giovedì 6 settembre 2012

Europa: federalismo o fallimento?, di Jean Pisani-Ferry

Sul fronte dei mercati obbligazionari europei agosto è stato più tranquillo di quanto temuto. Quindi, mentre si rilassano sulle spiagge e le montagne dell’Europa, i policy maker potrebbero fare un passo indietro dai toni e dalla furia degli ultimi mesi e pensare al futuro. L’eurozona si sta dirigendo, in uno stato di sonnambulismo, verso l’istituzione degli Stati Uniti d’Europa? Sta vagliando opzioni inesplorate? Oppure i suoi stati membri stanno invece prendendo direzioni diverse? 

Per rispondere a queste domande la cosa migliore è partire dagli Stati Uniti. Il modello storico dell’unione federale statunitense è costituito da una valuta unica gestita da un dipartimento del tesoro federale; una stretta integrazione tra mercato produttivo, mercato del lavoro e mercato dei capitali; un budget federale in grado di compensare, parzialmente ma in modo automatico, le difficoltà economiche dei singoli paesi; un governo federale che si assuma la responsabilità di gestire una serie di rischi importanti tra cui quelli derivanti dal settore bancario; e infine la gestione da parte degli stati dei beni pubblici regionali senza alcun ruolo nel processo di stabilizzazione macroeconomica. 

Questo modello è stato usato come riferimento dagli architetti dell’Unione europea per la creazione di un mercato unico e di una valuta comune. Ma, per molti versi, l’Europa si è poi differenziata in modo significativo dall’esempio americano. 

Prima di tutto, l’Europa non ha mai istituito un budget federale. Negli anni ’70 c’era ancora la speranza di una spesa comune pari al 5-10% del PIL dell’UE, ma purtroppo non si è mai realizzata. Oggi, il budget dell’UE non è molto più grande di quello di 30 anni fa, ovvero uno scarso 1% del PIL.

A differenza degli Stati Uniti, dove la spesa pubblica federale è cresciuta a seguito di nuovi piani di spesa delineati durante tutto il ventesimo secolo, la spesa pubblica nazionale era invece già elevata nella fase di integrazione iniziale dell’Europa. Con il trasferimento a livello europeo dei piani di spesa nazionale già esistenti, si sarebbero potuti delineare dei piani di spesa federale consistenti. Ma, prevedibilmente, ci fu al tempo grande resistenza a questi trasferimenti. 

Più recentemente, l’eurozona ha iniziato a creare un sistema di aiuto reciproco tra gli stati membri. A partire dal 2010, il piano di aiuto è stato esteso a Grecia, Irlanda e Portogallo, e ora a Cipro. La Spagna potrebbe fare la stessa fine a breve con particolare focalizzazione sul settore bancario. Il risultato è che sta ora emergendo uno schema specifico, ovvero quello di un aiuto reciproco tra stati.  


Ma la solidarietà non è gratuita, bensì vincolata alla firma da parte dei paesi beneficiari di un trattato fiscale che li impegna nei confronti di una serie di responsabilità legate al budget e li rende passibili di sanzioni quasi automatiche. Inoltre, il piano di aiuto implica l’implementazione da parte dei beneficiari di misure negoziate e l’accettazione di uno stretto monitoraggio esterno dello sviluppo delle politiche adottate. In altre parole, il prezzo della solidarietà è una sovranità limitata. 

Tuttavia, a differenza degli Stati Uniti, i governi degli stati membri dell’UE (e in misura crescente anche i loro parlamenti) detengono sempre di più l’autorità. Poiché infatti i piani di aiuto non si basano su risorse federali, ma su un insieme di risorse nazionali, gli stati creditori chiedono maggior potere in cambio di un aiuto più consistente ai loro vicini. La valuta unica sembra quindi aver contribuito a distanziare maggiormente l’Europa dal modello statunitense, invece di avvicinarla. 

Negli Stati Uniti il governo federale agisce come scudo contro i rischi comuni e fornisce un sostegno automatico e incondizionato agli stati in difficoltà, ma non si attiva per salvare uno stato in default e tantomeno prende il controllo del suo governo. Per contro, in Europa non esiste uno scudo aggregato e nessuna forma di aiuto automatico per gli stati in difficoltà. Gli stati più ricchi si attivano per offrire un aiuto condizionato al fine di evitare il default. Quindi, mentre gli Stati Uniti si trovano a competere con un’autorità centrale per il potere, in Europa si trovano a competere sempre di più l’uno con l’altro.

Questa rivalità tra stati, che a volte sfocia in livore, è ciò che rende difficile la politica dell’integrazione europea. Tutte le federazioni hanno vissuto dei periodi di relazioni tese tra stato federale e governi dei singoli stati. Ma accettare che i propri vicini si guardino alle spalle e impartiscano istruzioni è molto peggio di un monitoraggio da parte di un’autorità centrale. 

E’ pur vero che uno dei principali problemi del contesto attuale è dato dalla debolezza delle istituzioni dell’UE che hanno il compito di portare avanti gli interessi comuni e di dover rendere conto ai cittadini europei in termini di collettività. Una direzione comune a livello europeo non può derivare dal calcolo degli interessi nazionali da parte dei governi e dei parlamenti che devono invece rendere conto solo ai loro elettori nazionali. 

Il grande quesito al quale nessuno sembra saper rispondere in modo chiaro è se l’Europa stia delineando un nuovo modello, o se abbia solo fatto una deviazione dalla scelta inevitabile tra disaggregazione e convergenza al modello federale standard. Una soluzione potrebbe essere quella di offrire una sede ai rappresentanti degli stati nazionali per discutere delle tematiche europee, mentre un’altra potrebbe essere quella di trasferire il ruolo di garante ad un’istituzione federale che renda conto al parlamento europeo. 

Qualsiasi sia la strada che deciderà di intraprendere, l’Europa dovrà, negli anni a venire, affrontare la debolezza nella rappresentanza degli interessi comuni, oppure ammettere che non esiste alcun interesse comune in grado giustificare il cammino verso l’integrazione.


http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2012-09-03/europa-federalismo-fallimento-203406.shtml?uuid=Ab2SacXG

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