venerdì 7 settembre 2012

L’Europa è solo una moneta, di Harold James


Uno storico dell’Università di Princeton ha avuto accesso agli archivi finora segreti della Banca centrale europea e ha scoperto i principi visionari, pre-politici e tutti economici dell’euro

Anticipiamo ampi stralci di “Making the European Monetary Union”, saggio scritto dallo storico dell’Università di Princeton Harold James, e che sarà pubblicato a fine ottobre da The Belknap Press of Harvard University Press (592 pagine, 31,50 euro). Come spiegato nella prefazione al volume, scritta dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, è stato lo stesso Istituto centrale a commissionare questo studio nel 2008, aprendo eccezionalmente l’accesso agli archivi della Bce, della Banca internazionale dei regolamenti (Bri) e del Comitato dei governatori delle Banche centrali degli stati membri della Cee (1964-1993).

La ricerca di un coordinamento e poi dell’unione monetaria europea 
è stata una risposta a problemi reali (e ancora presenti) di instabilità valutaria e di disallineamento monetario a livello internazionale. Questa ricerca non è stata semplicemente – come spesso viene raccontato e rappresentato – un progetto fondamentalmente politico “per rendere impossibile una futura guerra europea e per mettere le basi degli Stati Uniti d’Europa federali” (Milton Friedman). Questo sforzo d’altronde sarebbe stato piuttosto curioso, considerato che non ci sono prove del fatto che una moneta comune prevenga lo scoppio di conflitti armati (si pensi alla guerra civile americana o, più recentemente, alla Yugoslavia). Nonostante ciò, questa tesi è stata ripetuta a non finire, e con enfasi retorica, da politici europei del massimo spessore, da Roy Jenkins a Hans-Dietrich Genscher. La retorica discende dalle prime origini dello sforzo di integrazione europea, quando il cancelliere tedesco Konrad Adenauer nel 1950 disse al Parlamento che “l’importanza di questo progetto è soprattutto politica e non economica”. Ma sarà chiaro da quanto descritto di seguito che c’era una logica economica ben precisa, oltre che una logica politica, dietro la creazione di una moneta unica per l’Europa. (…) La spinta a progettare una soluzione europea divenne particolarmente intensa quando gli squilibri globali (che si riflettevano anche nell’emergere di un ampio surplus di bilancio della Germania) iniziarono a minacciare l’ordine internazionale alla fine degli anni 60, poi negli anni 70 e 80.
(…) Gli anni Sessanta furono per molti versi un decennio sfrenato. Le comunicazioni migliorarono, musicisti infiammati guidarono una rivoluzione culturale, i riformatori iniziarono a chiedere una svolta completa rispetto ai relitti ideali del passato, gli Stati Uniti furono coinvolti in una sanguinosa guerra ideologica, gli europei iniziarono a desiderare una nuova moneta e cominciarono a negoziare sulle modalità istituzionali per ottenerla. Ma di quale secolo parliamo? A dire il vero sia il decennio che prese il via nel 1860 sia quello del 1960 furono rivoluzionari.
La storia si ripete. Ma con modalità singolari. Alla metà del Diciannovesimo secolo, il mondo era galvanizzato dalle trasmissioni via cavo transoceaniche e dalle ferrovie potenzialmente ubique, dalla musica di Verdi e di Wagner, dalle riforme di Bismarck, Cavour, Gladstone e Lincoln. Le questioni di una unificazione monetaria a livello europeo e di una semplificazione del panorama valutario globale erano intimamente legate, e l’imperatore Napoleone III propose una soluzione. Lui e i suoi consiglieri avevano già avanzato l’idea di una Unione monetaria latina, attraverso la quale il conio di Francia, Belgio, Svizzera e Italia doveva essere reso omogeneo, con un franco o una lira di peso standard e di puro argento che sarebbe circolata liberamente in questi paesi. La Conferenza monetaria mondiale del 1867, tenuta a Parigi, andò addirittura molto oltre queste ambizioni. Secondo un altro meccanismo congegnato in quella sede, sarebbe stata sufficiente una lieve modifica delle parità per far allineare Francia e Gran Bretagna, così come gli Stati Uniti, che si stavano iniziando a riprendere da una Guerra civile estremamente costosa e distruttiva. (…) Il principale commentatore inglese di affari monetari e direttore dell’Economist, Walter Bagehot, commentò in maniera entusiastica queste proposte coraggiose. (…) Ma nessuno di questi piani si realizzò in maniera strutturata, anche se la Unione monetaria latina rimase in piedi (a fianco delle altre valute nazionali comunque in circolo, ndr) prima di essere spazzata via da tassi d’inflazione estremamente divergenti durante la Prima guerra mondiale.
