giovedì 11 ottobre 2012

La questione decisiva il rapporto tra fede e ragione, di Stefano Alberto


Per superare la grande frattura tra sapere e credere

Ora è vero. / Ma è stato così falso / Che continua ad essere impossibile». Don Giussani così commenta questi versi del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez, citati quali post scriptum per concludere il volume La coscienza religiosa dell’uomo moderno apparso in prima edizione nel 1985: «Quando uno intuisce il Fatto cristiano come vero, gli occorre ancora il coraggio di risentirlo possibile, nonostante le immagini negative alimentate dai modi angusti in cui esso è stato tradotto nella vita propria e della società».

Queste parole mi sono tornate alla mente riprendendo in mano la Lettera apostolica Porta Fidei, con cui Benedetto XVI indice l’Anno della fede. Se è vero che «la porta della fede (...) è sempre aperta per noi» è altrettanto vero che «capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». Questo giudizio drammatico, ripreso anche dal cardinale Angelo Scola nella sua recente Lettera pastorale (Alla scoperta del Dio vicino, n. 3), rivela una profonda consapevolezza che, per ripensare e rivivere la fede, occorre innanzitutto uno sguardo realistico, senza facili ottimismi o ingiustificata negatività, alla situazione attuale e alle vere domande che essa urge. C’è ancora posto per la fede non solo nella vita dell’uomo contemporaneo, ma anche nello spazio pubblico? E cos’è la fede, una fede non ridotta a sentimentalismo o a regole di comportamento? Non è un caso che l’indizione dell’Anno della fede sia esplicitamente collegata da Benedetto XVI alla ricorrenza del cinquantesimo anniversario dell’apertura del Vaticano II. Nella conclusione del discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, papa Ratzinger ha così riassunto le ragioni della sua importanza: «Il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come "apertura verso il mondo", appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme».

Sapere e credere. Che il rapporto tra fede e ragione sia la questione decisiva, emerge in tutto il ricco magistero di Benedetto XVI. Basti ricordare, tra i numerosi altri, i grandi "discorsi di settembre", nel 2006 all’Università di Regensburg, nel 2008 al Collège des Bernardins a Parigi e nel 2011 al Bundestag di Berlino, che appaiono oggi più chiaramente quasi come passi del cammino di preparazione all’Anno della fede.
La grande frattura tra sapere e credere, così caratteristica della mentalità attuale, è il frutto della duplice riduzione della fede (ricondotta a sentimento soggettivo o a moralismo) e della ragione (ricondotta positivisticamente allo sperimentabile della scienza) operate dalla modernità.

«Egli si è mostrato». La stessa ragione dell’uomo però, anche in questi tempi così confusi, porta insita l’«esigenza di ciò che vale e permane sempre» e «anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui» (Parigi). Così l’odierna confusione ha non poche analogie con quella che si trovò ad affrontare il primo annuncio cristiano, agli inizi, come testimonia l’avventura di Paolo nel cuore della cultura di allora, all’Areopago di Atene: «Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere» (Parigi). Ma l’uomo non può raggiungerlo con la sola forza del suo pensiero. Ecco la novità dirompente dell’annuncio cristiano a tutti, che apre la ragione alla conoscenza nuova della fede, al riconoscimento di Cristo presente: «Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero, ma in un fatto: Egli si è mostrato» (Parigi).

Afferrati da Cristo. L’umiltà di Dio che in Cristo entra nel tempo e nello spazio, assumendo la nostra condizione umana, trova l’umiltà della nostra ragione che lo accoglie, che si apre alla verità? C’è un’ultima obiezione bene espressa da Malraux, che riecheggia quella di Jiménez citata all’inizio: «Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità» (La tentazione dell’Occidente), che può essere quella di ogni uomo contemporaneo. Ma Benedetto XVI non ha paura a guardarla bene in faccia. L’ha fatto nel recente incontro estivo con il circolo dei suoi ex-studenti: «Come si può avere la verità? Questo è intolleranza! L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità». Ma ecco la risposta, che, come un dono totalmente gratuito, riapre il dramma della libertà tra accoglienza e rifiuto: noi non siamo possessori della verità, è la verità che ci possiede, «siamo afferrati da lei», e «solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi (...) non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra».

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