Già decapitati i governi di Islanda, Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia, Italia. Altri seguiranno
“L’Italia non ha corrisposto, nella sua classe dirigente, alle attese che molti avevano in essa riposto, ma il governo è sempre e soprattutto un fatto politico, risultante da equilibri politici. Un governo di tecnici o è una trovata qualunquista o è una soluzione sovversiva” (Guido Carli, intervista a Eugenio Scalfari, 10 agosto 1975)
Aveva proprio ragione Gustave Flaubert: non si riesce a evitare i luoghi comuni, anche perché talvolta esprimono scomode verità. Prendiamo Italia e Grecia; sì, proprio loro, “stessa faccia stessa razza”, stesso destino politico. Nel giorno in cui a Roma si manovra per un governo d’emergenza, ad Atene si raggiunge l’intesa per un esecutivo di salute pubblica. Mario Monti di qua, Lucas Papademos di là. Due economisti d.o.c., l’uno ex commissario europeo, l’altro ex governatore della Banca centrale greca, poi vicepresidente di quella europea. Uomini senza partito, ma non impolitici, perché intendono farsi sostenere da larghe intese parlamentari. Figure che rassicurano i mercati, cioè le grandi banche internazionali e i signori della moneta, dalla City a Wall Street passando per Francoforte. Personalità che tranquillizzano Bruxelles. Uomini di Davos esponenti di quella élite che ogni anno a gennaio si riunisce ai piedi della montagna incantata, gli untori della peste finanziaria, secondo i ragazzi di Occupy o le casalinghe inquiete del Tea Party Movement, le analisi sraffiane del manifesto e i proclami della Padania.
Una faccia, una razza, una politica economica: rigore, sacrifici, tagli alle pensioni, riduzione dei dipendenti pubblici, privatizzazioni, vendita dei beni pubblici, tagli e tasse per domare i tassi. Insomma, tutta la cassetta del Davos consensus, perché nell’amena cittadina sulle Alpi svizzere non si fanno solo affari, non si stringono amicizie e fratellanze, ma si costruisce una cultura, un’analisi comune degli interessi di fondo, una Weltanschauung perfino.
I tecnocrati salgono al potere dopo che i governi legittimamente eletti dichiarano forfait, incapaci di gestire le proprie interne contraddizioni, privi della forza d’urto in grado di contrastare l’onda della speculazione che decompone i loro stessi blocchi sociali. La crisi del consenso legittima governi senza il consenso esplicito espresso dal voto. Ma nello stesso tempo erode le basi della legittimità democratica e della sovranità nazionale. Non è la prima volta. Da almeno vent’anni questo spettro gira per il mondo evocato dalle tempeste finanziarie che si sono abbattute con una impressionante successione: l’attacco alle corone scandinave e alle due lire (italiana e britannica) nel 1992, il Messico nel 1994, l’Asia orientale nel 1997, la Russia nel 1998, il Brasile nel 1999, l’Argentina nel 2000. Un’onda lunga che porta Naomi Klein a identificare la rivoluzione economica chiamata globalizzazione con la grande restaurazione antidemocratica e antipopolare. Mercati contro governi, dunque. Certo, è impressionante osservare con quale spietata determinazione oggi in Europa rotolano le teste di governanti e leader politici che non hanno saputo arginare la marea: Geir Haarde, Brian Cowen, José Sócrates, José Luis Rodríguez Zapatero, George Papandreou, Silvio Berlusconi. E chi altro ancora?
Comincia l’Islanda, primo stato a fare fallimento. Non in assoluto, sia chiaro: dall’800 in poi, hanno documentato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, un centinaio di paesi ha attraversato periodi di vera e propria bancarotta, più o meno lunghi. Tra essi spicca la Grecia in default per quasi cinquant’anni dalla sua indipendenza, mentre l’Italia ha attraversato appena quattro anni davvero fallimentari, quando dal 1866 dovette sospendere il cambio della lira e introdurre il corso forzoso perché il suo debito sovrano, gonfiato dalla terza guerra con l’Austria e dalla crisi, era sotto l’attacco della speculazione. In tempi più recenti è toccato all’Argentina. Ma un paese europeo, prospero, anzi molto ricco, come l’Islanda, sembrava al di fuori da ogni pericolo.