(…) Nel Ventesimo secolo, una tradizione alternativa fondata sulla moneta nazionale raggiunse il suo apogeo. Secondo questa visione, un forte legame teneva assieme moneta e autorità politica. Questo legame – e la capacità degli stati di manipolarne il valore della moneta – si intensificò come risultato dell’attrazione esercitata dalla moneta fiat o cartacea inconvertibile. L’economista e politico tedesco Karl Helfferich sostenne che la dipendenza di uno standard monetario dal valore del metallo aveva prodotto fluttuazioni dei prezzi che in teoria potevano essere eliminate dall’adozione della moneta fiat; ma aggiunse anche che la moneta fiat sarebbe stata soggetta a pressioni politiche intense e quasi insostenibili. (…) La capacità dello stato e della politica pubblica di stabilire il valore della moneta – preconizzò – avrebbe incoraggiato una mobilitazione e una polarizzazione di interessi diversi, da una parte di quelli che avrebbero beneficiato di un deprezzamento monetario, dall’altra parte dei percettori di reddito fisso che avrebbero desiderato un aumento del valore della moneta. (…) Il conflitto avrebbe avuto la capacità di portare a “una completa demoralizzazione della vita economica e sociale”, scrisse piuttosto profeticamente (infatti, in qualità di ministro delle Finanze tedesco durante la Prima guerra mondiale, divenne il maggiore architetto della grande inflazione tedesca). (…)
Le idee di un’unificazione monetaria transnazionale vennero riprese alla fine del Ventesimo secolo. Nel processo di costruzione dell’Europa, il legame tra moneta e autorità politica doveva essere reciso. Il populismo monetario e le conseguenze inflazionistiche dello stesso avevano gettato nel discredito l’approccio nazionale alla moneta. Cento anni dopo Bagehot, Londra decimalizzò la sterlina e gli europei, sospinti dal caos monetario statunitense generato da un’altra guerra, iniziarono nuovamente a riflettere in maniera ponderata sulla possibilità di un’unione monetaria europea. (…) Esattamente un secolo dopo la conferenza di Napoleone III, nel 1967, Sir John Hicks portò a termine un’analisi sull’instabilità del credito, sostenendo che era necessario gestire il credito internazionale, così come la moneta internazionale. (…) In maniera ancora più problematica e fondamentale, il coordinamento monetario internazionale comporta però la cessione di alcune prerogative e idee nazionali sulla moneta. In questo modo le differenze riguardo alla politica monetaria non sono formulate semplicemente come conflitti tra interessi, com’era all’interno di singoli stati nazionali, ma prendono spesso la forma di filosofie diverse e confliggenti. Di conseguenza negoziare compromessi tra posizioni nazionali alternative comporta qualche tipo di compromesso di carattere teoretico. Per fare un esempio che sarà al centro della storia raccontata in queste pagine: in tutta l’era post Seconda guerra mondiale, una richiesta fondamentale della Francia è stata quella di un meccanismo che consentisse forme di controllo politico sull’economia, la “governance economica” come è comunemente definita. All’opposto la Germania, per ragioni storiche, è stata profondamente legata a una politica anti inflazionistica, ancorata a una forte autonomia istituzionale della Banca centrale. Come riformulare queste posizioni per ottenere un’armonia tra le stesse? Ovviamente entrambe possono essere trasferite a un livello europeo, anche se ciascun paese teme che il trasferimento possa equivalere a una diluizione delle proprie posizioni: che la Banca centrale per esempio possa essere posta sotto pressioni ulteriori rispetto a quelle domestiche, o che la governance economica possa prendere la forma di mere regole di bilancio. Ma il conflitto potrebbe nascere anche come risultato dell’europeizzazione delle preferenze nazionali, in modo tale che governance e autonomia finiranno per scontrarsi.
