei governanti di rendere festivo il Venerdì Santo, visiti un altro paese dove si lavora il Venerdì Santo, e se è per questo anche il Corpus Domini e il Giorno dei Morti, e in sempre più numerosi casi perfino la domenica. Un paese dove leggi ispirate da Mammona ostacolano la pratica religiosa. Un paese dove non si rende a Dio quel che è di Dio e perciò, di conseguenza, nemmeno all’uomo quel che è dell’uomo. Che Dio conceda al Papa la forza di visitare l’Italia.
http://www.ilfoglio.it/preghiera/623
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giovedì 29 marzo 2012
L'America e l'Europa avrebbero tanto bisogno di un nuovo Ronald Reagan, di Filippo Gaddo
Dov'è il Reagan d'Europa?
Un editoriale sul Wall Street Journal dichiarava venerdì scorso: “We need a Ronald Reagan”. Non in America – o almeno non solo in America – ma soprattutto in Europa. La settimana scorsa numerose città europee hanno celebrato il centenario della nascita dell’ex presidente Americano. In Cracovia, Budapest, Praga e Londra, gente di tutte le generazioni si sono soffermate per un momento a riflettere sulla sua vita, il suo operato, la sua ‘leadership’ e su come ha condizionato e cambiato le loro vite ed i loro paesi.
La caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo e la completa riunificazione Europea – questi sono eventi epocali che ancora oggi il mondo sta lentamente assorbendo e che non sarebbero stati possibili senza la guida ed il coraggio di personaggi come Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Papa Giovanni Paolo II – i tre grandi della guerra fredda. I principi di governo alla base della politica Reaganiana si sono dimostrati principi vincenti: governo limitato, responsabilità fiscale e protezione dei diritti naturali.
In economia quattro sono stati i pilastri cardinali della sua politica: controllo dell’ inflazione ed una politica monetaria responsabile, pressione fiscale moderata, una forte moneta, ed una libertà da eccessi di regolamentazione. In politica estera, un solido anticomunismo, una difesa dell’eccezionalismo Americano ed Occidentale, un rigetto del relativismo morale, una difesa dei diritti umani e del progetto di espandere la liberta’ in tutti i paesi.
Tali principi non sono limitati al particolare periodo storico in cui Reagan ha vissuto, ma sono validi anche oggi. Non solo negli Stati Uniti (dove il partito Repubblicano deve ricordarsene), ma anche in Europa – anzi soprattutto in Europa. All’inaugurazione della statua di Reagan in Piazza della Libertà a Budapest, il primo ministro Viktor Orban ha affermato:”Reagan riusci’ a gestire storici cambiamenti saggiamente e preservando la pace.
Per questo abbiamo una sua statua oggi a Budapest. Sconfiggendo le malvagie ideologie del ventesimo secolo, Reagan ha ricostruito il mondo per noi.” E ha poi concluso il suo intervento: "Abbiamo bisogno di un Ronald Reagan. Dove è? E’ già qui forse?". Una domanda che rimane senza risposta. Il mondo, l’America, l’Europa ne sentono la mancanza ed il bisogno. Il bisogno di un grande leader. Il bisogno di rinnovo.
http://www.loccidentale.it/node/107634
domenica 25 marzo 2012
Benedetto XVI: «Marxismo fuori dalla realtà», di Gian Guido Vecchi
LA VISITA ALL'AVANA
Il Papa in viaggio verso Cuba: «Pronti al dialogo»
«La Chiesa è un potere morale, educhi le coscienze»
Quando il volo AZ 4000 atterra dopo quattordici ore di viaggio, ci sono più di centomila fedeli lungo quaranta chilometri ad accompagnare ai margini della strada Benedetto XVI verso il centro della città tra grida, preghiere e coriandoli gialli. Come di consueto, dopo il decollo da Roma e la colazione, il pontefice ha raggiunto la coda dell’aereo per rispondere alle domande preparate dai giornalisti. Sereno e sorridente, riceve tra le risate generali anche il dono di un giornalista del Paese ospite: un iPod con musica messicana. Più tardi in effetti si ballerà, ma per la forte turbolenza sopra la Groenlandia.
Santo Padre, i viaggi del suo predecessore Giovanni Paolo II in Messico e a Cuba hanno fatto storia. Con quale animo e speranze lei si mette oggi sulle sue tracce?
«Cari amici, anzitutto vorrei dire: benvenuti e grazie per il vostro accompagnamento in questo viaggio che speriamo sia benedetto dal Signore. Io in questo viaggio mi sento totalmente nella continuità con Papa Giovanni Paolo II, mi ricordo benissimo del suo primo viaggio in Messico che era realmente storico, in una situazione giuridica ancora molto confusa ha aperto le porte ed è cominciata una nuova fase della collaborazione tra Chiesa, società e Stato. E anche mi ricordo bene suo viaggio storico a Cuba. Quindi cerco di andare nelle sue tracce e continuare quanto lui ha continuato. Per me c’era dall’inizio il desiderio di visitare il Messico. Da cardinale sono stato in Messico con ottimi ricordi e ogni mercoledì sento l’applauso e la gioia dei messicani, per me è una grande gioia e risponde a un desiderio che ho avuto da tanto tempo. Per dire quali sentimenti mi toccano, mi vengono in mente le parole del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, luctus et angor: gioia e speranza ma anche lutto e angoscia. Io condivido la gioie e le speranze ma condivido anche il lutto e le difficoltà di questo grande Paese. Vado per incoraggiare e per imparare, per confortare nella fede e nella speranza e nella carità, e per confortare nell’impegno per il bene, nell’impegno per la lotta contro il male. Speriamo che il Signore ci aiuti».
Il Messico è anche terra di violenza per il narcotraffico: si parla di cinquantamila morti negli ultimi cinque anni. Come affronta la Chiesa cattolica questa situazione? Lei avrà parole per i responsabili, i trafficanti che a volte si professano cattolici o addirittura benefattori della Chiesa?
«Noi conosciamo bene tutte le bellezze del Messico ma anche questo grande problema del narcotraffico e della violenza. E’ certamente una grande responsabilità per la Chiesa cattolica in un Paese con l’ottanta per cento di cattolici, e dobbiamo fare il possibile contro questo male distruttivo dell’umanità e della nostra gioventù. Direi che il primo atto è annunciare Dio. Dio è il giudice, Dio che ci ama ma ci ama per attirarci al bene e alla verità contro il male. Quindi è grande responsabilità della Chiesa di educare le coscienze, educare alla responsabilità morale e di smascherare il male, smascherare questa idolatria del denaro che schiavizza gli uomini solo per questa cosa, smascherare anche queste false promesse, la menzogna, la truffa che sta dietro la droga. E dobbiamo vedere che l’uomo ha bisogno dell’infinito e se Dio non c’è si crea i suoi propri paradisi, una parvenza di infinitudine che può essere solo una menzogna. Perciò è tanto importante che Dio sia presente e accessibile, grande responsabilità davanti a Dio giudice che ci guida, ci attira alla verità e al bene, e in questo senso la Chiesa deve smascherare il male, rendere presente la bontà di Dio, la sua verità, il vero infinito del quale abbiamo sete. E’il grande dovere della Chiesa. Facciamo tutti insieme il possibile sempre più».