Stiamo parlando di 320 mila abitanti e di tre banche, tutto va visto nelle adeguate proporzioni. Eppure c’è chi scopre la nuova Atene, il luogo ideale della democrazia diretta e della rivolta anti tecnocratica, proprio tra i soffioni ghiacciati dell’Islanda: l’ultima Thule dei romani diventa la novella isola di Utopia che mette insieme il pensiero critico di destra, di centro e di sinistra. Del resto, le saghe sono nate tra quelle nebbie e quei vapori. Ne tesse le lodi Paul Krugman. Ma anche la pubblicistica euroscettica, i liberisti che rivendicano il dovere di fallire per le banche e per i governi, i neo nazionalisti che aspirano a chiudere le frontiere per isolare il contagio e i neo gauchiste che non vogliono pagare i debiti. Insomma, tutti coloro che da una parte e dall’altra se la prendono con il Davos consensus, con il pensiero unico dell’eurocrazia.
La crisi islandese ha la propria genesi nei primi mesi del 2006, quando si manifestano i primi casi di insolvenza delle banche: la Glitnir, la Kaupthing, la Landsbanki. La situazione peggiora l’anno seguente, per poi precipitare a ottobre del 2008 quando l’intera isola viene travolta dal crollo delle Borse mondiali seguite al default di Lehman Brothers. Le banche si trovano esposte per un ammontare pari a undici volte il prodotto lordo del paese, hanno preso il denaro soprattutto da Inghilterra e Olanda per investirlo negli altri paesi scandinavi e lucrare sulla differenza di tassi d’interesse. Ma anche famiglie e imprese hanno accumulato debiti insostenibili. Il governo interviene per stabilizzare la crisi finanziaria e aumenta il debito pubblico. A quel punto, nasce una pressione per bloccare il rimborso dei debito estero, prima una raccolta di firme, poi in piazza con le casseruole, proprio come gli argentini, a Reykjavik, davanti al parlamento. Il primo ministro, il conservatore Geir H. Haarde, si dimette. Il 25 aprile 2009 elezioni anticipate portano a un risultato incerto, ne esce un governo di coalizione, formato dall’Alleanza Socialdemocratica e dal Movimento della Sinistra Verde, e guidato da Jóhanna Siguröardóttir, ex hostess, sindacalista, lesbica dichiarata e legalmente sposata con una autrice e sceneggiatrice. Nel marzo del 2010 con un altro referendum, il 93 per cento degli islandesi si oppone al rimborso. Una nuova proposta di rimborso viene bocciata dal voto popolare nel marzo del 2011. In altre parole, il debito estero è letteralmente “cancellato”, perché causato da azioni criminose di banchieri e membri del governo. Insomma, “il vizio di imputare le cause dei nostri guai alle democrazie plutocratiche resiste tenacemente”, scriveva Carli nel 1986.
Quelli del movimento “Io non pago”, la chiamano la rivoluzione islandese, ma i risparmiatori inglesi e olandesi danno fiato ai corni da guerra. Anche perché senza l’intervento del Fondo monetario, i prestiti degli Stati Uniti e dell’Unione europea, l’isola dei vulcani di ghiaccio, non sarebbe risorta dalle ceneri. Restano molti punti deboli, come l’alto debito e il surriscaldamento dei prezzi. E la verità è che nemmeno la piccola Thule ce l’ha fatta con le proprie forze, nonostante possa liberamente svalutare la sua corona.
Mentre si prepara una nuova Costituzione ecologista, partecipativa (tutti hanno dato i loro suggerimenti via Internet) e Web friendly (vietato tagliare la connessione), McDonald’s lascia l’isola. I tre fast food chiudono a causa dei prezzi troppo alti degli alimenti e della difficoltà di mandare avanti l’impresa in un paese isolato. Titolare del franchising è Jon Gardar Ogmundsson. La merce proviene dalla Germania e a causa della crisi e della svalutazione, i costi sono praticamente raddoppiati: “I locali non sono mai stati così pieni, ma i profitti non sono mai stati così bassi. Non ha senso che un chilo di cipolle mi costi come una buona bottiglia di whisky”.
