venerdì 14 settembre 2012

Così la politica monetaria si è trasformata in politica tout court, di Stefano Cingolani


Bernanke sostiene ancora l’economia. Il paradosso di Bce e Fed, bersagliate per il loro potere (unico) di condizionare i mercati

Stupiteci con effetti speciali. Alle Banche centrali in questi cinque anni è stato chiesto di fare anche l’impossibile per tirarci fuori dai guai. Ci sono riuscite solo in parte. La Federal reserve americana ha abbassato a zero i tassi di interesse, ha salvato banche e assicurazioni, ha acquistato titoli per migliaia di miliardi. Ieri ha lanciato una terza tranche di Quantitative easing, o allentamento monetario, annunciando che comprerà ogni mese altri 40 miliardi di dollari in obbligazioni e manterrà i tassi vicino a zero fino a metà 2015, nella speranza di far ripartire un mercato del lavoro che continua a mandare segnali negativi: la disoccupazione sopra l’8 per cento suscita “una grave preoccupazione”, ha detto il governatore Ben Bernanke. Wall Street è risalita, ma senza fuochi d’artificio. Allarmato è il presidente Barack Obama che vede la sua riconferma minacciata all’interno dall’economia e all’esterno dalla nuova offensiva islamica. E Mitt Romney contrattacca: la Fed accende l’inflazione e non stimola la congiuntura. “E’ la politica stupido”, si potrebbe rovesciare così la vecchia battuta della campagna elettorale clintoniana (“it’s the economy, stupid”). Intanto, la Banca centrale europea è bersagliata per le sue scelte soprattutto in Germania, ma viene tirata per la giacca (in senso opposto) dai governi degli altri paesi: Francia, Italia, Spagna. Il suo bilancio è salito a mille miliardi di euro, ne ha prestati altrettanti alle banche, adesso può comprare anche i titoli di stato. Sull’Eurotower pende l’esame della Corte costituzionale tedesca perché un deputato della Csu giudica illegittima e incostituzionale la decisione di acquistare titoli dei paesi in difficoltà, anche se ancora nessun buono del tesoro italiano spagnolo è stato acquistato, dopo l’annuncio della settimana scorsa.
“Sono un po’, appena un pochino preoccupato sul futuro del banchiere centrale”, ha detto con ironia James Bullard, presidente della Federal reserve di St. Louis, “e mi preoccupa proprio da questa crescente politicizzazione”. La crisi ha fatto saltare i vecchi steccati. A Jackson Hole, l’annuale seminario americano organizzato dalla Fed, è stato tutto un rincorrersi di interrogativi e angosce. Le Banche centrali sono nel mirino anche perché sulle loro spalle è stato lasciato il compito di rimettere in sesto l’economia. Dal 2010 in qua i governi hanno stretto la politica fiscale, costringendo la politica monetaria ad allargare le maglie. La prima non ha funzionato perché negli Stati Uniti e nell’Unione europea, con le dovute differenze, i debiti restano ancora alti, quelli pubblici e quelli privati, mentre la domanda langue. La disintossicazione non è compiuta. Secondo Donald Kohn, ex vicepresidente della Fed ora alla Brookings Institution, il cocktail di politiche tradizionali non basta perché “sta succedendo qualcosa nel profondo, ci sono trasformazioni strutturali in corso che mutano il comportamento dei risparmiatori o la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro”. “Abbiamo evitato una nuova depressione”, si difende Ben Bernanke. Vero, ma “non ha riportato l’economia nella sua traiettoria di crescita”, nota Rex Nutting su Marketwatch. E molti si chiedono se non sia ora di cambiare paradigma teorico e strumentazione pratica. Fa molto discutere la proposta di Michael Woodford della Columbia University presentata a Jackson Hole: scegliere come obiettivo per i tassi di interesse anziché i prezzi di lungo periodo, il prodotto lordo nominale (che comprende cioè l’inflazione), rendendo così chiaro al mercato che la Banca centrale non rincarerà il denaro finché il pil non si sarà messo in moto. Una scelta tecnica, ma che si tinge anch’essa di politica.

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