L’America latina, nonostante lo sviluppo, continua a essere una regione di grandi contrasti sociali dove si trovano i più ricchi accanto ai più poveri. A volte sembra che la Chiesa cattolica non sia sufficientemente incoraggiata a impegnarsi in questo campo. Si può continuare a parlare di teologia della liberazione in un modo positivo, dopo che certi eccessi sul marxismo e la violenza sono stati corretti?
«Naturalmente la Chiesa deve sempre chiedersi se si fa abbastanza per la giustizia sociale, in questo grande Continente. Questa è una questione di coscienza che dobbiamo sempre porci. E chiederci che cosa deve fare la Chiesa e che cosa poi non deve fare. La Chiesa non è un potere politico, non è un partito, ma è una realtà morale, un potere morale. In quanto la politica fondamentalmente deve essere una realtà morale, la Chiesa su questo binario ha fondamentalmente a che fare con la politica. Ripeto quanto avevo già detto: il primo mestiere della Chiesa è educare le coscienze, e così creare una responsabilità necessaria. Educare le coscienze sia nell’etica individuale sia nell’etica pubblica. E qui forse c’è una mancanza: si vede, in America latina ma anche altrove, in non pochi cattolici, una certa schizofrenia tra morale individuale e pubblica. Personalmente, nella sfera individuale, sono cattolici, credenti, ma nella vita pubblica seguono altre strade che non corrispondono ai grandi valori del Vangelo che sono necessari per la fondazione di una società giusta. Quindi bisogna educare a superare questa schizofrenia, educare non solo alla morale individuale ma a una morale pubblica. E questo cerchiamo di fare con la dottrina sociale della Chiesa: naturalmente questa morale pubblica dev’essere una morale ragionevole, condivisa e condivisibile anche da non credenti, una morale della ragione. Certo, noi nella luce della fede possiamo vedere tante cose che anche la ragione può vedere, ma proprio la fede serve anche per liberare la ragione dagli interessi falsi e dagli oscuramenti degli interessi, e così creare nella dottrina sociale i modelli sostanziali per una collaborazione politica, soprattutto per il superamento di questa divisione sociale-antisociale che purtroppo esiste. In questo senso vogliamo lavorare. Non so se la parola "teologia della liberazione", che si può anche interpretare molto bene, ci aiuterebbe molto. L’importante è la comune razionalità alla quale la Chiesa può offrire un contributo fondamentale e deve sempre aiutare nella educazione delle coscienze sia per la vita pubblica sia per la vita privata».
Tutti ricordiamo le famose parole di Giovanni Paolo II: Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba. Sono passati 14 anni ma sembra siano ancora attuali. Durante l’attesa del suo viaggio molte voci di oppositori o di sostenitori dei diritti umani si sono fatte sentire. Lei pensa di riprendere il messaggio di Giovanni Paolo II?
«Come ho già detto, mi sento in assoluta continuità con le parole del Santo Padre Giovanni Paolo II, che sono ancora attualissime. Questa visita del Papa ha inaugurato una strada di collaborazione, di dialogo costruttivo, una strada che è lunga, esige pazienza, ma va avanti. Oggi è evidente che l’ideologia marxista com’era concepita non risponde più alla realtà, così non si può più rispondere e costruire una società, devono essere trovati nuovi modelli, con pazienza, in modo costruttivo. In questo processo che esige pazienza ma anche decisione, vogliamo aiutare in spirito di dialogo per evitare traumi e per aiutare verso una società fraterna e giusta come la desideriamo per tutto il mondo. E vogliamo collaborare in questo senso. E’ ovvio che la Chiesa sta sempre dalla parte della libertà, la libertà della coscienza, la libertà della religione, in questo senso contribuiamo, contribuiscono anche proprio i semplici fedeli a questo cammino avanti».
Fra pochi mesi vi sarà sinodo nuova evangelizzazione e inizierà l’anno della fede. Anche in America latina vi sono le sfide della secolarizzazione, delle le sette. In Cuba vi sono le conseguenze di una lunga propaganda dell’ateismo, la religiosità afrocubana è molto diffusa. Pensa che questo viaggio sia un incoraggiamento per la nuova evangelizzazione e quali sono i punti che le stanno più a cuore in questa prospettiva?
«Il periodo della nuova evangelizzazione è cominciato con il Concilio, questa era fondamentalmente l’intenzione di Papa Giovanni XXIII, è stata fortemente sottolineata da Giovanni Paolo II. La sua necessità, in un mondo che è in grande cambiamento, diventa sempre più evidente. Necessità nel senso che il Vangelo deve esprimersi in modi nuovi e necessità anche nell’altro senso, che il mondo ha bisogno di una parola nella confusione e nella difficoltà di orientarsi oggi. C’è una situazione comune del mondo, cioè la secolarizzazione, l’assenza di Dio, la difficoltà di trovare accesso, di vederlo come una realtà che concerne la mia vita. E dall’altra parte ci sono i temi specifici, lei ha accennato a Cuba con il sincretismo afrocubano, con tante altre difficoltà, ma ogni Paese ha la sua situazione culturale specifica. E da una parte dobbiamo partite dal problema comune, come oggi nel contesto della nostra moderna razionalità, possiamo di nuovo riscoprire Dio come l’orientamento fondamentale della nostra vita, la speranza fondamentale della nostra vita, il fondamento dei valori che realmente costruiscono una società. E come possiamo tenere conto della specificità delle situazioni diverse. Mi sembra molto importante annunciare un Dio che risponde alla nostra ragione perché vediamo la razionalità del cosmo, vediamo che c’è qualcosa dietro, ma non vediamo come sia vicino questo Dio, come concerne me. Questa sintesi del Dio grande maestoso e del Dio piccolo che è vicino a me e orienta e mi mostra i valori della mia vita, è il nucleo dell’evangelizzazione. Quindi un cristianesimo essenzializzato, dove si trova realmente il nucleo fondamentale per vivere oggi, con tutti i problemi del nostro tempo. E dall’altra parte bisogna tener conto della realtà concreta. In America Latina è molto importante che il cristianesimo non fosse mai tanto una cosa della ragione ma del cuore. La Madonna di Guadalupe è riconosciuta e amata da tutti perché capiscono che è una madre per tutti. Ed è presente dall’inizio di questa America Latina dopo l’arrivo degli europei. E pure in cuba abbiamo la madonna del Cobre che tocca i cuori. Sanno intuitivamente che è vero che questa Madonna ci ama e ci aiuta, ma questa intuizione del cuore deve collegarsi con la razionalità della fede e con la profondità della fede che va oltre la ragione. Dobbiamo cercare di non perdere il cuore ma di collegare cuore e ragione così che cooperino perché solo così l’uomo è completo e può aiutare e lavorare per un futuro migliore. Grazie».
http://www.corriere.it/esteri/12_marzo_24/vecchi-intervista-benedetto-xvi-messico-cuba_c4d9d79a-7578-11e1-88c1-0f83f37f268b.shtml
venerdì 23 marzo 2012
L'agitazione delle anime, di Michele Salvati
LABURISTI E LIBERALI NEL CENTROSINISTRA
Si raccoglie quello che si è seminato. Per ragioni evidenti - il legame con la Cgil, ma anche convinzioni antiche di una parte della sua dirigenza - sul tema della riforma della legislazione del lavoro il Pd ha lasciato convivere al suo interno posizioni molto diverse, l'anima di Damiano e l'anima di Ichino, per ricordarne gli esponenti più noti. Come l'asino di Buridano, tra queste anime non ha mai deciso e le ha lasciate polemizzare al suo interno. Quando è stato al governo ha sempre evitato di porre il tema sul tappeto nei suoi aspetti più ostici. Quando al governo era Berlusconi, questi si è ben guardato dall'affrontare il problema: in altre faccende affaccendato, egli ha seguito la sua ben nota strategia di galleggiamento e quieto vivere. Ad affrontare il toro per le corna c'è voluto Monti, e ora il Pd è nei guai.