La “tigre celtica”, così era stata chiamata l’Irlanda, ha perso le sue zanne nel 2008, ma la situazione è esplosa nell’estate del 2009, quando il governo Cowen si è detto pronto al salvataggio da circa 50 miliardi di euro delle sue banche in crisi. Il contraccolpo si è fatto sentire sui conti, facendo lievitare il deficit al 32 per cento. Il paese ha risposto con una manovra lacrime e sangue da 15 miliardi da qui al 2014, dove i protagonisti indiscussi sono i tagli alla spesa pubblica. E’ stata invece salvata la tassazione agevolata del 12,5 per cento per le imprese, tradizionale fiore all’occhiello del paese. Sullo sfondo una profonda riforma del sistema finanziario che ha fatto guadagnare a Dublino il plauso del Fmi. Eppure, i tassi sono ancora all’8 per cento e le banche hanno nella Bce l’unica fonte di finanziamento. Intanto, è caduto il governo, si sono fatte le elezioni anticipate, ha perso il partito nazionalista al potere, il Fianna Fail, è andato al potere il Fine Gael di centrodestra, ma il leader Enda Kenny può governare solo con il sostegno (in apparenza paradossale) dei laburisti. Quanto durerà?
La stessa domanda vale per i socialdemocratici (conservatori) che hanno rimpiazzato i socialisti in Portogallo. José Sòcrates ha gettato la spugna dopo una serie di estenuanti piani di austerità, l’ultimo dei quali bocciato dal Parlamento il 23 marzo scorso. Ma i guai non sono finiti con il cambio di mano. Il successore, Pedro Passos Coelho ha presentato una stangata biennale, nel tentativo di evitare il default e convincere le autorità europee di avere la forza necessaria per superare la crisi. Il repertorio è il solito: aumento delle imposte e nuovi tagli alla spesa per ridurre il deficit di un ulteriore 6 per cento del prodotto interno lordo rispetto a quanto si sarebbe ottenuto con le attuali politiche. Nel 2012 e nel 2013, i dipendenti pubblici riceveranno due mensilità in meno e ci saranno tagli per le pensioni superiori ai mille euro. Il settore privato potrà estendere la giornata lavorativa di 30 minuti senza dover pagare gli straordinari agli impiegati per la mezz’ora in più di lavoro. La riduzione fino al 5 per cento degli stipendi pubblici sarà applicata anche l’anno prossimo, così come i tagli alla sanità e all’istruzione, gli aumenti delle tariffe per i trasporti pubblici e le imposte sui carburanti. Il Portogallo è ancora fuori mercato e sta ricevendo circa 78 miliardi di euro dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale per evitare l’insolvenza. In cambio, si è impegnato a tagliare il deficit del 5,9 per cento del prodotto interno lordo quest’anno, del 4,5 per cento nel 2012 e del 3 per cento nel 2013. A Lisbona, per il momento, non viene richiesto il pareggio del bilancio anche se ha superato quota 90, il limite oltre il quale scatta la perdita di sviluppo.
Tagliare la testa di José Luis Rodríguez Zapatero si è rivelato più difficile del previsto, perché il socialista, conosciuto con l’appellativo di “bambi”, è in realtà una vecchia volpe. Ha giocato d’anticipo sperando di trovare le truppe del Partido Popular impreparate. Non solo, è uscito di scena annunciando di non candidarsi più, lasciando al suo successore l’onere di sfidare Mariano Rajoy che i sondaggi vedono ampiamente in testa. Se tra otto giorni le urne confermeranno le previsioni, toccherà a lui preparare l’amara pozione. Vedremo con quali ingredienti, perché il programma elettorale è spesso flatus vocis. Felipe González, l’ex leader socialista mentore di Zapatero sostiene che le elezioni anticipate, dopo aver approvato alcune travagliate riforme (come le pensioni) è stata l’astuta mossa che ha sottratto Madrid all’attacco della speculazione, a differenza di Atene e Roma. Nel gioco a rimpiattino tra politica e mercati, questa volta la politica ha avuto la meglio. E tuttavia resta intatta la fragilità strutturale della Spagna che, al pari di Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda, non riesce a tenere il passo cadenzato che la Germania ha imposto alla moneta unica.
