venerdì 3 febbraio 2012

Ma non dovevamo morire di caldo?

L’appello di 16 scienziati contro il panico da global warming



Questo appello, firmato da 16 scienziati, è stato pubblicato dal Wall Street Journal venerdì 27 gennaio.

A un candidato a un incarico pubblico in una qualunque democrazia contemporanea può capitare di dover esprimere una posizione sul “global warming”. Sappia che l’affermazione, spesso ripetuta, secondo la quale gli scienziati chiedono decisioni nette e risolute per fermare il riscaldamento globale, non è vera. Di fatto, c’è un numero sempre più largo di ingegneri e autorevoli scienziati che non credono alla necessità di azioni drastiche contro il riscaldamento globale. A settembre, il premio nobel per la Fisica Ivar Giaever, sostenitore del presidente Obama alle ultime elezioni, è uscito dall’American Physical Society (Aps) con una lettera pubblica che inizia così: “Non rinnovo (la mia iscrizione) perché non posso rassegnarmi a convivere con il vostro manifesto: ‘Le prove sono incontrovertibili: il riscaldamento globale è in atto. Se non si prendono decisioni per mitigarne gli effetti, si assisterà con ogni probabilità a sconvolgimenti nei sistemi ecologico e fisico della Terra, nei sistemi sociali, nella sicurezza e nella salute degli uomini. Dobbiamo ridurre le emissioni di anidride carbonica a partire da ora’. Com’è che l’Aps è disponibile a discutere se la massa del protone cambi col passare del tempo o come si comporta un multi-universo ma ritiene le prove del riscaldamento globale incontrovertibili?”. Nonostante una campagna più che decennale per far passare il messaggio che l’aumento dell’“inquinante” anidride carbonica distruggerà la nostra civiltà, un largo numero di scienziati, tra cui molti studiosi illustri, sono d’accordo con il professor Giaever. E il numero degli “eretici” scientifici sta aumentando ogni anno che passa. La ragione è presto detta: l’accumularsi di testardissimi fatti scientifici.

Forse il fatto più inopportuno è l’effettiva assenza di riscaldamento globale nell’ultima decina d’anni abbondante. Questo è noto anche all’establishment degli allarmisti, come si può vedere in una email del 2009 dello scienziato del clima Kevin Trenberth, all’origine del “Climategate”: “Il fatto è che non riusciamo a spiegare l’attuale assenza di riscaldamento, è una farsa che non possiamo reggere”. Ma il riscaldamento è assente soltanto se uno crede ai modelli computerizzati dove i cosiddetti feedback che considerano vapore acqueo e nubi esagerano ampiamente l’effetto minimo della CO2. La mancanza di riscaldamento per oltre un decennio, o meglio il riscaldamento inferiore rispetto alle previsioni sull’arco di quei 22 anni da quando la Commissione intergovernativa dell’Onu per il cambiamento climatico sta facendo le sue previsioni, suggeriscono che i modelli computerizzati hanno largamente esagerato l’effetto che la C02 può avere sul surriscaldamento. Di fronte a questi motivi di imbarazzo, i promotori dell’allarme hanno spostato il loro martellamento sugli estremi del clima, cercando di ascrivere alla CO2 qualunque fenomeno inusuale accada nel nostro caotico sistema climatico. Il fatto è che l’anidride carbonica non è inquinante. E’ un gas incolore e inodore, esalato in alte concentrazioni da ognuno di noi e componente chiave del ciclo di vita della biosfera. Le piante ricevono talmente tanti benefici dalla presenza della CO2 che nei vivai, spesso, si aumentano le concentrazioni di anidride carbonica di tre o quattro volte, per farle crescere più in fretta. Non è certo una sorpresa, visto che piante e animali si sono sviluppati quando le concentrazioni di CO2 erano almeno dieci volte quelle odierne. Migliori varietà di piante, i fertilizzanti chimici e una sapiente gestione dell’agricoltura hanno permesso il grande incremento dei prodotti agricoli nell’ultimo secolo, ma parte di quell’incremento è certamente dovuto anche alla presenza di maggiore anidride carbonica nell’atmosfera.

Anche se il numero degli scienziati che criticano apertamente gli allarmisti sta crescendo, molti giovani scienziati dicono sottovoce che, per quanto abbiano seri dubbi sul messaggio del “global warming”, temono di criticarlo in pubblico per paura di non essere promossi (o peggio ancora). Non hanno tutti i torti a preoccuparsi: nel 2003, il professor Chris de Freitas, direttore della rivista Climate Research, osò pubblicare un articolo che arrivava alla conclusione politicamente scorretta (ma fattualmente ineccepibile) che il recente aumento delle temperature non fosse inusuale, nel contesto dei cambiamenti climatici dell’ultimo millennio. L’establishment mondiale del “global warming” organizzò molto rapidamente una campagna per far rimuovere il professor De Freitas dalla direzione della sua rivista e per farlo licenziare dalla sua università. Fortunatamente, il professore è riuscito a mantenere il suo ruolo accademico.