Questo è un brutto momento per fare «la» riforma della legislazione del lavoro. Ciò che veramente incide sulle condizioni di benessere dei lavoratori - quelli che già sono occupati e quelli che vogliono entrare nel mercato - sono i livelli e la dinamica dell'occupazione, della domanda di lavoro: quando questi sono sostenuti, ci saranno assunzioni massicce, licenziamenti scarsi, e i licenziati in un'azienda troveranno facilmente lavoro in un'altra: l'articolo 18 interessa allora a ben pochi. Le cose stanno in modo diverso quando l'occupazione è scarsa e la domanda di lavoro è fiacca, se non addirittura in regresso. È la situazione attuale e temo che sarà destinata a durare per molto tempo, perché una ripresa economica non è in vista. In questa situazione ciò che influisce sul benessere dei lavoratori sono le garanzie di sostegno del reddito nel caso non si trovasse o si perdesse il lavoro: è questo che interessa, assai più dell'articolo 18. Qui però ci si scontra con il secondo motivo che rende il momento poco adatto alla riforma: la scarsità di risorse finanziarie disponibili per un ridisegno robusto degli ammortizzatori sociali.
Ma i momenti per riformare spesso non si scelgono, si verificano, e bisogna coglierli al volo. Di una riforma che aggiornasse la nostra obsoleta disciplina avevamo un grande bisogno: non solo perché ce la chiedono l'Europa e i mercati, ma per le iniquità e gli ostacoli allo sviluppo che essa contiene. Il centrodestra e il centrosinistra che abbiamo conosciuto non l'avrebbero mai fatta e, se rimanessero gli stessi, mai la farebbero in futuro: bene hanno dunque fatto Monti e Fornero a proporla. La riforma è solo abbozzata. Alcune misure mi convincono, altre meno. Oltretutto non si tratta di un testo definitivo ed è probabile (anzi, sperabile) che il Parlamento lo discuta a fondo e dunque alcune misure vengano riformulate. E qui, forse, il Pd può recuperare in extremis quella credibilità che le sue incertezze hanno sinora appannato. Può farlo, però, solo se l'asino di Buridano decide a quale mucchio di fieno rivolgersi, se a quello riformista o a quello della conservazione sindacale: concentrarsi sull'articolo 18 e definire la sua riforma come «pericolosa e confusa», come ha fatto D'Alema, non è un buon segno. Così come non lo è avanzare l'argomento della sacralità della concertazione. La concertazione all'italiana è stata una fase della nostra storia recente, motivata da circostanze eccezionali e ci voleva un governo frutto anch'esso di circostanze eccezionali per ribadire un principio costituzionale ovvio: che il governo ascolta e discute con i rappresentanti degli interessi - e questo governo ha ascoltato e discusso -, ma poi propone al Parlamento un testo legislativo. E il Parlamento decide.
http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_22/agitazione-delle-anime-salvati_132a58a0-73e6-11e1-970a-fabda8494773.shtml
Vai avanti, Elsa, di Michele Arnese
Io, prof. liberal e di sinistra, dico: brava ministro Fornero. Parla l’economista Alessandra Del Boca
Fra molti critici e accademici che chiosano e spesso cavillano, c’è una economista liberal e progressista che loda l’impianto della riforma Fornero, si stupisce del no del Pd e della Cgil e a Susanna Camusso chiede di moderare i toni. L’economista si chiama Alessandra Del Boca, insegna Politica economica all’Università di Brescia ed è anche uno degli esperti del Cnel indicati dal Quirinale. “Il mio giudizio sulla riforma del governo è buono – dice Del Boca in una conversazione con il Foglio – i principi di questa riforma sono largamente condivisi, dobbiamo essere grati al governo di questo grande sforzo”. Non mancano aspetti da affinare, comunque: “Dal lato dell’ingresso c’è un aggravio che preoccupa le imprese piccole e artigiane. Bisogna disincentivare gli abusi, ma ex post, colpendo duramente chi sfrutta i giovani e abusa dei contratti atipici. Ci sono però settori interi come l’agricoltura, l’edilizia e il turismo che sono basati su contratti temporanei. Il pilastro centrale degli ammortizzatori ha bisogno di una cura dimagrante: la dozzina di sussidi di disoccupazione ancora in essere andrebbero ridotti a un unico sussidio come è l’Aspi”.
Del Boca non esita a dire, però, che la riforma Fornero è rivoluzionaria e non deve far paura alla sinistra “perché tende a un modello universale di eguaglianza di trattamento sia nell’ingresso che nell’uscita, rivoluziona il modo di pensare il lavoro e genera mobilità buona e riscatta i giovani che saranno grati per una riforma che mette le loro prospettive di occupazione al centro”. L’economista è sorpresa della posizione della confederazione guidata da Susanna Camusso: “Il centro di questa riforma affonda le radici nel pensiero innovatore dei contributi di Pietro Ichino e di altri parlamentari del Pd, di economisti come Boeri e Garibaldi”. La Cgil, ricorda l’esperta del Cnel, “ha avuto leader come Lama, Trentin ed Epifani che hanno contribuito alla migliore cultura del nostro paese, quella in cui sono stata allevata da mio padre e mia madre”. “Sono convinta – aggiunge – che queste forze sapranno vedere quanto elevato sia il costo del simbolo dell’intangibilità dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori”.
“Credo che sapranno vedere che ci deve essere un equilibrio tra la flessibilità in entrata e in uscita – dice Del Boca – Il Cnel potrebbe lavorare alla ricerca della convergenza tra le varie parti sociali e il governo verso un risultato condiviso”. Per questo auspica che Camusso “comprenderà il pericolo del richiamo alla piazza e ai toni di guerra che tanto male fanno al nostro paese. Sa che la vita di tante persone di valore è stata spezzata da umori retrogradi alimentati da violenza verbale”. Del Boca non pensa che Bersani parlasse seriamente quando ha detto “non morirò monetizzando il lavoro riferendosi all’indennizzo che sostituisce il reintegro nel licenziamento economico”. “Ogni tanto il mio conterraneo Bersani si lascia prendere la mano dalla sua famosa capacità di creare metafore, ma non pensa certamente che i pochissimi casi in cui i lavoratori scelgono di essere reintegrati siano nobili e i moltissimi in cui c’è indennizzo non lo siano. E comunque il suo senso di responsabilità, se non dell’umorismo, dovrebbe fargli moderare i toni”. Bersani ha consigliato di fare riferimento al modello tedesco più che a quello americano. “L’indennizzo prevale nei casi di licenziamento individuale nelle fabbriche tedesche – spiega Del Boca – il ricorso al giudice che sceglie tra risarcimento economico o reintegro in azienda è raro, il 5 per cento”. In Germania, conclude, “si pensa, dopo le riforme realizzate, che sia nell’interesse del lavoratore negoziare un lauto indennizzo da 12 a 18 mensilità in base all’anzianità invece di farsi riassumere in un posto di lavoro ormai compromesso”.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/12784
lunedì 19 marzo 2012
Sonetto XIV, di Elizabeth Barrett Browning
Se devi amarmi, per null'altro sia
se non che per amore; non dire mai:
"L'amo per il sorriso, per lo sguardo,
la gentilezza del parlare, il modo
di pensare conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno".