Dunque, una coazione a ripetere. Debolezze nazionali, attacchi speculativi, lacrime e sangue, aiuti promessi e concessi con il contagocce, salvataggio e minaccia di fallimento, teste che rotolano, governi tecnici o cambi politici, ma per condurre sempre e comunque politiche di austerità che schiacciano la crescita e rendono più arduo il risanamento. La lettera inviata dalla Bce all’Italia, segue una matrice standard, con qualche variante nazionale. Da anni viene prescritto lo stesso salasso e i malati sono esangui. Tra stop and go, l’Unione europea e la Bce prevedono un’altra frenata l’anno prossimo.
Dietro la crisi dei debiti sovrani c’è il cumularsi di squilibri fondamentali che hanno spaccato in due l’Eurolandia. Ciò si manifesta nelle bilance dei pagamenti dei singoli paesi. Lo spiega bene uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa. La conclusione è che non esiste una ricetta buona per tutti. Il Portogallo ha un problema di sviluppo e produttività, un po’ come l’Italia la quale tuttavia possiede un potenziale industriale maggiore e ha forte capacità di esportare merci. La Spagna deve smaltire la sovrapproduzione di case e i debiti inesigibili accumulati dalle casse di risparmio, mentre la stretta peggiora la disoccupazione che, con il 21 per cento medio, resta il record assoluto nell’occidente. La Grecia non è solvibile. L’Irlanda deve battere altre strade, oltre la spregiudicata concorrenza fiscale con la quale ha attirato i grandi gruppi multinazionali. Parigi non riesce a ridurre il disavanzo (che con il 6 per cento raddoppia i limiti di Maastricht). Ma anche il fuoco tedesco rischia di spegnersi (una crescita dello 0,8 per cento appena nel 2012), a meno che il governo non scelga di espandere la domanda interna. Una mossa che darebbe sollievo a Italia, Francia e Spagna, suoi principali partner commerciali. Barry Eichengreen fa l’esempio americano per dimostrare come possono essere compensati gli squilibri interni dei singoli stati. Gli Usa battono una sola moneta, hanno una politica economica federale, un mercato del lavoro unificato, un mercato dei capitali integrato.
Gli gnomi di Francoforte e di Bruxelles faranno rotolare ancora tante teste, tutte quelle incapaci di adattarsi al pensiero dominante. Tecnici e politici, tutti nella stessa barca. Un gioco al massacro, se non si va al cuore del problema, cioè il modo in cui è stata costruita l’unione monetaria (dal Patto di stabilità alla Banca centrale). Così, l’idea di spezzare il meccanismo infernale comincia a prendere quota. La moneta unica non funziona più, ormai è evidente. Passare ai due euro, ipotesi gettonata a Berlino, non conviene. Per chi scende in serie B, è meglio tornare alla propria moneta, svalutarla, recuperare margini di manovra. Ma, attenzione, “il marco ombra sarebbe molto più alto dell’euro, provocando un contraccolpo duro in Germania”, spiega Alan Greenspan favorevole a una Bce prestatrice di ultima istanza: “Solo la Banca centrale può creare moneta. Lo statuto lo vieta? Il Patto di stabilità vietava tante cose che poi sono state fatte”. Si può riaprire il cantiere di Maastricht e avviare quella riforma lasciata in ghiacciaia nel 2004, quando furono Germania e Francia a non rispettare il criterio chiave, il deficit pubblico. Proprio Mario Monti, allora, aveva proposto di distinguere tra spesa pubblica per consumi e per investimenti. Ma ci vuole tempo e già si sente il crepitio delle Machinepistolen. I paesi “marginali” potrebbero scegliere di coordinarsi e non procedere in ordine sparso, facendo da contrappeso al direttorio franco-tedesco. Anche questo, per il momento, non è all’ordine del giorno. Non resta che tornare ai classici, aprire gli “Amori” di Ovidio e rileggere uno dei suoi versi più famosi: “E così io non posso vivere né con te né senza di te”. Era per Syria, potremmo dedicarlo all’Europa.
