martedì 4 settembre 2012

Una verità su Martini nel giorno dell’addio al possente gesuita, di Giuliano Ferrara


Volevo scrivere il solito pezzo. Oggi i funerali del cardinal Martini, che non è mai stato ecclesialmente la mia tazza di tè. Forza, Giuliano, prendi le tante palle e le tante genericità che sono comparse sui giornali in sua memoria e tira il calcione necessario, attacca la compunzione sterile e ipocrita dei martiniani elogiatori del dubbio, del dialogo, dell’ascolto, questi credenti e atei così devoti quando si tratti di incensare un principe della chiesa che serve ai loro bisogni ideologici. Ma perché scrivere il solito pezzo? L’8 agosto, immagino in quale situazione spirituale, il cardinale aveva affidato una memoria orale della sua anima di cattolico e di prete a Georg Sporschill, gesuita, e a Federica Radice Fossati Confalonieri, confermandone il testo finale. E’ un testo molto bello. Chissenefrega se lo inquinano in tanti con le loro riverenze mediatiche all’impatto del carisma, al profilo alto e ieratico, nascondendo, anche perché non le conoscono bene, orecchianti come sono, le vere ragioni di un cardinale della Compagnia di Gesù alle prese con la chiesa e il mondo moderno. E’ lo stesso un testo ignaziano, missionario, pervaso di smarrimento di fronte all’irrilevanza della chiesa, convinto nell’indifferente relativismo gesuitico che sia necessario fare oggi e per il futuro quello che i gesuiti dell’Ottocento odiavano con tutte le loro forze: compromettersi con le cose create, con gli uomini e le donne come sono, abbracciare i peccati per redimerli intendendone il senso con animo largo, aperto, ascoltandone il tenebroso dramma, esaltando la confusa libertà che esprimono, la coscienza imperfetta e stirata e piagata dal tempo che incalza, la coscienza ovvero anche per Martini un “muscolo che bisognerebbe allenare” (lo ha ricordato Ferruccio de Bortoli) e che centocinquantanni fa per la chiesa romana era un “delirio” in libertà (la Compagnia indifferente suggeriva anche quelle parole, all’occasione).
L’irrilevanza della chiesa intesa come cultura e carisma di una civiltà politica sotto attacco, quella occidentale, non è solo un problema del cardinal Ruini o di Ratzinger o prima di lui di Wojtyla. Martini riformatore pensa, nella sua vera inquietudine, che vada sanata come hanno fatto i protestanti, che hanno trasferito alle banche o ai sindacati o alla guerriglia il ruolo di salvezza, ai consultori laici e abortisti la riflessione sulla vita, alle congreghe della buona morte le questioni liminari dell’esistenza e della speranza, alla psicologia postfreudiana il tema della sessualità dei laici e dei preti, il celibato, il preservativo come bandiera di libertà sessuale nelle scuole, il femminismo. Martini pensa che i sacramenti non sono anche una soglia di diritto canonico, oltre ad essere definizioni dogmatiche della lettura ecclesiale della fede come dottrina comune di un popolo fatta coralmente nel corpo di Cristo che è l’ecclesia, ma un dettato evangelico di pronto uso individuale e di soccorso ai deboli, a chi ha perso l’indissolubilità del matrimonio e vuole continuare a vivere nell’amore di una famiglia allargata, nella dedizione a un figlio di single metropolitano, nell’aspirazione a produrre l’idolo di un bambino confezionato ad arte, e pazienza per la sottile linea rossa che divide il bene dal male, “la parola di Dio non si afferma con sentenze fuori del tempo” dice il martiniano e dossettiano Giovanni Nicolini sull’Unità in memoria del presule (addio ai dieci comandamenti).
La risposta a Martini non può essere settaria, intra moenia, perché la fornisce la storia. I protestanti hanno offerto al mondo lo spirito pubblico americano, l’imperialismo e lo humour britannici, la laicità francese, l’etica germanica moderna, ma conquistando il mondo laico hanno perso il carattere di chiesa, si sono integralmente secolarizzati come nelle premesse dell’ardente Lutero, uomo di indiscussa fede e vertiginoso genio teologico. Se l’universalismo cattolico, e il cattolicesimo o è universalista o non è, si trasforma in relativismo laico, si spegne la chiesa e con essa una garanzia di contraddizione e libertà del mondo. Ma questi sono argomenti che l’impronta davvero laica e in parte razionalista di Giovanni Paolo, di Benedetto e di Camillo Ruini comprende, il “progressismo” secolarizzatore di Martini era fatto ed è fatto, perché gli sopravvive, di tutt’altra pasta.
Tuttavia, amici tradizionalisti, cattolici che vomitate i timidi, sappiate, e lo sapete benissimo, che il conflitto tra il tempo e l’eternità è il sale della terra e della chiesa che sulla terra insiste. Anche il Sillabo e Pio IX, che a me piacciono senza affettazione, e che sono in parte risorti come problema e non come soluzione nella chiesa del dopo Vaticano II, nacquero nella strenua difesa dei confini temporali di un vecchio primato teocratico: il tempo si insinua e si insinuerà sempre qua e là, difendere quel che va oltre la storia e il relativo della coscienza è stato ed è il grande privilegio del Papa di Roma nel trapasso del millennio. Martini si chiamò fuori perché non ci credeva, l’indifferenza gesuitica ha cambiato segno nel mondo moderno e postmoderno. Ma non sono bazzeccole, per quanto il martinismo degli stolti e dei conformisti, questi atei e credenti devoti solo del dubbio, consegni al correttismo politico la santa inquietudine del cardinale della Compagnia di Gesù.

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