Queste son tutte cose che posson mutare,
Amato, in sé o per te, e un amore
così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto. Può scordare
il pianto chi ebbe a lungo il tuo conforto,
e perderti. Soltanto per amore
amami - e sempre, per l'eternità.
La tragedia della Rivoluzione francese, di Pierre Chaunu
Un'aula della Sorbona, a Parigi. Fuori un tiepido gennaio. Dentro comincia la prima lezione dell'anno 1989. Sulla cattedra è il professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell'Institut de France, con una sessantina di titoli al suo attivo.
Esordisce in tono sarcastico: “Dunque questa è la prima lezione dell'anno: voi sapete che cadono nell'89 una quantità di anniversari importanti”. E snocciola una filza di eventi storici, scientifici, economici, ma neanche una parola sulla Grande Commemorazione, quella che infiamma la Francia da otto anni: “Ho dimenticato qualcosa?” chiede beffardo il professor Chaunu, “no, non mi sembra ci sia altro di importante da ricordare”.
È stato il Grande Guastafeste del bicentenario della Rivoluzione. Brillante, corrosivo, preparatissimo, ha appena dato alle stampe un libro di fuoco, La révolution declassée, dove fa a pezzi il mito della Rivoluzione dell'89 e soprattutto il conformismo degli intellettuali di corte e la retorica di regime di questo bicentenario. I suoi stessi avversari non osano contestarlo: persino Max Gallo, obtorto collo, lo ha definito “un ottimo storico”. Ed è praticamente invulnerabile, non essendo né cattolico, né reazionario (è infatti protestante e liberale). C'è una lunga tradizione liberale di critica aspra alla Rivoluzione, che comincia addirittura a fine Settecento con l'inglese Edmund Burke. Ma Chaunu si è spinto oltre. Ha guidato le ricerche di alcuni giovani e brillanti storici francesi fra documenti e dossier finora rimossi dalla storiografia ufficiale, e ne sono venuti fuori libri esplosivi, sconvolgenti, come quelli di Reynald Secher sul genocidio della Vandea. Incontriamo Chaunu nella sua casa di Caen.
Professore, il suo libro è uscito in Francia a marzo, già da alcuni anni lei si è ribellato al coro degli intellettuali e alle ingiunzioni del potere politico, contestando la legittimità di queste celebrazioni. Perché?
È una mascherata indecente, un'operazione politica elle sfrutta le stupidaggini che la scuola di Stato insegna sulla Rivoluzione. Pensi alle bétises del ministro della Cultura Lang: “L’89 segna il passaggio dalle tenebre alla luce”. Ma quale luce? Stiamo commemorando la rivoluzione della menzogna, del furto e del crimine. Ma trovo scioccante soprattutto che, alle soglie del '92, anche tutto il resto d'Europa festeggi un periodo dove noi ci siamo comportati da aggressori verso tutti i nostri vicini, saccheggiando mezza Europa e provocando milioni di morti. Cosa c'è da festeggiare? Eppure qua in Francia ogni giorno una celebrazione, il 3 aprile, il 5, il 10. È grottesco.
Ma è stato comunque un evento che ha cambiato la storia.
Certo, come la peste nera del 1348, ma nessuno la festeggia. Ad un giornalista tedesco ho chiesto: perché voi tedeschi non festeggiate la nascita di Hitler? Quello è sobbalzato sulla sedia. Ma non è forse la stessa cosa?
Dica la verità, lei è diventato reazionario. Ce l'ha con la modernità?
lo sono liberale, con una certa simpatia per l'illuminiamo tedesco e inglese. Ma proprio questa è la grande menzogna che pare impossibile poter estirpare: tu sei contro la Rivoluzione, dunque tu sei contro la modernità, sei per la lampada a petrolio e per la carrozza a cavalli. Al contrario. Io sono contro la Rivoluzione francese proprio perché sono per la modernità, per la penicillina, per il vaccino contro il vaiolo. Perché non festeggiamo Jenner che con la sua scoperta, dal '700 a oggi, ha salvato più di un miliardo di vite umane? Questo è il progresso. La Rivoluzione ha semmai bloccato il cammino verso la modernità; ha distrutto in pochi anni gran parte di ciò che era stato fatto in mille anni. E la Francia, che fino al 1788 era al primo posto in Europa, dalla Rivoluzione non si è più sollevata.
Ma lei lo può dimostrare?
Guardi, circa trent'anni fa ho contribuito a fondare la storia economica quantitativa, e oggi, con i modelli econometrici, chiunque può arrivare a queste conclusioni. Sono fatti e cifre. Tutte le curve di crescita del mio Paese si bloccano alla Rivoluzione. Era un Paese di 28 milioni di abitanti, il più sviluppato, creativo, evoluto, con un trend da primato: la Rivoluzione, insieme alle devastazioni sull'apparato produttivo, ha scavato un abisso di due milioni di morti, un crollo di generazioni che ha accompagnato il crollo economico.
Nella produzione media procapite, Francia e Inghilterra, i due Paesi più sviluppati del mondo, avevano rispettivamente, nel 1780, un indice 110 e 100. Ebbene nel 1815 la Francia era precipitata a 60, contro 100 dell'Inghilterra, che da allora non ha avuto più concorrenti. È stato il prezzo della Rivoluzione.
Ce ne spieghi almeno un motivo.
Attorno al '93 - e per un decennio - la Francia ha cominciato a vivere al 78 per cento del prelievo sul capitale e per il 22 per cento sulle tasse e le rendite, che non venivano reinvestite, ma consumate, bruciate e rubate per arricchire la Nomenklatura. È stata una dilapidazione spaventosa, un impoverimento storico. Quando Chateaubriand è tornato in Francia, nel 1800, ha avuto un'intuizione fulminante: “è strano: da quando sono partito non hanno più pitturato persiane e porte". Quando le finestre sono sverniciate e le latrine non funzionano può star certo che c'è stata una rivoluzione.
Ma comunque la Rivoluzione ha spalancato il pensiero umano.
Oh, santo cielo! Ma è stata una colossale distruzione di intelligenze e di ricchezze.
Se lei taglia la testa a Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, a 37 anni, il costo per l'umanità è enorme. Moltiplichi quel caso per cento. Come finì tutta l'élite scientifica e intellettuale? Quelli che non sono emigrati sono stati massacrati. Una perdita gigantesca. Sarebbe questa la conquista della civiltà?
Il 43 per cento dei francesi, nel 1788, sapeva firmare, sapeva scrivere. Dopo la Rivoluzione si crolla al 39 per cento, perché si erano sottratti i beni alla Chiesa (che per secoli aveva educato il popolo) e si erano distribuiti alla Nomenklatura.
E le chiese trasformate in porcili e i tesori d'arte devastati.