Aveva proprio ragione Gustave Flaubert: non si riesce a evitare i luoghi comuni, anche perché talvolta esprimono scomode verità. Prendiamo Italia e Grecia; sì, proprio loro, “stessa faccia stessa razza”, stesso destino politico. Nel giorno in cui a Roma si manovra per un governo d’emergenza, ad Atene si raggiunge l’intesa per un esecutivo di salute pubblica. Mario Monti di qua, Lucas Papademos di là. Due economisti d.o.c., l’uno ex commissario europeo, l’altro ex governatore della Banca centrale greca, poi vicepresidente di quella europea. Uomini senza partito, ma non impolitici, perché intendono farsi sostenere da larghe intese parlamentari. Figure che rassicurano i mercati, cioè le grandi banche internazionali e i signori della moneta, dalla City a Wall Street passando per Francoforte. Personalità che tranquillizzano Bruxelles. Uomini di Davos esponenti di quella élite che ogni anno a gennaio si riunisce ai piedi della montagna incantata, gli untori della peste finanziaria, secondo i ragazzi di Occupy o le casalinghe inquiete del Tea Party Movement, le analisi sraffiane del manifesto e i proclami della Padania.
Una faccia, una razza, una politica economica: rigore, sacrifici, tagli alle pensioni, riduzione dei dipendenti pubblici, privatizzazioni, vendita dei beni pubblici, tagli e tasse per domare i tassi. Insomma, tutta la cassetta del Davos consensus, perché nell’amena cittadina sulle Alpi svizzere non si fanno solo affari, non si stringono amicizie e fratellanze, ma si costruisce una cultura, un’analisi comune degli interessi di fondo, una Weltanschauung perfino.
I tecnocrati salgono al potere dopo che i governi legittimamente eletti dichiarano forfait, incapaci di gestire le proprie interne contraddizioni, privi della forza d’urto in grado di contrastare l’onda della speculazione che decompone i loro stessi blocchi sociali. La crisi del consenso legittima governi senza il consenso esplicito espresso dal voto. Ma nello stesso tempo erode le basi della legittimità democratica e della sovranità nazionale. Non è la prima volta. Da almeno vent’anni questo spettro gira per il mondo evocato dalle tempeste finanziarie che si sono abbattute con una impressionante successione: l’attacco alle corone scandinave e alle due lire (italiana e britannica) nel 1992, il Messico nel 1994, l’Asia orientale nel 1997, la Russia nel 1998, il Brasile nel 1999, l’Argentina nel 2000. Un’onda lunga che porta Naomi Klein a identificare la rivoluzione economica chiamata globalizzazione con la grande restaurazione antidemocratica e antipopolare. Mercati contro governi, dunque. Certo, è impressionante osservare con quale spietata determinazione oggi in Europa rotolano le teste di governanti e leader politici che non hanno saputo arginare la marea: Geir Haarde, Brian Cowen, José Sócrates, José Luis Rodríguez Zapatero, George Papandreou, Silvio Berlusconi. E chi altro ancora?
Comincia l’Islanda, primo stato a fare fallimento. Non in assoluto, sia chiaro: dall’800 in poi, hanno documentato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, un centinaio di paesi ha attraversato periodi di vera e propria bancarotta, più o meno lunghi. Tra essi spicca la Grecia in default per quasi cinquant’anni dalla sua indipendenza, mentre l’Italia ha attraversato appena quattro anni davvero fallimentari, quando dal 1866 dovette sospendere il cambio della lira e introdurre il corso forzoso perché il suo debito sovrano, gonfiato dalla terza guerra con l’Austria e dalla crisi, era sotto l’attacco della speculazione. In tempi più recenti è toccato all’Argentina. Ma un paese europeo, prospero, anzi molto ricco, come l’Islanda, sembrava al di fuori da ogni pericolo.
