martedì 16 ottobre 2012

Perché è un bel po’ naïf attendersi da Monti la “rivoluzione liberale”, di Marco Valerio Lo Prete e Alberto Brambilla


Girotondo disilluso


Boldrin, Brunetta, Calenda, Gros-Pietro e Sapelli chiosano l’ennesima frustata di Alesina e Giavazzi ai tecnici

Roma. E’ legittimo attendersi da Mario Monti la “rivoluzione liberale” in Italia? E’ realistico esigere un rinnovamento economico e sociale del paese così radicale da parte di un governo di tecnici, sostenuto da una maggioranza politicamente eterogenea, e per lo più legittimato con forza dalla comunità internazionale ma con riluttanza da quella nazionale? Si direbbe di “sì”, a giudicare dall’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera di ieri, ultimo di una lunga linea. Eppure non tutti, nella grande e allargata famiglia dei liberali, ci credono.
I due economisti-editorialisti del quotidiano di Ferruccio de Bortoli, chiosando la legge di stabilità approvata dal Consiglio dei ministri, hanno parlato di “indigestione delle imposte”, con riferimento ai troppi balzelli. E hanno proposto una strada diversa: il taglio del 20 per cento della spesa pubblica, senza toccare pensioni e spesa sociale, “consentirebbe di risparmiare 80 miliardi e di ridurre la pressione fiscale di 10 punti”. E non cambia molto il fatto che ora potrebbero essere modificati alcuni dei punti più contestati della legge di stabilità: secondo alcune fonti, infatti, il governo starebbe valutando una modifica alla norma che introduce retroattivamente i tagli delle detrazioni. Il punto è che “il governo Monti può passare alla storia in due modi. Uno, importante certo, ma più modesto, come un esecutivo che ha continuato sulla via del rigore tradizionale evitandoci il baratro finanziario. Ma potrebbe passare alla storia come il governo che ha avviato una rivoluzione liberale”.
Michele Boldrin, economista della Washington University di St. Louis e promotore del manifesto liberista “Fermare il declino”, spiega al Foglio perché le aspettative di Alesina e Giavazzi siano decisamente mal riposte: “Mi sembra palese che un governo tecnico non potrà mai cambiare l’Italia, e questo nonostante esso sia più responsabile e consapevole del precedente. Non mi aspetto grandi cambiamenti ma la stessa identica cosa che fecero Amato prima e Ciampi poi nel 1992-’94: tasse, tamponamenti, alcune piccole razionalizzazioni, una riduzione degli eccessi più sfrenati”. In modo che “l’equilibrio finanziario gracile e debole venga raggiunto, ma tenere i conti a posto non significa crescere”. Proprio lo sviluppo è invece al centro del programma di “Fermare il declino”: “Non è chiaro cosa si intenda per ‘rivoluzione liberale’, ma so per certo cosa bisogna fare, e sono obiettivi meno roboanti e di senso comune, come tagliare la spesa pubblica, fare la legge sul conflitto di interessi, ridurre brutalmente i costi della burocrazia politico-amministrativa e rifare il federalismo da cima a fondo”. Ragiona in modo simile Carlo Calenda, imprenditore e uno degli animatori del partito-pensatoio montezemoliano ItaliaFutura: “Sin dall’inizio non era legittimo attendersi una rivoluzione liberale da Monti, se non altro perché metà della coalizione di governo, ovvero il Pd, non la vuole – replica a distanza ad Alesina e Giavazzi – L’austerity e le manovre correttive sui bilanci sono grigie, ma le ricette per la crescita sono tutt’altro che incolori. Occorre scegliere, per esempio, tra un’impostazione che prevede taglio delle imposte e spazio per l’iniziativa privata, e un’altra che privilegia politica industriale e intervento dello stato. Oggi il Pd preferisce il modello socialdemocratico e anche la legge di stabilità non poteva che risentirne”. Sull’ultimo provvedimento del governo, comunque, Calenda non si schiera tra i più critici, anzi: “La legge di stabilità prefigura una direzione di marcia liberista, affiancando taglio della spesa pubblica e taglio dell’Irpef, contemporaneamente aumentando le imposte sui consumi”.
Decisamente più tranchant è Giulio Sapelli: “A rigor di logica, se questo fosse veramente il governo dei tecnici e non dipendesse dal Parlamento, potrebbe fare questa rivoluzione liberale, perché in passato, in momenti di sospensione della democrazia, tutte le realizzazioni sono state imposte dall’alto”, osserva il docente di Storia dell’economia dell’Università statale di Milano. “Questo però non è il loro caso perché, in primo luogo, sono dei finti tecnici: non hanno le competenze. Inoltre dipendono dai partiti, sono un dictator romano, cioè sono sopra il Senato ma dipendono da esso”. Sapelli, inoltre, rileva che i tecnici “non sono portatori di una politica liberale”, e lo dice riferendosi all’operato di Monti da commissario Ue alla Concorrenza quando, nel 2001, bloccò la fusione tra General electric e Honeywell. “Ha una concezione dell’Antitrust non anglosassone,  piuttosto vuole definire dall’alto la dimensione ottimale di mercato. Ciò non significa essere liberali ma neo amministrativi”.
Più possibilista invece Gian Maria Gros-Pietro, economista della Luiss di Roma: il problema è che il governo tecnico ha un tempo troppo limitato per innescare una rivoluzione liberale. “Costruire una società liberale, in cui le persone sono libere anche dalle sopraffazioni create a volte dal mercato, è un impegno molto lungo, e Monti non ha il tempo di fare tutto – dice l’economista e dirigente d’azienda italiano che siede anche nel cda di Fiat – Eppure il premier ha seminato bene in diversi campi: dalla politica fiscale all’istruzione, fino al mercato del lavoro, con l’idea che si debbano premiare i giovani i cui diritti e aspirazioni sono stati compressi”. Anche l’ultima legge di stabilità rientra in questo contesto e in particolare lo scambio “più Iva, meno Irpef” va verso “una società in cui si danno gli incentivi giusti: ti premio se lavori, ti tasso quando consumi”.
Renato Brunetta, economista ed ex ministro del governo Berlusconi, riconosce che Monti nel dicembre scorso ha ricevuto un’eredità “positiva e dolorosa allo stesso tempo”: “Positiva perché in fondo il programma riformatore di Monti è per quasi il 90 per cento in continuità con gli impegni presi solennemente da Berlusconi in Europa con la lettera del 26 ottobre. Eredità dolorosa perché ha dovuto comunque proseguire la politica del pareggio di bilancio richiesta dalla Banca centrale europea di Jean-Claude Trichet; per questo ha aggiunto 60 miliardi di euro di manovre ai 260 miliardi di manovre del nostro governo”. Se sulle riforme di pensioni e lavoro “c’è comunque da discutere – dice Brunetta – ciò è soprattutto colpa della strana maggioranza che appoggia l’esecutivo. Il Pdl, partito di maggioranza relativa, deve infatti condividere le decisioni con un partito che le riforme liberali le ha sempre avversate, il Pd”. Anche l’Europa, conclude Brunetta, non ha facilitato la possibile scossa liberale dell’Italia: “Un po’ perché ha guardato soltanto ai saldi contabili e non al modo in cui questi venivano raggiunti, un po’ perché ha fatto affidamento alla credibilità di Monti a prescindere dal merito di certe sue riforme”.

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