E' vero: fecero a pezzi le statue di Notre Dame, distrussero Cluny, e quasi tutte le chiese romaniche e gotiche...
Le ripeto: furto, menzogna e crimine, questa è la vera trilogia della Rivoluzione, che ha messo a ferro e fuoco l'Europa.
I francesi sono persuasi che la democrazia sia nata nell'89 e che l'umanità abbia imitato loro. È pazzesco! In realtà la sola rivoluzione da festeggiare sarebbe quella inglese del 1668: da lì è venuto il sistema rappresentativo e il governo parlamentare, lo Stato liberale che tutta Europa ha imitato.
Ma qualcosa di buono ci sarà pùr stato: per esempio la Dichiarazione dei diritti dell'uome e del cittadino.
Quello fu l'inganno più perverso. Le due Costituzioni più democratiche che siano mai state fatte sono quella sovietica di Stalin del 1936 e quella dei ghigliottinatori francesi del 1793. I loro frutti furono orrendi. Al contrario, il Paese che ha fondato la libertà, l'Inghilterra, non ha mai avuto Costituzioni. Delle Dichiarazioni io me ne infischio! E d'altra parte libertà, fraternità e uguaglianza non esistono che davanti a Dio. Le dirò che il miglior giudizio sulla Dichiarazione dei diritti dell'uomo lo formulò Fustelle de Coulange, il più grande storico francese dell'800 e mio predecessore all'Accademia di scienze morali e politiche. Egli disse: questi principi hanno mille anni, semmai la Dichiarazione li formula in modo un po' astratto. Ma una cosa nuova c'è: hanno spacciato dei principi antichi per una scoperta loro e l'hanno usata come un'arma contro il passato. Questo è perverso.
La conseguenza politica della Filosofia dei Lumi, no?
No. L’Illuminismo c'è stato in tutta Europa. Kant non era certo da meno di Voltaire. Ma la Rivoluzione c'è stata solo qui da noi. Non si può certo credere che i francesi fossero gli unici a pensare, in Europa. Dunque non c'è un nesso storico. È una menzogna anche parlare di fatalità storica, inevitabile. La persecuzione contro la Chiesa e il progetto di sradicare il cristianesimo dalla Francia ebbe come sua prima causa degli interessi finanziari, non questioni metafisiche.
Ci spieghi, professore.
Nel XVII secolo tutti gli Stati europei hanno istituzioni rappresentative. La Francia però, a poco a poco, le lasciò cadere in desuetudine. Per questo divenne una sorta di paradiso fiscale, perché - è noto - non si possono aumentare le imposte senza istituzioni rappresentative. Un esempio: la pressione fiscale fra 1670 e 1780 in Francia rimane ad un indice 100, mentre in Inghilterra sale da 70 a 200, in proporzione. La Francia si trova così ad avere uno Stato moderno, un moderno esercito, 450mila uomini, una potenza di prim'ordine, ma con risorse finanziarie vicino alla bancarotta perché per poterle mantenere come l'Inghilterra dovrebbe aumentare le tasse del 100 per cento.
Dunque viene chiamata ad affrontare la questione la rappresentanza del popolo, gli Stati generali.
Sì, i rappresentanti eletti però sono la più colossale assemblea di dementi che la storia abbia mai visto. Irresponsabili. Sfrenati solo nelle pretese, perché nessuno voleva farsi carico dei sacrifici (basti pensare che fra i deputati del Terzo stato c'erano un banchiere, 30 imprenditori e 622 avvocati senza causa). Non capiscono nulla di economia, hanno chiaro solo che a pagare devono essere gli altri. Così cominciano a vedere cosa possono confiscare: prima sopprimono la decima alla Chiesa, che nessuno nel popolo chiedeva di sopprimere perché significava sopprimere i finanziamenti per le scuole e gli ospedali. Si confiscano i beni del clero, donati alla Chiesa nel corso dei secoli, che ammontavano però solo al 7-8 per cento delle terre. Si comincia a diffondere l'idea che la Chiesa nasconda i suoi tesori, si confiscano i beni delle Abbazie.
E l'operazione si dà pure una maschera ideologica.
Certo. Si impone la Costituzione civile del clero, perché senza modificare e manomettere la struttura della Chiesa non avrebbero potuto rubare. I beni della Chiesa, che da secoli mantenevano scuole e ospedali, vengono accaparrati da una masnada di 80mila famiglie di ladri, nobili e borghesi, destra e sinistra: è per questo che tuttora la Rivoluzione in Francia è intoccabile! Perché fu una Grande Ruberia a vantaggio della classe dirigente. Il furto ha bisogno della menzogna e della persecuzione perché non era facile imporre ai preti e al popolo il sopruso. Per questo si impose il giuramento ai preti e chi non giurò fu massacrato. La Rivoluzione è stata una guerra di religione.
E in Vandea cos'è accaduto?
Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le, loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell'esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell'esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.
Ma in Vandea non finisce così.
Questo è il capitolo più orrendo. Nel di cembre 1793 il governo rivoluzionario d ordine di sterminare la popolazione dell 778 parrocchie: “Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti”. Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell'ordine: “Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio”. Allora hanno mandato Turreau, un cretino, alcolizzato, con un'armata di vigliacchi.
Fu il massacro?
Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: “Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini...”. Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte. Questo fu il genocidio vandeano. È questo che festeggiamo?
Fece scandalo, nel 1983, quando lei, per la prima volta, usò la parola genocidio, imputando la Rivoluzione. Perché?
I fatti parlano. Nessuno ha saputo negarli. E nulla può giustificare un simile orrore. Ma prima di me, nel 1894, fu un rivoluzionario socialista, Babeuf, che denunciò “il popolicidio della Vandea” (in un libro introvabile che noi abbiamo fatto ristampare). Non c'è differenza alcuna fra ciò che ha fatto il governo rivoluzionario in Vandea e ciò che ha fatto Hitler. Anzi una c'è. Hitler era scaltro e non dette mai per scritto l'ordine di eliminazione degli ebrei. Questi dell'89, oltreché assassini, erano anche stupidi e dettero l'ordine per scritto e lo pubblicarono perfino su Le Moniteur.
Certe persecuzioni hanno rinsaldato la fede del popolo. Ma questa francese sembra aver cancellato la cristianità.
Sì, è così. Per 15 anni fu resa impossibile la trasmissione della fede. Un'intera generazione. Pensi che Michelet fu battezzato a 20 anni e Victor Hugo non ha mai saputo se era stato battezzato o no. Le chiese chiuse. I preti uccisi o costretti a spretarsi e sposarsi o deportati e esiliati. Francamente io non capisco come oggi i cattolici possano inneggiare alla Rivoluzione, Altra cosa è il perdono e altra solidarizzare con i carnefici, rinnegando le vittime e i martiri. Penso che la Chiesa tema, parlando male della Rivoluzione, di sembrare antimoderna, di opporsi alla modernità. lo credo che sia il contrario. E sono orgoglioso che sia stato un Paese protestante come l'Inghilterra a dare asilo ai preti cattolici perseguitati. Infatti non c'è libertà più fondamentale della libertà religiosa”.
da Il Sabato, 29 aprile 1989
http://www.karamazov.it/tragedia_rivoluzione.htm
domenica 18 marzo 2012
L’emergenza non è finita, di Francesco Giavazzi
Nell’audizione alla Camera sulle liberalizzazioni, il presidente del Consiglio ha giustamente ricordato ai deputati della Lega Nord che la riduzione dello spread fra Italia e Germania, ieri sceso a quota 282, non è solo merito della Bce: una parte non piccola riflette la fiducia di cui gode il governo nei mercati finanziari internazionali. Paradossalmente è proprio questa fiducia il nostro maggior fattore di rischio. Innanzitutto perché ha fatto venire meno l’urgenza. In dicembre il decreto salva Italia fu varato dal governo e approvato dal Parlamento in due settimane. Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, il presidente del Consiglio annunciò che liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro sarebbero state varate entro gennaio.