Stiamo parlando di 320 mila abitanti e di tre banche, tutto va visto nelle adeguate proporzioni. Eppure c’è chi scopre la nuova Atene, il luogo ideale della democrazia diretta e della rivolta anti tecnocratica, proprio tra i soffioni ghiacciati dell’Islanda: l’ultima Thule dei romani diventa la novella isola di Utopia che mette insieme il pensiero critico di destra, di centro e di sinistra. Del resto, le saghe sono nate tra quelle nebbie e quei vapori. Ne tesse le lodi Paul Krugman. Ma anche la pubblicistica euroscettica, i liberisti che rivendicano il dovere di fallire per le banche e per i governi, i neo nazionalisti che aspirano a chiudere le frontiere per isolare il contagio e i neo gauchiste che non vogliono pagare i debiti. Insomma, tutti coloro che da una parte e dall’altra se la prendono con il Davos consensus, con il pensiero unico dell’eurocrazia.
La crisi islandese ha la propria genesi nei primi mesi del 2006, quando si manifestano i primi casi di insolvenza delle banche: la Glitnir, la Kaupthing, la Landsbanki. La situazione peggiora l’anno seguente, per poi precipitare a ottobre del 2008 quando l’intera isola viene travolta dal crollo delle Borse mondiali seguite al default di Lehman Brothers. Le banche si trovano esposte per un ammontare pari a undici volte il prodotto lordo del paese, hanno preso il denaro soprattutto da Inghilterra e Olanda per investirlo negli altri paesi scandinavi e lucrare sulla differenza di tassi d’interesse. Ma anche famiglie e imprese hanno accumulato debiti insostenibili. Il governo interviene per stabilizzare la crisi finanziaria e aumenta il debito pubblico. A quel punto, nasce una pressione per bloccare il rimborso dei debito estero, prima una raccolta di firme, poi in piazza con le casseruole, proprio come gli argentini, a Reykjavik, davanti al parlamento. Il primo ministro, il conservatore Geir H. Haarde, si dimette. Il 25 aprile 2009 elezioni anticipate portano a un risultato incerto, ne esce un governo di coalizione, formato dall’Alleanza Socialdemocratica e dal Movimento della Sinistra Verde, e guidato da Jóhanna Siguröardóttir, ex hostess, sindacalista, lesbica dichiarata e legalmente sposata con una autrice e sceneggiatrice. Nel marzo del 2010 con un altro referendum, il 93 per cento degli islandesi si oppone al rimborso. Una nuova proposta di rimborso viene bocciata dal voto popolare nel marzo del 2011. In altre parole, il debito estero è letteralmente “cancellato”, perché causato da azioni criminose di banchieri e membri del governo. Insomma, “il vizio di imputare le cause dei nostri guai alle democrazie plutocratiche resiste tenacemente”, scriveva Carli nel 1986.
Quelli del movimento “Io non pago”, la chiamano la rivoluzione islandese, ma i risparmiatori inglesi e olandesi danno fiato ai corni da guerra. Anche perché senza l’intervento del Fondo monetario, i prestiti degli Stati Uniti e dell’Unione europea, l’isola dei vulcani di ghiaccio, non sarebbe risorta dalle ceneri. Restano molti punti deboli, come l’alto debito e il surriscaldamento dei prezzi. E la verità è che nemmeno la piccola Thule ce l’ha fatta con le proprie forze, nonostante possa liberamente svalutare la sua corona.
Mentre si prepara una nuova Costituzione ecologista, partecipativa (tutti hanno dato i loro suggerimenti via Internet) e Web friendly (vietato tagliare la connessione), McDonald’s lascia l’isola. I tre fast food chiudono a causa dei prezzi troppo alti degli alimenti e della difficoltà di mandare avanti l’impresa in un paese isolato. Titolare del franchising è Jon Gardar Ogmundsson. La merce proviene dalla Germania e a causa della crisi e della svalutazione, i costi sono praticamente raddoppiati: “I locali non sono mai stati così pieni, ma i profitti non sono mai stati così bassi. Non ha senso che un chilo di cipolle mi costi come una buona bottiglia di whisky”.
