Teheran controlla il collasso della moneta per rafforzarsi e le sanzioni non innescheranno un regime change

C’è una seconda scuola di pensiero che dice però l’opposto: non c’è iperinflazione in Iran; l’inflazione che c’è è creata e controllata dal governo iraniano per aumentare il suo potere sul paese; le sanzioni internazionali non hanno effetto; da questa crisi monetaria il regime ne esce rafforzato e i suoi oppositori indeboliti.
Come può essere? Il fatto è che l’ottanta per cento della popolazione iraniana è povero e non risente nella vita quotidiana del precipitare del rial contro il dollaro, perché consuma soprattutto beni che prende dal mercato interno e usa sempre e soltanto il rial. Vive al riparo dalla svalutazione. “La loro vita quotidiana non prevede nemmeno l’uso dei dollari – scrive Business Insider, che ha fatto un’ottima sintesi della seconda scuola di pensiero – vanno al lavoro, ricevono la loro paga giornaliera, la spendono per acquistare pane e pollo e ne ottengono sempre la stessa quantità, giorno dopo giorno. In Iran non si usano dollari per comprare le uova”.
La classe meno abbiente è incidentalmente anche quella che ancora sostiene il regime e che alle elezioni del 2005 ha fatto la fortuna del presidente Mahmoud Ahmadinejad, considerato per i suoi modi frugali e la sua fama di incorruttibile un outsider rispetto all’establishment pasciuto e corrotto, e per questo votato in massa.
La classe meno abbiente è incidentalmente anche quella che ancora sostiene il regime e che alle elezioni del 2005 ha fatto la fortuna del presidente Mahmoud Ahmadinejad, considerato per i suoi modi frugali e la sua fama di incorruttibile un outsider rispetto all’establishment pasciuto e corrotto, e per questo votato in massa.
A uscire distrutta dalla svalutazione contro il dollaro è invece la classe media con aspirazioni internazionali, proprio quella che è tradizionalmente più ostile al regime. Soffre perché non può più permettersi i beni che prima importava dall’estero, come gli iPhone – tanto per fare un esempio simbolo – o perché, come nel caso dei bazaari, i commercianti, non riesce più a fare affari con l’estero. Ma le importazioni di beni pagati in dollari non sono tutto, anzi, sono soltanto un settore limitato. Sono per i “fighetti di Teheran nord”, tanto per usare una definizione di strada, quindi quelli che nel 2009 hanno protestato contro la rielezione di Ahmadinejad ma non sono riusciti a coinvolgere il resto del paese, anzi, che sono stati menati dai bassiji, i picchiatori prezzolati che vengono dalla fascia più povera e però più attaccata allo status quo attuale.

La svalutazione del rial contro il dollaro e la punizione collettiva toccata alla classe media non sono fatti avvenuti ora, all’improvviso, ma sono stati preparati nel tempo dalla classe politica dirigente. E spiegano perché il governo non si sente troppo minacciato dall’ “iperinflazione”, che dal luglio 2010, quando sono entrate in vigore le sanzioni, ha deprezzato il rial del 71 per cento. Il disastro monetario non conduce per forza al regime change, come dimostrano i casi dello Zimbabwe (2008), dove Robert Mugabe è ancora al potere, e della Corea del nord (dal 2009 al 2011), dove la dinastia dei Kim è inamovibile.
Solo il dieci per cento di debito
Ehad Mostaque, analista della Religare Capital Markets ripreso da Izabella Kaminska del Financial Times, sostiene che in Iran i fondamentali economici stanno bene. La bilancia tra import ed export è in sostanziale pareggio, attorno ai 55-60 miliardi di dollari. Il governo ha a disposizione anche una riserva di valuta straniera da 100 miliardi di dollari e novecento tonnellate di oro. In un’economia da 480 miliardi di dollari, vuol dire che il collasso non è neanche all’orizzonte. Inoltre, dice Mostaque, i beni di consumo base come derrate alimentari e gasolio arrivano ancora sul mercato allo stesso prezzo, e il governo non ha più intenzione di ritirare i sussidi che aiutano la popolazione. L’Iran ha avuto un surplus di cassa ininterrotto per 13 anni e ha un debito minimo, attorno al 10 per cento del prodotto interno lordo (quello dell’Italia è del 124 per cento).
Le sanzioni internazionali si fanno sentire e se non ci fossero l’Iran avrebbe venduto greggio per 110 miliardi di dollari e non per soli 40 – secondo le proiezioni – ma non sono capaci di innescare un cambio ai vertici del potere. Al massimo, faciliteranno la caduta di Ahmadinejad, che però è già in disgrazia da tempo con l’establishment politico e religioso che conta, che non piangerà troppo.
Solo il dieci per cento di debito
Ehad Mostaque, analista della Religare Capital Markets ripreso da Izabella Kaminska del Financial Times, sostiene che in Iran i fondamentali economici stanno bene. La bilancia tra import ed export è in sostanziale pareggio, attorno ai 55-60 miliardi di dollari. Il governo ha a disposizione anche una riserva di valuta straniera da 100 miliardi di dollari e novecento tonnellate di oro. In un’economia da 480 miliardi di dollari, vuol dire che il collasso non è neanche all’orizzonte. Inoltre, dice Mostaque, i beni di consumo base come derrate alimentari e gasolio arrivano ancora sul mercato allo stesso prezzo, e il governo non ha più intenzione di ritirare i sussidi che aiutano la popolazione. L’Iran ha avuto un surplus di cassa ininterrotto per 13 anni e ha un debito minimo, attorno al 10 per cento del prodotto interno lordo (quello dell’Italia è del 124 per cento).
Le sanzioni internazionali si fanno sentire e se non ci fossero l’Iran avrebbe venduto greggio per 110 miliardi di dollari e non per soli 40 – secondo le proiezioni – ma non sono capaci di innescare un cambio ai vertici del potere. Al massimo, faciliteranno la caduta di Ahmadinejad, che però è già in disgrazia da tempo con l’establishment politico e religioso che conta, che non piangerà troppo.
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