domenica 27 novembre 2011

Tesoro, mi si è ristretta la sovranità, di Lanfranco Pace


Come salvarsi da una democrazia sospesa

A scuola, dove si insegnano i buoni principi, ci hanno detto che sovranità è, con popolo e territorio, il trittico su cui riposa l’esistenza di uno stato. Che la sovranità è forza che unifica la comunità politica ed è tale proprio perché non ammette interruzioni.

Balle, tuona Angelo Panebianco, è un vecchio mito un ideal tipo per giuristi internazionali; la realtà è altra, viviamo di interdipendenze, fin dai tempi della pace di Westphalia. Ha ragione il professore. La realtà e la storia ci hanno insegnato che qualcosa bisogna concederla, anche nel proprio interesse. Essere protetti negli anni della guerra fredda ha avuto un prezzo ed era giusto pagarlo. Cercare di essere più forti nel mondo globale uscito dal crollo dell’ordine di Yalta, anche. Così liberamente abbiamo accettato di trasferire ulteriori elementi di sovranità ad autorità sopranazionali e ci siamo anche convinti, culturalmente, che su questa strada saremmo dovuti andare ancora più avanti. Abbiamo firmato trattati. Abbiamo delegato l’uso della spada. Poi quello della moneta: il primo nome che compare nel trattato costitutivo dell’Unione europea è quello di Sua Maestà il Re dei Belgi.

Ma in nessuna pagina è riconosciuto il diritto a mettere bocca nel funzionamento della politica e addirittura nella selezione dei gruppi dirigenti dei paesi membri. Questo è accaduto nella storia di paesi annessi con la forza, di governi quisling, di stati satelliti dell’impero sovietico. Mai in quella delle democrazie.
Siamo di fronte a un modello costituzionale di nuovo tipo. Per i precedenti si dovrebbero spulciare le pagine dei regimi commissariali della Roma repubblicana o le dottrine medioevali dell’interregno, dice il professore Alessandro Campi.
L’Italia è di fatto laboratorio politico dove si sperimenta la possibilità futura che i governi nazionali possono anche essere concepiti, fabbricati altrove e a tavolino. Chi pensava di aver aderito a una liberà comunità di stati sovrani scopre di aver aderito a un metodo e a una cultura che dice che la sovranità va e viene. Stupisce la pochezza degli argomenti di chi li accetta e li sostiene. La litania sulla crisi, sull’urgenza, sul dovere di fare in fretta, come se gli altri paesi e i leader non fossero da Obama in giù in braghe di tela. Oppure quel voler scacciare l’inquietudine, ribadendo che si è pur sempre nella norma e nel rispetto delle regole e non è come se fossimo arrivati alla scadenza della legislatura avessimo dovuto votare e qualcuno ci avesse chiesto di non farlo per non alimentare incertezza e instabilità che ecciterebbero i mercati. Sono questi gli argomenti usati dai Casini, Buttiglione e Rutelli e terzopolisti in genere: credono davvero che aprendo fra qualche mese la fase 2 e imbarcando al  governo qualche uomo di partito, magari gli stessi segretari, la politica ritroverà la faccia?

Cancellare la devastante impressione
 che in Grecia, paese che pure è sotto tutela, voteranno a febbraio, in Spagna si è addirittura votato in piena tempesta, mentre in Italia no, sarà impresa non facile.

Secondo Panebianco da noi non si vota e negli altri paesi sì, perché l’instabilità e l’incertezza di prospettive è nel dna del bicameralismo perfetto, che consente a entrambe le Camere di poter sfiduciare un governo. Eppure persino i teorici della sovranità assoluta dicono che quando la tempesta mette a rischio la nave e i capitani e i piloti sono tutti egualmente stanchi, proprio allora è necessario che i passeggeri stessi intervengano.
E’ vero anche, dice Campi, che contro i Berlusocni è scattata una crisi di rigetto, che siamo un paese particolarmente sfibrato e che da sempre c’è chi spera nel vincolo esterno per cambiare quello che non riusciamo a cambiare da soli. Una sorta di predisposizione genetica al partito che viene dall’estero. E’ vero anche che la sovranità l’abbiamo delegata e poi ce ne siamo disinteressati, che benché paese fondatore in Europa ci siamo sempre stati male, raramente abbiamo saputo fare azione efficace di lobby, in seno alla burocrazia comunitaria la Spagna conta più di noi, a Strasburgo abbiamo spesso mandato gli scarti della politica nazionale o soubrette in cerca di palcoscenico. E in anni molto, molto lontani quando accadde di aver un presidente italiano della Commissione (Franco Maria Malfatti), questi resse sì e no sei mesi prima di dimettersi e tornare alla politica nell’amata Umbria.

Ma proprio nei periodi di crisi dimettersi dalla politica è l’unico modo per allontanare la soluzione della crisi stessa. Perdere ancora un po’ sovranità nazionale anziché spingere perché una  nuova legittimità democratica a scala del continente si sottoponga al lavacro del suffragio universale, significa di fatto inchinarsi ai mercanti, a quel sistema finanziario che a torto o a ragione è visto sempre più la causa principale del disastro. Non è detto che forme di democrazia elettiva europee funzionino, spiega Panebianco, anzi sarebbe un dilemma insolubile: più si allarga l’area territoriale di governo, più si innalzano le sue responsabilità, più si allontana dai cittadini elettori e più i cittadini elettori vorrebbero che si tornasse la governo nazionale. Un circolo vizioso insomma, male con l’Europa e male senza l’Europa. Almeno provarci, però. Ha scritto Habermas che di fronte a questi problemi ci si aspetterebbe che i politici senza più rinvii mettessero sul tavolo il significato storico del progetto europeo, in altri termini la relazione fra costi a breve e utilità reale. Invece si paralizzano, preferiscono i “sondaggi d’opinione alla potenza persuasiva dei buoni argomenti”, con la vecchia scusa che non esiste il demos, il popolo europeo. Ma se è così, allora davvero ci toccherà prendere atto di un disastro che non sarà solo della moneta ma di tutto l’edifico. Una constatazione di fallimento che solo la politica piena e legittimata dal suffragio universale può fare.

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