sabato 3 marzo 2012

L’Europa si sveglia (forse) dal torpore moralista che deprime la crescita, di Marco Valerio Lo Prete

I Vertici non finiscono mai


Gli stati dell’Ue firmano il Patto fiscale rigorista, ma poi accolgono gli input liberalizzatori di Monti & Cameron

Dal 15 settembre 2008, cioè dal giorno del crac della banca d’affari americana Lehman Brothers che ha simbolicamente segnato l’inizio della crisi globale, il Consiglio dei capi di governo dell’Ue si è riunito venti volte. E soltanto al ventunesimo vertice, terminato ieri, il dibattito sulla crescita è parso sovrastare l’enfasi rigorista che finora era dominante. Dopo aver firmato il Fiscal compact – ovvero il Trattato intergovernativo che entrerà in vigore dopo la ratifica di 12 paesi e che consiste essenzialmente in una lista di nuovi vincoli sui conti pubblici nazionali – i leader europei riuniti a Bruxelles hanno infatti discusso a lungo di sviluppo e occupazione: “Finalmente guardando in faccia questi fenomeni, e non solo ‘spread’, ‘prior actions’, ‘Psi’ (coinvolgimento del settore privato nelle perdite degli stati), sigle che richiamano esami medici”, ha chiosato il premier italiano Mario Monti. Che poi ha aggiunto: “Fa veramente piacere che, per la prima volta da due anni in qua, il Consiglio non sia stato dominato da questioni relative alla crisi finanziaria”. Quanti degli impegni sviluppisti si trasformeranno in azioni concrete per rilanciare il pil è ancora da vedere, eppure una svolta è percepita anche dalla Commissione Ue: “Finalmente non si tratta di un richiamo soltanto formale – dice al Foglio Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione e responsabile dell’esecutivo di Bruxelles per Industria e imprenditoria – E’ la presa d’atto che dalla crisi si esce soprattutto grazie al rafforzamento di industria e del mercato interno”.


La necessità di ripianare i conti pubblici ovviamente non esce di scena, soprattutto dopo che il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, ha annunciato che il suo paese intende sforare di circa 15 miliardi di euro l’obiettivo di rientro del deficit fissato dal precedente governo per il 2012 (da un rapporto deficit-pil del 4,4 per cento al 5,8). Eppure è evidente che gli effetti della “lettera dei 12” capi di governo del 20 febbraio scorso, promossa da Monti insieme a David Cameron (Regno Unito), intitolata “Un piano per la crescita in Europa”, si fanno sentire. L’austerity suggerita (e imposta) da Berlino non è più l’unica ricetta a disposizione sul tavolo.
Infatti, nel comunicato finale del vertice a 27, ci sono molti dei punti chiave di quella missiva dei 12. A partire dall’esigenza dichiarata di “portare il Mercato unico a un nuovo stadio di sviluppo”, formula praticamente identica a quella usata due settimane fa da Cameron & co. Seguono poi riferimenti al mercato unico digitale da completare entro il 2015, al mercato unico per il settore energetico, alla riduzione del fardello burocratico, all’importanza di innovazione e ricerca. Non sfugge invece l’assenza di un qualsiasi accenno alle “riforme del mercato del lavoro”, giudicate come “una priorità” da Monti, Cameron e Rutte, mentre dai più europeisti è salutata con favore l’apertura ai “project bond” per finanziare infrastrutture comuni.


A Bruxelles, d’altronde, c’era chi sosteneva da tempo una parziale correzione di rotta rispetto alla sola inflessibilità sui conti pubblici: “La Commissione è in sintonia con quella missiva dei 12 capi di governo”, spiega Tajani. Non a caso lui stesso la prossima settimana presenterà al presidente José Manuel Barroso “un decalogo per la crescita”. In comune con i 12 “volenterosi” Tajani preme per l’integrazione del mercato interno; con le conclusioni del summit di ieri è invece d’accordo sull’utilizzo di project bond (per infrastrutture strategiche come il progetto di navigazione satellitare Galileo). Il commissario italiano aggiunge poi che “l’Europa può diventare leader della ‘terza rivoluzione industriale’, grazie a un grande piano di finanziamento a tassi agevolati garantito con fondi della Banca europea per gli investimenti (Bei)”. Non solo: “Si tratta di garantire un maggiore accesso ai capitali per le piccole e medie imprese del continente, contemporaneamente sgravandole dell’eccessiva burocrazia grazie alla riduzione del 25 per cento degli oneri amministrativi entro il 2015”. L’uscita dalla crisi però passa anche per una “svolta di tipo legislativo” che assegni a Bruxelles “poteri politici” di intervento, non solo sui conti pubblici, “ma a tutela dell’interesse generale anche su liberalizzazioni e competitività delle economie nazionali”. Italia e Regno Unito sembrano starci, ma cosa ne pensano Berlino e Parigi?

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