lunedì 1 ottobre 2012

Perché le regioni, così come sono, sono un rischio per lo stato, di Giuseppe Vegas


Dopo quello che è successo, si può ragionare in due modi: adottare misure per razionalizzare e meglio controllare la spesa delle regioni – il che ovviamente è assolutamente condivisibile – oppure porsi la domanda di fondo se le regioni hanno ancora senso o no. Come la crisi che stiamo attraversando ha ampiamente dimostrato, la questione non è più se la norma di legge consente o non consente un certo tipo di comportamento, ma se quella norma è coerente con i principi generali di etica. E questo vale non solo per la legge ordinaria, ma, a maggior ragione, per le costituzioni. Analogamente, la crisi ha dimostrato che un approccio per così dire “marginalistico”, cioè quello di fare piccole correzioni a fronte di evidenti storture e quello del “quietare e sopire”, sperando che i problemi si allontanino nel tempo e tocchi a qualcun altro risolverli, non basta più in tempi straordinari come quelli che stiamo attraversando.
Tutti abbiamo considerato con favore l’approccio del federalismo, sperando che esso costituisse lo strumento per rendere concreto il principio di sussidiarietà, in base al quale l’ente pubblico più vicino al cittadino è in grado di meglio soddisfare i suoi bisogni. Gli eventi clamorosi dell’ultimo periodo dovrebbero ormai rendere chiaro a tutti che la via di dare più poteri a enti difficilmente controllabili non sempre porta con sé una maggiore soddisfazione per l’individuo. Se vogliamo essere sinceri con noi stessi, dobbiamo amaramente riconoscere che con il federalismo e il decentramento ci siamo sbagliati. Per lo meno, per come il principio è stato realizzato nel nostro paese. Dal 1970 a oggi, da quando cioè sono state attuate le regioni, il risultato non è stato quello di avvicinare le istituzioni ai cittadini, ma di creare una pluralità di centri di potere che non solo sono costati – e parecchio – al contribuente, ma che, di fatto, hanno creato un danno al sistema economico. Il fatto, ad esempio, che da noi esistano venti regolamentazioni diverse per le autorizzazioni alle imprese, per l’artigianato, per l’agricoltura, per l’urbanistica, non rende forse la vita molto più difficile a chi voglia investire in Italia, obbligandolo a valutare venti diverse legislazioni e quindi, nella sostanza, invitandolo a scappare? Non rappresenta ciò un rilevante danno economico?
Si sarebbe dovuta realizzare una competizione tra regioni che avrebbe dovuto portare a un abbassamento complessivo delle spese. L’ipotesi si è realizzata? Guardiamo ai costi. Nel 1973, le regioni costavano 509 milioni di euro. E’ vero che negli anni seguenti è stata attribuita loro la Sanità, ma nel 2010 i costi ammontavano a 134 miliardi, oltre il 40 per cento in più del gettito dell’Iva. Nel 1970 Giovanni Malagodi temeva che sarebbero costate 500 miliardi di lire. Profezia errata. Per difetto. Ma non è solo una questione di valore assoluto. Di quei 134 miliardi (dato 2010), oltre 110 sono spesi per la sanità (circa l’80 per cento del totale). Dunque, a esclusione della Sanità, le restanti spese regionali sono, tutto sommato, modeste e certo la loro erogazione non giustifica il mantenimento di enti costosi, né può essere invocata a sostegno della tesi che si tratterebbe di enti che hanno il potere di incidere consistentemente sull’andamento delle economie delle diverse realtà territoriali del paese. Orbene, è noto che esistono modelli diversi regionali in materia sanitaria, ma è altresì principio generale che debbano essere garantiti su tutto il territorio nazionale livelli essenziali di servizio identici per tutti i cittadini. Dunque, in realtà, a cosa serve disporre di un’ampia devoluzione e differenziazione dei centri di spesa, quando a tutti i cittadini devono essere garantite prestazioni analoghe? Si potrà rispondere che serve principalmente a consentire l’adozione di una serie di decisioni sulle nomine delle gestioni amministrative sanitarie. Il che non ci dà grande sollievo. D’altronde, se pure esistono differenze territoriali, nessuno pensa certo a garantire la sicurezza pubblica o la giustizia secondo moduli regionali differenziati.
Errare è umano, ma perseverare… Ad esempio, è in dirittura d’arrivo la riforma della legge di contabilità pubblica, in attuazione del nuovo principio costituzionale del pareggio di bilancio. Mentre il testo che sta per essere portato all’esame del Parlamento prevede il divieto per lo stato di accendere nuovi debiti, esso continua a consentire alle regioni di potersi indebitare per coprire spese di investimento, ben sapendo che non è raro il caso che si etichettino come investimenti vere e proprie spese correnti. In sostanza, gli enti decentrati hanno la possibilità di far correre maggiori rischi alla finanza pubblica rispetto allo stato centrale. Il tutto perché l’ultimo comma del vigente articolo 119 della Costituzione lo consente.
E qui torniamo alla nostra domanda iniziale. Se il momento è effettivamente drammatico, non bastano più le correzioni di facciata. Occorre intervenire profondamente, prima che sia troppo tardi. Iniziando dalle innovazioni, magari radicali, ma realistiche. La prima potrebbe essere quella semplicemente di sopprimere l’istituto delle regioni, cancellandolo dalla Costituzione. Le funzioni attualmente svolte, una volta eliminate quelle inutili, o duplicate, potrebbero essere tranquillamente assolte dall’amministrazione statale. E magari un ammalato potrebbe scoprire che nella propria città è curato bene e non ha più bisogno di spostarsi per un ricovero.

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