Bernanke sostiene ancora l’economia. Il paradosso di Bce e Fed, bersagliate per il loro potere (unico) di condizionare i mercati

“Sono un po’, appena un pochino preoccupato sul futuro del banchiere centrale”, ha detto con ironia James Bullard, presidente della Federal reserve di St. Louis, “e mi preoccupa proprio da questa crescente politicizzazione”. La crisi ha fatto saltare i vecchi steccati. A Jackson Hole, l’annuale seminario americano organizzato dalla Fed, è stato tutto un rincorrersi di interrogativi e angosce. Le Banche centrali sono nel mirino anche perché sulle loro spalle è stato lasciato il compito di rimettere in sesto l’economia. Dal 2010 in qua i governi hanno stretto la politica fiscale, costringendo la politica monetaria ad allargare le maglie. La prima non ha funzionato perché negli Stati Uniti e nell’Unione europea, con le dovute differenze, i debiti restano ancora alti, quelli pubblici e quelli privati, mentre la domanda langue. La disintossicazione non è compiuta. Secondo Donald Kohn, ex vicepresidente della Fed ora alla Brookings Institution, il cocktail di politiche tradizionali non basta perché “sta succedendo qualcosa nel profondo, ci sono trasformazioni strutturali in corso che mutano il comportamento dei risparmiatori o la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro”. “Abbiamo evitato una nuova depressione”, si difende Ben Bernanke. Vero, ma “non ha riportato l’economia nella sua traiettoria di crescita”, nota Rex Nutting su Marketwatch. E molti si chiedono se non sia ora di cambiare paradigma teorico e strumentazione pratica. Fa molto discutere la proposta di Michael Woodford della Columbia University presentata a Jackson Hole: scegliere come obiettivo per i tassi di interesse anziché i prezzi di lungo periodo, il prodotto lordo nominale (che comprende cioè l’inflazione), rendendo così chiaro al mercato che la Banca centrale non rincarerà il denaro finché il pil non si sarà messo in moto. Una scelta tecnica, ma che si tinge anch’essa di politica.
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