Un miliardo in meno di spesa su 200 miliardi per ospedali e cure non può essere la fine del mondo. Indagine sui numeri veri
E va bene che la Repubblica è tutta una iperbole, ma ieri il vicedirettore Massimo Giannini ha superato i suoi maestri: “L’Italia ha ormai imboccato un sentiero che porta alla Grecia e non a Berlino”; “con questi interventi selettivi al contrario, la spending review assume i contorni dell’accanimento terapeutico”. Di che sta parlando? Di una manovra da 11,6 miliardi di euro su un prodotto lordo di mille e 600 miliardi e una spesa pubblica al netto degli interessi pari a 653 miliardi. Quanto all’accanimento, riguarda la riduzione di un miliardo alla Sanità per la quale vengono stanziati ogni anno oltre duecento (!) miliardi di euro. Se poi si va a guardare il dettaglio, si scopre che vengono toccati gli acquisti di beni e servizi e dispositivi medici. L’industria farmaceutica minaccia cassa integrazione e chiusura degli stabilimenti, le regioni denunciano che gli ospedali rimarranno senza siringhe. Ma il Consiglio dei ministri parla di abbassare il fabbisogno, cioè l’impegno di spesa per il 2013, non la spesa storica.
Nel documento presentato ad aprile da Piero Giarda, Giuliano Amato e Francesco Giavazzi, il totale della spesa rivedibile (cioè quella dove si possono fare interventi senza comunque ridimensionare il perimetro dello stato sociale) ammonta a 285 miliardi; un terzo esatto s’annida nel settore sanitario per un totale di 97 miliardi e seicento milioni. Dunque, per il 2013 non s’interviene con la falce né con l’accetta, ma con le forbicine per le sopracciglia. La spending review, proprio perché non è lineare, ha deciso di toccare le due voci alle quali va il grosso delle erogazioni: le retribuzioni lorde (pari a 28,3 miliardi) e i consumi intermedi (che sono 69 miliardi). Su salari e stipendi, però, non c’è più molto da fare perché è in vigore il blocco dei contratti fino al 2014. Dunque, si riducono pro tempore solo in termini reali, cioè non recuperano l’inflazione. Su beni e servizi il taglio ammonta all’1,7 per cento. Quisquilie. Il Sole 24 Ore, che certo non ignora i farmaceutici di Confindustria, etichetta come “bassa” l’efficacia del provvedimento, proprio per la difficoltà di districarsi nella giungla degli acquisti dove s’annidano sprechi, inefficienze, favori, come denunciano da sempre economisti di scuola diversa come Pierluigi Ciocca o Mario Baldassarri.
Se non si vuol far demagogia a buon mercato, bisogna apprezzare che la legge di stabilità, la “finanziaria bis”, come la chiama la Repubblica, intenda mettere le mani in questa melassa maleodorante, dalla Sanità agli Enti locali. Anche da qui si levano già alti lai, ma in fondo si tratta di appena 2,2 miliardi su una spesa rivedibile (sempre costruita secondo il canone Giarda) stimata in 71,7 miliardi (20,2 per le regioni, 7,3 per le province e 44,3 per i comuni). Questi risparmi sono compensati dal fatto che il trasporto locale avrà 1,6 miliardi grazie al fondo finanziato con le accise sui carburanti. Servizi veri, non distribuzione a pioggia di prebende. Il punto, dunque, non è il poco che si è fatto, ma il molto che si deve fare. Perché resta davvero tanto, troppo, grasso da prosciugare nel corpaccione del Leviatano. A chi lamenta la reazione centralistica che soffoca le autonomie territoriali, andrebbero mostrate due tabelle in base alle quali gli enti locali più piccoli spendono pro capite molto più di quelli grandi. Un controsenso, visto che i bisogni degli abitanti nelle grandi aree urbane sono superiori (basti pensare al costo dei trasporti). A meno che non si ammetta che piccolo è dispendioso perché attraverso il bilancio pubblico passa il controllo sociale e il favore politico. E in tal caso, più ci si avvicina alla “gente” più si spende e si spande.
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