martedì 13 marzo 2012

Che senso ha restare a Kabul fino al 2014?, di Vittorio Emanuele Parsi

Soldati americani che «impazziscono» e massacrano civili inermi per difendere i quali sono stati inviati in Afghanistan: è successo l’altroieri a un sergente maggiore dei marines. Militari afghani che sparano e uccidono i soldati di Isaf che li stanno addestrando: è capitato a inglesi e americani due volte nel corso degli ultimi dieci giorni.

Copie del Corano che vengono bruciate per sciatta negligenza provocando violente manifestazioni e assalti ai compounds alleati in cui muoiono decine di afghani: è accaduto nel corso dell’ultimo mese. Droni che ammazzano persone a casaccio nel tentativo di eliminare questo o quel capobanda: si verifica ciclicamente, non a Gaza, ma in Afghanistan e in Pakistan.


Sono tutti episodi - tanti, troppi - che sembrano confermare lo stesso amaro dubbio: che la condizione della sicurezza in Afghanistan stia rapidamente peggiorando, al punto che in molti si chiedono se sia realistico pensare di ritirare il grosso delle truppe straniere dal Paese entro il 2014, come la Nato ha annunciato di voler fare da oltre un anno.


Ieri anche la voce della Cancelliera Angela Merkel, in visita alla grande base tedesca di Mazar El Sharif nel Nord del Paese, si è unita a questo coro.


Eppure, la domanda «giusta» sarebbe un’altra: in queste condizioni, che senso ha tirare fino al 2014? Non sarebbe più saggio, prudente ed efficace accelerare i tempi, prendendo atto del sostanziale fallimento - politico oltre che militare - di più di dieci anni di campagna? La guerra afghana ha infatti messo in evidenza tanto errori politici quanto errori militari. Per dirla con von Clausewitz, il continuo cambiamento dello scopo politico della guerra (Zweck) ha reso impossibile fissare per l’azione militare degli obiettivi (Ziel) che potessero essere qualificati come successi decisivi. Dal 2001, la campagna afghana ha visto l’affastellarsi di un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine. Obiettivi da perseguire anche quando diventavano oggettivamente incompatibili tra loro: come il sostegno assoluto a Karzai e la trasparenza dei processi elettorali o la lotta alla corruzione.


In oltre dieci anni, possiamo dire di aver realizzato una minima parte di questo ambizioso, articolato e mutevole programma: bin Laden è morto, Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti insorgenti sono stati fisicamente eliminati. È vero. Ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella parte di popolazione che aveva salutato con speranza (se non proprio fiducia) l’intervento occidentale ci sta girando le spalle. Non a caso, il «mentoring e il training» delle forze di sicurezza locali si sta dimostrando fallimentare proprio per il crescere della diffidenza e insofferenza reciproca tra reclute afghane e militari della coalizione, percepiti sempre di più come l’ennesima forza di occupazione da parte della popolazione. Osservava il generale inglese Rupert Smith, che la «guerra tra la gente» (quella tipica a partire dagli Anni 90) richiede professionisti preparati, flessibili e versatili, lo stesso previsto dal «comprehensive approach» ideato da Petraeus e sostenuto dagli alti papaveri del Pentagono e della Casa Bianca: pensando al «sergente impazzito» di domenica scorsa e alla quantità crescente di «incidenti» che coinvolgono i militari americani viene da chiedersi se non ci sia qualcosa da cambiare nelle pratiche di selezione e addestramento delle forze armate Usa, che in Afghanistan si sono trovate a perdere proprio la battaglia per la conquista «del cuore e della mente della popolazione».


Dal punto di vista etico, è amaro doversi lasciare alle spalle «un altro Iraq», avendo alimentato e poi deluso le aspettative di milioni di afghani, a cominciare dalle donne, che perderanno quei pochi diritti «conquistati» durante la presenza alleata. Ma se occorre rivedere radicalmente la strategia, prima se ne prende atto e meglio è per tutti. Probabilmente abbiamo iniziato a perdere la guerra in Afghanistan quando non siamo riusciti ad assicurarci l’effettiva e leale collaborazione del Pakistan, che ha protetto e alimentato l’insorgenza quando era più debole e più vicina alla sconfitta, con l’obiettivo politico (Zweck) di continuare a esercitare la sua egemonia sul Paese vicino. La beffa è che Islamabad ha applicato la lezione di von Clausewitz meglio di Washington e ha probabilmente vinto la «sua» guerra. Così, nel 2014 -13 anni e decine di migliaia di morti dopo - proprio il Pakistan tornerà a essere il vero arbitro assoluto dei destini afghani: esattamente come quando a Kabul regnava il mullah Omar…


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