Siamo a metà marzo: il decreto sulle liberalizzazioni attende ancora la definitiva approvazione da parte del Parlamento e le norme sul mercato del lavoro non sono state ancora portate in Consiglio dei ministri. Non è solo una questione di calendario. Più i tempi si dilatano, più le corporazioni che con queste norme si vorrebbero colpire riescono a organizzarsi per evitarle. Il decreto cresci Italia ne è l’esempio. Il provvedimento che verrà approvato è un’immagine molto sbiadita dell’afflato liberista che ispirò il primo testo del governo. Valga per tutti il compromesso sulla separazione della rete di distribuzione dal gas dall’Eni: dovrà avvenire non prima del settembre 2013, quando questo governo non ci sarà più. Al prossimo sarà sufficiente un decreto di poche righe per cancellare tutto. Come fa un investitore che deve scommettere su un cambio di passo dell’Italia a fidarsi? La fiducia sta creando le condizioni per la sua stessa dissoluzione.
Il risveglio potrebbe essere brusco. Mentre il governo continua a costruire i propri programmi sull’ipotesi che l’economia nel 2012 si contragga dell’ 1 per cento, il Fondo monetario internazionale prevede un -2,2% e i maggiori investitori internazionali una forchetta fra -2%, nell’ipotesi più favorevole, e -4% in quella meno favorevole, con una mediana di -3%. Con questi numeri il deficit rimarrà sopra il 4% del Pil e il debito ricomincerà a crescere. Come lo spieghiamo a quegli stessi investitori e ai nostri partner tedeschi, ai quali abbiamo ripetutamente promesso il pareggio di bilancio nel 2013? C’è un solo modo per uscire da questo guaio. Convincerli che la recessione del 2012, per quanto grave, è un fatto transitorio e che le norme che stiamo approvando segneranno davvero un cambio di passo. Bruciata, purtroppo, la carta delle liberalizzazioni, rimane solo la riforma del mercato del lavoro.
Il ministro Fornero ha pronto un testo incisivo, che prevede da subito interventi volti a eliminare la segmentazione tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, e che modifica immediatamente l’articolo 18 per i nuovi assunti. Su queste norme si gioca il futuro del governo e del Paese. Se le pressioni corporative o i suoi colleghi ministri dovessero chiederle un passo indietro, Elsa Fornero dovrebbe, con lo stile e la determinazione che la caratterizzano, abbandonarli al loro destino.
http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_17/giavazzi_emergenza_non_finita_fa7eaa9c-6ffb-11e1-a5a4-3511fb610746.shtml
sabato 17 marzo 2012
Una dedica a mia moglie, di Thomas Stearns Eliot
"Una dedica a mia moglie.
A cui devo la gioia palpitante
che tiene desti i miei sensi nella veglia,
e il ritmo che governa il riposo nel sonno.
Il respiro comune
di due che si amano, e i corpi profumano l’uno dell’altro,
che pensano uguali pensieri
e non hanno bisogno di parole
e si sussurrano uguali parole
che non hanno bisogno di significato.
L’irritabile vento dell’inverno non potrà gelare
il rude sole del tropico non potrà mai disseccare le rose,
nel giardino di rose che è nostro ed è nostro soltanto.
Ma questa dedica è scritta affinchè altri la leggano:
sono parole private che io ti dedico in pubblico."
Bernanke: «l'Europa esempio da non seguire»
«L'Europa è un esempio di cosa succede se le questioni di bilancio non vengono affrontate»: lo ha detto il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, intervenendo in audizione al Congresso americano. Una volta che i mercati hanno perso fiducia nella capacità del governo di mantenere la sostenibilità fiscale, ha aggiunto Bernanke, ci sono vari rischi, e «il caso più estremo è una crisi finanziaria come quella che si è vista in alcuni Paesi europei». Anche in assenza di risultati così drastici, «alti livelli di debito e deficit nel lungo termine portano i tassi sopra i livelli a cui normalmente dovrebbero essere - ha poi aggiunto il numero uno della Fed - e questo è un male per la crescita e la produttività», motivo per cui «è necessario risolvere questa questione».
Secondo Bernanke, in Europa sono stati compiuti vari passi «costruttivi», ma rimangono problemi a livello fiscale e finanziario «la cui soluzione richiede azioni congiunte da parte delle autorità europee». Bernanke ha tuttavia espresso preoccupazione per il fatto che nel Vecchio Continente si possa fare ricorso solo a misure di austerity per contenere la crisi: «ulteriori passi saranno necessari per sostenere la crescita e la competitività in vari Paesi», ha detto.
Ripresa incerta
Nonostante i segnali positivi provenienti dal mercato del lavoro, la ripresa economica rimane incerta, ha detto ancora il presidente della Fed al Congresso. «Tuttavia, nel 2012, la crescita dell'economia dovrebbe accelerare leggermente rispetto al ritmo del secondo semestre 2011 - ha aggiunto il numero uno della Banca centrale americana -: bisogna monitorare i dati macroeconomici per stabilire l'entità della ripresa».
Bernanke ha poi sottolineato che i prezzi crescenti della benzina potrebbero sostenere l'inflazione e ridurre il potere d'acquisto dei consumatori temporaneamente, ma non nel lungo periodo. E, per quanto riguarda le politiche monetarie, non esclude un terzo round di misure di stimolo economico. «La politica accomodante della Fed è in linea con gli obiettivi dell'istituto di mantenere stabili prezzi e occupazione», ha spiegato Bernanke, confermando le stime per il 2012: crescita economica tra il 2,25 e il 2,7 per cento e inflazione tra l'1,4 e l'1,8 per cento.
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-29/bernanke-europa-esempio-seguire-171718.shtml?uuid=AalVxpzE
venerdì 16 marzo 2012
Oggi il Glasgow Rangers potrebbe fallire. Scomparirebbe uno dei club più antichi del mondo, di Simone Trebbi
La fine del calcio?
Ballare sul corpo dei rivali è una macabra usanza, che affonda le proprie radici in una insospettabile tradizione popolare che tuttora aleggia tra Scozia e Inghilterra. L'uggiosa Glasgow è la metafora perfetta di un dualismo innato, una separazione così netta da essere avvertita a ogni angolo d'osservazione, soprattutto quando a scendere in campo sono le due squadre cittadine e il calcio diventa di colpo l'apparente effimero dal quale chiunque ama lasciarsi sedurre.
L'atmosfera mistica e pregna di magia, pietra miliare della tradizione celtica, rischia però di scomparire definitivamente.