(…) Un meccanismo politico, però, richiede negoziazioni continue e decisioni politiche, cioè un percorso tormentato, considerate le diverse preferenze di policy nei due paesi (e in quei paesi che si allineavano alle tesi di uno dei due Grandi). In tale situazione, l’attrattività crescente dell’unione monetaria consisteva proprio nel fatto che questa unione non necessitava di un lungo e laborioso processo politico, e che l’operatività di un sistema interamente automatico avrebbe messo degli argini al dibattito e all’iniziativa politica, così come alla scelta di policy alternative. L’unione monetaria si realizzò nel periodo immediatamente successivo a un’era di liberalizzazione del mercato dei capitali, dopo che a lungo gli squilibri delle bilance dei pagamenti erano stati sostenibili. Gli effetti dei movimenti di capitale consentirono però con il tempo agli squilibri delle bilance di crescere in maniera molto maggiore, facendo sì che poi le periodiche correzioni – quando si realizzavano – fossero molto più drastiche. Questi effetti erano osservabili già alla fine degli anni 80 e all’inizio degli anni 90, prima dell’unione monetaria. Infatti furono gli ampi squilibri a convincere i policymaker europei del fatto che un’unione monetaria era l’unica via per evitare il rischio di crisi periodiche, con annessi riallineamenti valutari che, attraverso gli effetti sui flussi commerciali, mettevano in pericolo la sopravvivenza stessa di un mercato interno europeo integrato.
(…) La maggior parte dei giudizi dell’Unione economica e monetaria al suo quinto anno di vita convergeva sul fatto che la moneta unica avesse funzionato bene come meccanismo anti inflazione, ma che avesse deluso in termini di aumento della crescita e della produttività. Qualcuno allora sperò almeno in un miracolo sul fronte dell’occupazione. Ma invano. Il decimo anniversario dell’Unione economica e monetaria non è stato diverso. Come si legge in un documento della Commissione europea: “Mentre l’euro è stato un chiaro successo, finora ha deluso alcune delle aspettative iniziali. La crescita della produzione di ricchezza e della produttività è stata inferiore rispetto a quella di altre economie mature”.
(…) Affrontare una crisi gemella richiede un’azione su entrambi i fronti sensibili:ovvero il problema dell’insostenibilità delle finanze pubbliche e quello delle banche-zombie. Tutti e due i compiti sono più difficili da svolgere quando ci si trova in un contesto di bassa crescita. Senza contare che le politiche macroeconomiche convenzionali non sono sufficienti a risolvere il problema. L’Europa ha bisogno di continuare con riforme microeconomiche concepite per produrre un ritorno alla crescita, ovvero – in breve – per tornare alle ambizioni dell’Agenda di Lisbona del 2000.
L’incompletezza del Trattato di Roma, però, costituisce ancora un problema.L’interazione dei tecnocrati all’interno di alcuni comitati (talmente comuni che nel gergo brussellese si parla di “comitatologia”) può tornare utile per coordinare varie politiche nazionali in numerose aree, ma il lavoro di questi comitati non potrà mai essere un successo completo. In particolare, i comitati non sono un surrogato adeguato per un meccanismo politico che genera un consenso politico diffuso e legittimo. Negli anni 90, i critici hanno spesso puntato il dito sul fatto che le unioni monetarie sono fragili in mancanza di qualche forma di unione fiscale. All’indomani della Grande recessione iniziata nel 2007, questa lezione è diventata brutalmente evidente per tutti. Colpisce ancora oggi il fatto che nelle discussioni interne al Comitato Delors (nel 1989, ndr), Jacques Delors ritenesse ancora che il bilancio dell’Unione europea sarebbe cresciuto – prim’ancora che l’unione monetaria vedesse la luce – fino al punto di arrivare a pesare quanto il 3 per cento del pil dell’area. Nel 2012, invece, questo bilancio è ancora pari all’1,1 per cento del pil complessivo dell’Eurozona. La maggior parte delle soluzioni innovative necessarie per correggere le debolezze attuali – e non le modifiche a breve termine che funzionano solo come palliativo – comportano alcune misure di federalizzazione fiscale. La risposta potrebbe essere quella di un fondo comune creato tassando le varie banche, per assicurare la presenza di risorse necessarie per un’assicurazione sui depositi di molte istituzioni finanziarie transnazionali e per fornire la possibilità di risolvere per via fiscale i problemi di salvataggio delle banche; o anche alcune misure di assicurazione comune contro la disoccupazione per alleviare l’impatto di choc inattesi. Quel che è certo è che sarebbe un errore credere che il 1999, ovvero il completamento dell’unione monetaria, possa costituire il semplice e soddisfacente passo finale della lunga lotta europea con la moneta. Non lo è.

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