La “tigre celtica”, così era stata chiamata l’Irlanda, ha perso le sue zanne nel 2008, ma la situazione è esplosa nell’estate del 2009, quando il governo Cowen si è detto pronto al salvataggio da circa 50 miliardi di euro delle sue banche in crisi. Il contraccolpo si è fatto sentire sui conti, facendo lievitare il deficit al 32 per cento. Il paese ha risposto con una manovra lacrime e sangue da 15 miliardi da qui al 2014, dove i protagonisti indiscussi sono i tagli alla spesa pubblica. E’ stata invece salvata la tassazione agevolata del 12,5 per cento per le imprese, tradizionale fiore all’occhiello del paese. Sullo sfondo una profonda riforma del sistema finanziario che ha fatto guadagnare a Dublino il plauso del Fmi. Eppure, i tassi sono ancora all’8 per cento e le banche hanno nella Bce l’unica fonte di finanziamento. Intanto, è caduto il governo, si sono fatte le elezioni anticipate, ha perso il partito nazionalista al potere, il Fianna Fail, è andato al potere il Fine Gael di centrodestra, ma il leader Enda Kenny può governare solo con il sostegno (in apparenza paradossale) dei laburisti. Quanto durerà?
La stessa domanda vale per i socialdemocratici (conservatori) che hanno rimpiazzato i socialisti in Portogallo. José Sòcrates ha gettato la spugna dopo una serie di estenuanti piani di austerità, l’ultimo dei quali bocciato dal Parlamento il 23 marzo scorso. Ma i guai non sono finiti con il cambio di mano. Il successore, Pedro Passos Coelho ha presentato una stangata biennale, nel tentativo di evitare il default e convincere le autorità europee di avere la forza necessaria per superare la crisi. Il repertorio è il solito: aumento delle imposte e nuovi tagli alla spesa per ridurre il deficit di un ulteriore 6 per cento del prodotto interno lordo rispetto a quanto si sarebbe ottenuto con le attuali politiche. Nel 2012 e nel 2013, i dipendenti pubblici riceveranno due mensilità in meno e ci saranno tagli per le pensioni superiori ai mille euro. Il settore privato potrà estendere la giornata lavorativa di 30 minuti senza dover pagare gli straordinari agli impiegati per la mezz’ora in più di lavoro. La riduzione fino al 5 per cento degli stipendi pubblici sarà applicata anche l’anno prossimo, così come i tagli alla sanità e all’istruzione, gli aumenti delle tariffe per i trasporti pubblici e le imposte sui carburanti. Il Portogallo è ancora fuori mercato e sta ricevendo circa 78 miliardi di euro dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale per evitare l’insolvenza. In cambio, si è impegnato a tagliare il deficit del 5,9 per cento del prodotto interno lordo quest’anno, del 4,5 per cento nel 2012 e del 3 per cento nel 2013. A Lisbona, per il momento, non viene richiesto il pareggio del bilancio anche se ha superato quota 90, il limite oltre il quale scatta la perdita di sviluppo.
Tagliare la testa di José Luis Rodríguez Zapatero si è rivelato più difficile del previsto, perché il socialista, conosciuto con l’appellativo di “bambi”, è in realtà una vecchia volpe. Ha giocato d’anticipo sperando di trovare le truppe del Partido Popular impreparate. Non solo, è uscito di scena annunciando di non candidarsi più, lasciando al suo successore l’onere di sfidare Mariano Rajoy che i sondaggi vedono ampiamente in testa. Se tra otto giorni le urne confermeranno le previsioni, toccherà a lui preparare l’amara pozione. Vedremo con quali ingredienti, perché il programma elettorale è spesso flatus vocis. Felipe González, l’ex leader socialista mentore di Zapatero sostiene che le elezioni anticipate, dopo aver approvato alcune travagliate riforme (come le pensioni) è stata l’astuta mossa che ha sottratto Madrid all’attacco della speculazione, a differenza di Atene e Roma. Nel gioco a rimpiattino tra politica e mercati, questa volta la politica ha avuto la meglio. E tuttavia resta intatta la fragilità strutturale della Spagna che, al pari di Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda, non riesce a tenere il passo cadenzato che la Germania ha imposto alla moneta unica.