Uno dei club calcistici più antichi del mondo è stato fondato proprio in quel di Glasgow, sponda Rangers, nel lontano 1872. La squadra, ora, si trova a dover affrontare una pessima amministrazione, che per aggiudicarsi giocatori poi rivelatisi molto spesso sopravvalutati, ha messo sul piatto ingaggi mastodontici in relazione alle proprie possibilità. All'erario britannico, inoltre, spettano circa 90 milioni di euro: se entro oggi i Rangers non troveranno un acquirente disposto a farsi carico dei debiti, il mondo del calcio dovrà rinunciare alla squadra da cui tutto – o quasi – ebbe inizio il secolo scorso.
E sebbene si fosse fatto il nome di Brian Kennedy (già proprietario dei Rangers Rugby), l'uomo ha confessato candidamente "di non voler comprare il club, ma di non poter vedere i Rangers morire". Le quotazioni di un possibile fallimento continuano a levitare, poichè i soldi hanno poco senso della storia e tendono ad essere auto referenziali. Anche i tifosi dei bianco-verdi Celtics hanno fiutato l'evento, tanto da esordire con entrate scenografiche durante le partite casalinghe al grido di "balleremo la conga / quando i Rangers moriranno". I Celtic non sembrano consapevoli che la mancanza d'una squadra riduce inevitabilmente il senso specifico dell'altra; parafrasando il celebre motto ispanico del Barcellona riprodotto sulle gradinate del Camp Nou, entrambe le società sono "mès que un club", molto più di una pur leggendaria storia calcistica.
Rangers e Celtic incarnano infatti una rivalità che esula dalla mera competizione sportiva, sfociando in principi etici, religiosi e politici radicalmente differenti. I Blue Knights, i cavalieri dei Glasgow Rangers, sono nati da un'idea che coinvolse nel 1872 più fondatori, dai fratelli McNeil a Peter Campbell. Rappresentano in tutti gli aspetti l'animo filomonarchico che lega ancora ben più di uno scozzese, compreso il forte sentimento religioso protestante e conservatore. I Celtic, che presero vita nel 1888 da uno sconosciuto uomo religioso di origini irlandesi, oggi sono l'espressione della parte cattolica di Glasgow, anche detta nostalgicamente – con richiamo al fondatore – "anima d'Irlanda", impermeandosi ai valori conservatori con un progressismo che vede nella Scozia secessionista una battaglia divina e voluta dall'alto.
Il tessuto sociale di Glasgow è intimamente connesso alle tematiche pubbliche e storiche rappresentate dai due club rivali, tanto che in seguito a numerosi episodi di violenza e tensione, il Parlamento scozzese ha votato una legge che vieta espressamente ai tifosi dei Rangers e dei Celtic di esprimersi pubblicamente (con cori, ad esempio) su temi quali religione e sovranità nazionale. Da non sottovalutare anche l'atteggiamento dei tifosi dei Celtic, che meglio di mille filosofie racconta la Glasgow calcistica: la rivalità è talmente accesa che anche in una crisi quasi irreversibile come quella dei Rangers, mai l'agonismo lascia posto ad un qualche sentimento simile alla pietà. Se è vero che le grandi perdite vengono metabolicamente soppesate, i Celtic si troveranno a far fronte a una perdita impagabile, rinunciando a quella competitività che è sempre stato il timone ed il motore della mitica Old Firm, forse il derby calcistico con più tradizione e storia al mondo.
http://www.ilfoglio.it/soloqui/12705
La vita è sempre un dono meraviglioso
L’episcopato cattolico in Argentina su una recente decisione della Corte Suprema di Giustizia
«Non c’è nulla che possa giustificare l’eliminazione di una vita innocente». L’episcopato cattolico in Argentina torna con forza a ribadire la ferma opposizione alla diffusione dell’aborto, in una dichiarazione del presidente, l’arcivescovo di Santa Fe de la Vera Cruz, monsignor José María Arancedo, a commento della recente decisione della Corte Suprema che ha ratificato una sentenza emanata da un tribunale distrettuale con la quale si riconosce la possibilità, senza alcuna eccezione, di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza per le donne vittime di violenze sessuali. Il presule, che ha anche avuto un incontro con il presidente della Corte Suprema, Ricardo Lorenzetti, ha aggiunto, al termine del colloquio, che si tratta di una decisione che «indebolisce la difesa della vita e che ora praticare un aborto è più facile». La Corte Suprema, in particolare, ha ratificato la sentenza di un tribunale della provincia settentrionale di Chubut che riguarda il caso di una minorenne vittima di abusi familiari. Il Codice penale argentino stabilisce che l’aborto non è punibile se la gravidanza è frutto di atto commesso contro una donna affetta da disturbi mentali o nei casi in cui sia a rischio la vita o la salute della donna, ma nello specifico è stata riconosciuta dal tribunale la legittimità della volontà di abortire anche in assenza di disturbi mentali della minorenne.
L’aborto nel Paese continua comunque a essere illegale, salvo in alcuni casi specifici e i medici che non rispettano la legge sono punibili con il carcere, tuttavia si osserva che la ratifica da parte della Corte Suprema consente ora di accogliere nella giurisprudenza il principio che l’aborto causato da abuso è legittimo in ogni caso. Dall’episcopato — riferisce l’agenzia Aica — si esprime sorpresa per la decisione dell’organo supremo di giustizia che di fatto legalizza l’aborto frutto di violenza sia nel caso si tratti di donne sane che affette da disturbi mentali. Nella dichiarazione del presidente della Conferenza episcopale si sottolinea che «l’aborto è la soppressione di una vita innocente e non esiste alcun motivo o ragione che giustifichi l’eliminazione di una vita innocente, neppure nel caso triste e deplorevole di violenza». Dall’episcopato, inoltre, si richiama il messaggio pubblicato lo scorso agosto dalla commissione permanente in occasione dell’Anno della vita che si è celebrato nel 2011.
I vescovi ribadiscono che è assolutamente prioritario proteggere le madri, soprattutto quelle che si trovano in uno stato di emarginazione sociale o di gravi difficoltà al momento della gravidanza». La vita, è aggiunto nel messaggio, «è un meraviglioso dono di Dio e che rende possibili tutti gli altri beni umani». Secondo i presuli quando una donna è incinta non si parla di una sola vita, ma di due: quella della madre e quella del nascituro. «Entrambi — si puntualizza — devono essere tutelati e rispettati. La biologia lo indica in modo sorprendente: lo si vede attraverso il dna, con la sequenza del genoma umano, che mostra come dal momento del concepimento ci sia una nuova vita umana, che deve perciò essere protetta giuridicamente. Il diritto alla vita è il diritto umano fondamentale».
I vescovi si dicono anche disponibili «ad ascoltare, seguire e capire ogni situazione, assicurando che tutte le parti sociali interessate siano corresponsabili nella tutela della vita sia per il bambino sia per la madre e siano rispettati, senza cadere in scelte false. L’aborto non è mai una soluzione». E nel concludere, fra l’altro, auspicano: «Siamo convinti che non possiamo costruire una nazione per tutti, se nel nostro progetto di Paese non prevale il diritto primario di tutti, senza eccezione: il diritto alla vita dal concepimento, proteggendo la vita della madre incinta, fino alla morte naturale. Dobbiamo trovare il modo di vigilare sulla vita della madre e del bambino non ancora nato».
