domenica 19 febbraio 2012

Attaccare il debito (ma di brutto), di Antonio Pilati

Otto anni dopo la “riflessione inquietante” di Guarino sul bilancio pubblico, l’Italia è schiacciata tra la sua fragilità e insostenibili compiti a casa. Una via per uscirne, senza creare nuove Iri (possibilmente)


Il 6 agosto 2004 il Corriere della Serapubblica in evidenza un’analisi di Giuseppe Guarino con un titolo che oggi, a quasi otto anni di distanza, appare molto attuale: “Il debito pubblico? Serve una cura choc. E’ il vero freno dell’economia italiana”. Il sommario auspica “un impegno bipartisan per accelerarne la discesa”. Ma è il contenuto che, in alcuni passaggi, fa impressione: “Nel sistema comunitario gli stati membri non sono tenuti ad aiutarsi reciprocamente. Sono legittimati a trarre profitto dalle difficoltà degli altri. In 20 anni le nostre residue imprese maggiori o le migliori banche potrebbero passare sotto controllo estero. La causa cronica che debilita l’economia italiana è il debito. (…) Siamo prossimi a un punto di non ritorno. Anziché insistere con il metodo di sottoporre ancora per anni la collettività a salassi annuali dell’ordine di 20-30 miliardi di euro senza che se ne intravvedano benefici va valutato se non sia di maggior vantaggio incidere sul debito con tecniche che non comportano oneri né per il cittadino né per le imprese”.

Negli anni in cui cessa l’uso delle monete nazionali e i confronti di competitività con i paesi dell’euro sono all’ordine del giorno, il tema del debito pubblico cattura l’attenzione politica. Nel marzo 2002 Tremonti, ministro dell’Economia, vara Patrimonio s.p.a. che forma un veicolo flessibile dove concentrare, in vista della dismissione, una parte di rilievo degli immobili pubblici. Nel 2003 è redatto, secondo gli standard internazionali, il primo stato patrimoniale del settore pubblico che fa emergere un rapporto patrimonio/pil pari al 137 per cento (valore più alto di quello medio dei partner europei). Il Documento di programmazione economica finanziaria (Dpef) 2004, seguendo indicazioni Ue, prevede per il debito una riduzione di due punti percentuali annui durante il quadriennio che chiude al 2008. Guarino completa la sua analisi con una proposta radicale (realizzare un’operazione finanziaria in grado di portare rapidamente il rapporto debito/pil almeno sotto la soglia del 90 per cento) che è presentata nell’ottobre 2005 a una giornata di riflessione su “Debito pubblico e competitività” organizzata da Nexus (un’associazione di cultura politica promossa da Enrico Manca).

L’idea parte da “una riflessione inquietante”: “La spirale ascendente del debito è destinata a prodursi a partire da qualsiasi momento, indipendentemente dal livello del rapporto debito/pil che sia stato raggiunto, quando concorrano le due condizioni della crescita insufficiente dell’economia e della insussistenza di risorse ulteriori. La circostanza che lo stato si dimostri incapace di arrestare l’ulteriore deterioramento del rapporto debito/pil potrebbe costituire un preannuncio di bancarotta. La gravità delle conseguenze deve indurre a molta prudenza quando si ipotizza che tra quattro o cinque anni, per effetto della ripresa dell’economia mondiale, o di quella comunitaria o di quella dell’Italia in particolare, il problema potrebbe risolversi da sé. Se queste attese andassero deluse e se nel frattempo si fossero bruciate le ultime risorse disponibili, lo stato di default sarebbe inevitabile”.

Con la fine della legislatura 2001-2006 il tema del debito scivola in secondo piano: la congiuntura migliora, declina l’enfasi sulle grandi opere pubbliche (da finanziare per qualche via), cambia il governo. La strategia standard, che prevede l’erosione del debito con graduali avanzi annui suscitando i timori di Guarino (con i piccoli passi si finisce sempre, al primo refolo di vento, per tornare indietro), riprende a dominare: il controllo rigoroso dei conti (Padoa-Schioppa prima, Tremonti poi) ridà sicurezza, fa scendere di qualche punto il rapporto debito/pil e vela la fragilità di fondo.
La debolezza strutturale però non è sanata e anzi due processi che guadagnano forza nella seconda metà del decennio la aggravano. Da un lato aumenta, fino a raggiungere il 40 per cento del totale, la quota del debito italiano detenuta da soggetti esteri: ciò implica un deflusso netto di capitali e assoggetta il costo del debito a valutazioni poste fuori dalla sfera d’influenza dell’emittente statale. Dall’altro lato cresce nell’area dell’euro, complicandone sia il governo sia la razionalità sistemica, la divergenza d’interessi tra gli stati membri, acuita dalla barocca sovrapposizione delle norme. Quando nel 2008 la crisi finanziaria tramuta la brezza in tempesta e il dissolvimento di fiducia, dopo le banche, investe gli stati che per salvare il sistema del credito dilatano il debito, gli elementi profondi di fragilità del nostro bilancio pubblico rimbalzano in primo piano, con un aspetto ancora più drammatico di quello mostrato negli anni in cui Guarino formulava la sua diagnosi predittiva.

Le divergenze all’interno dell’Eurozona portano prima ad ammettere – durante la disputa sul salvataggio della Grecia – e poi a teorizzare che gli stati membri, per i quali fino a poco tempo prima il rischio sul debito era stimato pari a zero, sono suscettibili di default. Ciò si riflette duramente sui titoli italiani: cresce il rischio percepito, le agenzie di rating segnalano allarme, i detentori esteri escono, s’innalza il premio richiesto: comincia la danza degli spread. Il tocco finale lo dà la bulimia normativa dell’Ue: appare una buona idea, nell’estate degli spread, aggiungere al tradizionale vincolo sul deficit (che non deve superare il 3 per cento annuo; ma noi ci siamo impegnati dal 2013 al pareggio) anche un obbligo relativo al debito: i paesi che, come l’Italia, hanno un rapporto debito/pil superiore alla soglia ammessa del 60 per cento sono tenuti a ridurre l’eccedenza di 1/20 all’anno.

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