Dunque, una coazione a ripetere. Debolezze nazionali, attacchi speculativi, lacrime e sangue, aiuti promessi e concessi con il contagocce, salvataggio e minaccia di fallimento, teste che rotolano, governi tecnici o cambi politici, ma per condurre sempre e comunque politiche di austerità che schiacciano la crescita e rendono più arduo il risanamento. La lettera inviata dalla Bce all’Italia, segue una matrice standard, con qualche variante nazionale. Da anni viene prescritto lo stesso salasso e i malati sono esangui. Tra stop and go, l’Unione europea e la Bce prevedono un’altra frenata l’anno prossimo.
Dietro la crisi dei debiti sovrani c’è il cumularsi di squilibri fondamentali che hanno spaccato in due l’Eurolandia. Ciò si manifesta nelle bilance dei pagamenti dei singoli paesi. Lo spiega bene uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa. La conclusione è che non esiste una ricetta buona per tutti. Il Portogallo ha un problema di sviluppo e produttività, un po’ come l’Italia la quale tuttavia possiede un potenziale industriale maggiore e ha forte capacità di esportare merci. La Spagna deve smaltire la sovrapproduzione di case e i debiti inesigibili accumulati dalle casse di risparmio, mentre la stretta peggiora la disoccupazione che, con il 21 per cento medio, resta il record assoluto nell’occidente. La Grecia non è solvibile. L’Irlanda deve battere altre strade, oltre la spregiudicata concorrenza fiscale con la quale ha attirato i grandi gruppi multinazionali. Parigi non riesce a ridurre il disavanzo (che con il 6 per cento raddoppia i limiti di Maastricht). Ma anche il fuoco tedesco rischia di spegnersi (una crescita dello 0,8 per cento appena nel 2012), a meno che il governo non scelga di espandere la domanda interna. Una mossa che darebbe sollievo a Italia, Francia e Spagna, suoi principali partner commerciali. Barry Eichengreen fa l’esempio americano per dimostrare come possono essere compensati gli squilibri interni dei singoli stati. Gli Usa battono una sola moneta, hanno una politica economica federale, un mercato del lavoro unificato, un mercato dei capitali integrato.
Gli gnomi di Francoforte e di Bruxelles faranno rotolare ancora tante teste, tutte quelle incapaci di adattarsi al pensiero dominante. Tecnici e politici, tutti nella stessa barca. Un gioco al massacro, se non si va al cuore del problema, cioè il modo in cui è stata costruita l’unione monetaria (dal Patto di stabilità alla Banca centrale). Così, l’idea di spezzare il meccanismo infernale comincia a prendere quota. La moneta unica non funziona più, ormai è evidente. Passare ai due euro, ipotesi gettonata a Berlino, non conviene. Per chi scende in serie B, è meglio tornare alla propria moneta, svalutarla, recuperare margini di manovra. Ma, attenzione, “il marco ombra sarebbe molto più alto dell’euro, provocando un contraccolpo duro in Germania”, spiega Alan Greenspan favorevole a una Bce prestatrice di ultima istanza: “Solo la Banca centrale può creare moneta. Lo statuto lo vieta? Il Patto di stabilità vietava tante cose che poi sono state fatte”. Si può riaprire il cantiere di Maastricht e avviare quella riforma lasciata in ghiacciaia nel 2004, quando furono Germania e Francia a non rispettare il criterio chiave, il deficit pubblico. Proprio Mario Monti, allora, aveva proposto di distinguere tra spesa pubblica per consumi e per investimenti. Ma ci vuole tempo e già si sente il crepitio delle Machinepistolen. I paesi “marginali” potrebbero scegliere di coordinarsi e non procedere in ordine sparso, facendo da contrappeso al direttorio franco-tedesco. Anche questo, per il momento, non è all’ordine del giorno. Non resta che tornare ai classici, aprire gli “Amori” di Ovidio e rileggere uno dei suoi versi più famosi: “E così io non posso vivere né con te né senza di te”. Era per Syria, potremmo dedicarlo all’Europa.
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