Il Presidente della Corte Suprema, Ricardo Lorenzetti, ha tenuto a sottolineare che la sentenza «non apre la strada» alla legalizzazione dell’aborto, su cui può pronunciarsi solo il Parlamento. Da parte sua, il ministro della Giustizia, Julio Alak, ha dichiarato che il Governo non ha nessuna intenzione di presentare una legge che legalizzi l’aborto, sottolineando che si tratta di «una questione che richiede un approfondito dibattito». Tuttavia, a seguito della decisione, è spiegato «i medici non avranno più bisogno dell’approvazione dei tribunali. Dovranno solo avere una dichiarazione delle vittima o del suo legale in cui si afferma che la gravidanza è l’esito di una violenza». Dalla Corte Suprema si puntualizza anche che la decisione «ha posto fine ad alcune incertezze in merito all’applicazione della legge» e che le vittime di abusi «non possono essere esentate dall’esercitare i loro diritti». La decisione della Corte è sostenuta da diverse organizzazioni e istituti. Secondo alcune stime in Argentina ogni anno vengono praticati circa 500.000 aborti. Numerose sono le donne che muoiono, soprattutto le più povere e le più giovani, che si sottopongono alla pratica in condizioni spesso di degrado. L’aborto clandestino è la prima causa di morte materna: dal 1983 a oggi sono morte oltre tremila donne.
http://www.osservatoreromano.va/portal/dt?JSPTabContainer.setSelected=JSPTabContainer%2FDetail&last=false=&path=/news/religione/2012/064q12-La-vita---sempre-un-dono-meraviglioso.html&title=La%20vita%20%C3%A8%20sempre%20%20un%20dono%20meraviglioso&locale=it
giovedì 15 marzo 2012
Legalità e crescita le scelte urgenti, di Michele Salvati
LA LEGGE CONTRO LA CORRUZIONE
Non ci sono stati accordi espliciti, al momento della formazione del
governo Monti, sui problemi che dovevano essere esclusi dal suo raggio
d’azione. I partiti che lo sostengono avevano riconosciuto che il
compito prioritario del governo era ed è quello di rimediare alla
disastrosa situazione in cui eravamo precipitati, sia di natura
economica, sia di credito internazionale. Ma da ciò consegue che, sulle
misure più idonee a raggiungere quell’obiettivo, la discrezionalità del
governo dev’essere molto ampia. Una buona occasione per esercitare
questa discrezionalità e segnalare il proprio orientamento è il ddl
sulla corruzione, in discussione alla Camera dopo essere già stato
approvato al Senato sotto il precedente governo: avendo alcuni partiti
presentato emendamenti che configurano nuove fattispecie di reato,
allungano i termini di prescrizione o introducono misure accessorie, il
Pdl non soltanto annuncia la sua opposizione, com’è perfettamente
legittimo, ma implicitamente consiglia il governo di tenersi fuori da
questa materia. Due osservazioni soltanto. La prima è che corruzione e
illegalità sono problemi gravissimi per il nostro Paese, dai quali
dipendono la sua insoddisfacente crescita economica e il suo scarso
credito internazionale. La seconda è che, proprio per questo, il governo
Monti non deve manifestare alcuna incertezza in proposito: la lotta
sarà lunga, ma bisogna partire con misure incisive e con una road map
ben definita.
Nella classifica di Transparency International l’Italia occupa un
posto incredibilmente basso. L’indice da 10 (corruzione minima) a 0
(corruzione massima) vede in testa per il 2011 Danimarca e Finlandia con
9,4; vede nella parte alta (tra il 7 e l’8) i grandi Paesi europei;
vede in coda la Somalia, con 1. L’Italia, con 3,9 è di poco superiore ai
Paesi europei più corrotti, Romania e Grecia, a pari livello del Ghana e
inferiore a molti Paesi in via di sviluppo. Sull’affidabilità di questo
indice e su molte altre questioni rinvio a Donatella della Porta e
Alberto Vannucci, Mani Impunite (Laterza, 2007), il migliore studio
d’insieme sulla corruzione in Italia per un lettore non specialista. Tre
conclusioni. Si tratta di un fenomeno di antica data, ma che da Mani
Pulite in poi, con qualche oscillazione, è sempre stato al centro
dell’opinione pubblica. La corruzione, e più in generale l’illegalità,
la criminalità e l’inefficienza amministrativa — tutti fenomeni
strettamente collegati — sono ostacoli formidabili alla crescita
economica e al benessere della popolazione, oltre che una grave lesione
della qualità della democrazia e della convivenza civile. Le iniziative
di contrasto adottate sono state numerose, ma tutte caratterizzate da
scarso successo. Insomma, la corruzione in Italia è massiccia, molto
dannosa, di essa sappiamo molto ma non riusciamo a estirparla.
Non è per nulla vero che la corruzione sia un destino inevitabile,
inflittoci dalla nostra storia. La lotta alla corruzione conosce
successi straordinari: esemplare è quello di Singapore, passato in
quarant’anni da uno dei Paesi più corrotti al mondo alla testa
dell’indice di Transparency International, a pari merito con le piccole
democrazie nordiche europee (e passato, sia detto per inciso, dalla
miseria ad un reddito pro capite superiore a 43.000 dollari).
Il confronto con Singapore è per molte ragioni improponibile, prima
tra tutte il fatto che Singapore è una democrazia, diciamo
così,…fortemente autoritaria. Ma valgono anche per l’Italia alcune
considerazioni che da quel confronto si possono trarre. La prima è che
il successo arride ai Paesi che hanno fatto della lotta alla corruzione
un obiettivo prioritario, condiviso dall’intera élite politica e
istituzionale. Tale obiettivo dev’essere sostenuto per un periodo molto
lungo: quarant’anni sono pochi da un punto di vista storico, ma
moltissimi da un punto di vista politico, in democrazia, dove ogni
cinque anni o meno possono cambiare i governi. La lotta alla corruzione
deve articolarsi a 360 gradi, sull’intero spazio dei possibili
interventi dell’autorità politica e delle istituzioni. I controlli di
natura non giudiziaria devono essere coordinati centralmente da
un’autorità dotata di ampi mezzi e grandi poteri, responsabile di fronte
alle supreme autorità politiche per i risultati che consegue. E poi,
quando la magistratura interviene, il governo non deve opporsi alla sua
attività di indagine: governo e magistratura devono operare nella stessa
direzione, quella di una lotta inflessibile contro la corruzione e
l’illegalità.
Il ddl oggi in discussione alla Camera è limitato nei suoi scopi e
assai lontano dalla consapevolezza di che cosa sia necessario per
impostare un serio contrasto a questa intollerabile «peculiarità»
italiana. Per questo è auspicabile non soltanto che il governo respinga
come inaccettabili i richiami all’inopportunità o incompetenza a
intervenire in materia — ciò che Monti ha già fatto — ma che tragga
spunto dalla discussione in Parlamento per indicare i cardini essenziali
della road map di lungo periodo che dovrà essere adottata. Il voto
quasi unanime di ratifica della Convenzione di Strasburgo sulla
corruzione, ieri sera al Senato, pone fine ad un grave ritardo (la
Convenzione è del 1999) e fa sperare che ci siano minori resistenze ad
un intervento del governo sul ddl in discussione alla Camera.
http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_15/salvati-legalita-crescita-scelte-urgenti_37912bbc-6e67-11e1-850b-8beb09a51954.shtml
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