domenica 23 settembre 2012

Federalismo è l'ora di ripensarlo, di Franco Bruni

Gli scandali che emergono nelle Regioni ci fanno riflettere su più fronti. Fra i quali, come osserva Mario Calabresi nel suo editoriale di ieri, c’è la questione del federalismo.
Che urge anche per i suoi riflessi sulla finanza pubblica.

La disciplina della finanza locale negli Stati federali è difficile da ottenere. Ce lo dice l’esperienza internazionale. L’Argentina ha problemi di squilibri finanziari privati e dell’amministrazione centrale, ma i potentati locali fanno scempio della finanza delle sue province. Il Brasile non manca di problemi analoghi. La Catalogna e le altre regioni autonome aggravano il debito pubblico spagnolo. In misure e forme diverse il problema travaglia anche altri Paesi, compresi gli Usa, la Germania e persino la Cina. Se c’è un decentramento politico-elettorale, far rispettare davvero dal centro vincoli di bilancio locali è un problema. In un modo o nell’altro l’indisciplina locale riesce a ricattare il potere centrale. D’altra parte: non è proprio questo il rompicapo che stiamo cercando di risolvere per tenere in ordine da Bruxelles le finanze dei Paesi dell’Ue?

In Italia il decentramento del potere nazionale ha visto alcune forze politiche particolarmente impegnate ma anche un vasto consenso di fondo. C’è chi vuole più federalismo e chi meno, chi lo vuole più «solidale» e chi meno, chi lo vuole davvero e chi fa finta, chi dice che è facile da organizzare e chi no. Ma il principio è largamente condiviso; soprattutto per due ragioni.

La prima è un diritto democratico alla sussidiarietà, al controllo del proprio campanile. La seconda è l’idea che la vicinanza territoriale consente più controllo degli elettori sugli eletti e stimola una concorrenza virtuosa fra le amministrazioni locali, vogliose di far meglio per non perder voti. Sono davvero due ragioni convincenti?

Il diritto a una forte dose di controllo sul proprio territorio è la base degli Stati federali. La Lombardia ai lombardi, la Catalogna ai catalani, la Baviera ai bavaresi: c’è qualcosa di giusto, coerente con i valori della tradizione e con l’evoluzione del ruolo degli Stati nazionali. Ma non è oggi più importante far sforzi nella direzione opposta e sentirci tutti più cittadini del mondo o, almeno, dell’Europa? Non è più urgente riconoscere le crescenti interdipendenze, economiche e culturali, che legano i destini di territori lontani, rimbalzano problemi e opportunità da un capo all’altro del mondo e chiedono forme di governo più attente a interessi sovrannazionali? Inoltre, guardando all’Italia, mentre forme di campanilismo comunale possono aver senso, il campanilismo regionale non appare forse, con poche eccezioni, artificioso?

L’idea principale e più condivisa del federalismo è però la vicinanza fra elettori ed eletti. Ma è una vicinanza pericolosa perché favorisce la prepotenza degli interessi particolari, a scapito di quelli generali. Le lobby locali, i cui interessi non collimano con quelli della collettività dei cittadini del proprio territorio, hanno meno presa se devono condizionare decisioni nazionali, mentre catturano facilmente i politici eletti localmente. Il caso più clamoroso è proprio la gestione del territorio: per difendere la natura, il paesaggio, la salute, la vita stessa (evitando di costruire lungo i fiumi, inquinare e quant’altro), occorrerebbe che la tutela del territorio fosse il più lontano possibile dai gruppi locali di pressione, molto centralizzata, anche se con grande trasparenza delle decisioni verso tutto il Paese e l’Europa. La privatizzazione selvaggia e la cementificazione delle spiagge è certo più colpa dei proprietari locali degli stabilimenti balneari che non dei corrotti di Roma.

E perché gli ospedali sono regionali? Per essere più vicini ai pazienti/votanti? La dimensione nazionale sembra più adatta a ottenere una distribuzione razionale dei servizi sanitari, che sfrutti la concentrazione delle competenze specialistiche, valorizzi le eccellenze e canalizzi i pazienti in modo economicamente efficiente e per loro soddisfacente.

Ma ecco la questione della concorrenza virtuosa: gli amministratori locali avrebbero incentivo a competere per far meglio, così da meritarsi i voti e, addirittura, da attirare più attività sul proprio territorio. Se ti faccio pagare più tasse e, a parità di tasse, ti do servizi peggiori, tu elettore non mi voti più o ti sposti in un’altra regione. E’ un meccanismo credibile, sul serio in grado di incentivare sollecitamente il buon governo locale? E’ un meccanismo che richiede vincoli al bilancio pubblico degli enti locali, che altrimenti possono sprecare senza alzare le tasse: si riescono davvero a imporre questi vincoli? E come mai il meccanismo non funziona e i servizi pubblici di molte regioni italiane non accennano nemmeno a migliorare nonostante l’evidente insoddisfazione dei loro abitanti che si esprime, quando e come può, anche con spostamenti di voti e voti di protesta? Non è più facile concentrare i giudizi dei cittadini sulla capacità del governo nazionale di organizzare la fornitura decentrata dei servizi? E poi: la concorrenza fra i politici locali può forse funzionare nei confronti di servizi veramente locali, gestiti da politici «vicini»: per i Comuni; ma per le Regioni?

Domandiamoci infine se si può chiedere ai cittadini di esercitare un voto davvero consapevole e disciplinante a più di tre livelli: comunale, nazionale e europeo. Non diamo nulla per scontato. Vengono tempi nei quali dovremo riorganizzare le nostre istituzioni: nessuno scrupolo ci trattenga dal rimettere in discussione, senza pregiudizi ideologici e faziosità, l’articolazione territoriale del potere politico. Nemmeno lo scrupolo di esserci già inoltrati in un cammino federalista mal definito e imprudente.


http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10557

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