Non è così che la scienza dovrebbe funzionare, ma sono dinamiche a cui abbiamo già assistito, per esempio, nel periodo terrificante in cui Trofim Lysenko dirottò lo studio della biologia nell’Unione Sovietica. I biologi sovietici che ammettevano di credere nei geni, che per Lysenko erano un’invenzione borghese, venivano prontamente licenziati. Molti di questi scienziati sono stati destinati ai gulag e alcuni di loro sono stati condannati a morte. Perché c’è così tanta animosità attorno al riscaldamento globale e perché la questione è stata esasperata al punto da portare l’Aps, dalla quale il professor Giaever è uscito pochi mesi fa, a respingere la richiesta apparentemente ragionevole di molti suoi membri, che volevano togliere la parola “incontrovertibile” dalla sua descrizione scientifica? Ci sono molte ragioni, ma un buon modo per cominciare ad affrontarle è la vecchia domanda “cui bono?”. O, nella sua riedizione moderna: “Follow the money”.

L’allarmismo climatico dà grandi benefici a molti, garantisce fondi governativi alla ricerca accademica e offre alla burocrazia statale un pretesto per espandersi ulteriormente. Gli allarmisti offrono anche una scusa per alzare le tasse – per dare sussidi alle aziende che capiscono come lavorarsi il sistema politico – e attirare donazioni sostanziose a fondazioni caritatevoli che promettono di salvare il pianeta. Lysenko e la sua équipe conducevano una vita agiata. Difendevano strenuamente i loro dogmi e i privilegi che gli avevano garantito. Parlando a nome di molti scienziati e ingegneri che hanno affrontato senza costrizioni, con attenzione e dedizione, alla scienza del clima, abbiamo un messaggio per tutti i candidati a cariche pubbliche: non c’è alcun argomento inoppugnabile che motivi la necessità di “decarbonizzare” l’economia mondiale. Anche se si accettassero le previsioni climatiche della Commissione Onu per il cambiamento climatico, le politiche aggressive di controllo delle emissioni non troverebbero alcuna giustificazione economica.

Un recente studio di William Nordhaus, economista di Yale, su una larga varietà di politiche, ha dimostrato che il miglior rapporto costi-benefici viene raggiunto dalle strategie che consentono altri 50 anni di sviluppo senza l’impedimento del controllo delle emissioni. Scelte del genere darebbero particolari benefici ai paesi meno sviluppati, che avrebbero la possibilità di partecipare degli stessi vantaggi (in termini di benessere, salute e aspettativa di vita) di cui le regioni più industrializzate godono ora. Molte altre risposte politiche sarebbero destinate a dare un ritorno negativo sugli investimenti. Ed è probabile che un aumento dell’anidride carbonica, con conseguente modesto aumento delle temperature, possano essere di beneficio per tutto il pianeta.  Qualora i rappresentanti eletti sentano la necessità di “fare qualcosa” per il clima, raccomandiamo di dare sostegno agli scienziati eccellenti che ci stanno permettendo di capire di più del clima, con strumenti ben progettati a bordo dei satelliti, negli oceani o sulla terraferma, o con l’analisi dei dati raccolti. Più capiremo il clima, più potremo affrontare la natura e i suoi cambiamenti costanti, che hanno complicato la vita dell’uomo nel corso della storia. A ogni modo, buona parte del cospicuo finanziamento privato e statale agli studi climatici necessita quantomeno di una revisione critica.

Claude Allegre, former director of the Institute for the Study of the Earth, University of Paris; J. Scott Armstrong, cofounder of the Journal of Forecasting and the International Journal of Forecasting; Jan Breslow, head of the Laboratory of Biochemical Genetics and Metabolism, Rockefeller University; Roger Cohen, fellow, American Physical Society; Edward David, member, National Academy of Engineering and National Academy of Sciences; William Happer, professor of physics, Princeton; Michael Kelly, professor of technology, University of Cambridge, U.K.; William Kininmonth, former head of climate research at the Australian Bureau of Meteorology; Richard Lindzen, professor of atmospheric sciences, MIT; James McGrath, professor of chemistry, Virginia Technical University; Rodney Nichols, former president and CEO of the New York Academy of Sciences; Burt Rutan, aerospace engineer, designer of Voyager and SpaceShipOne; Harrison H. Schmitt, Apollo 17 astronaut and former U.S. senator; Nir Shaviv, professor of astrophysics, Hebrew University, Jerusalem; Henk Tennekes, former director, Royal Dutch Meteorological Service; Antonio Zichichi, president of the World Federation of Scientists, Geneva.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/12156

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