lunedì 14 novembre 2011

Un'agenda possibile, di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


Una caratteristica distintiva del programma della grande coalizione che speriamo nasca in Parlamento dovrà essere l'equità delle riforme contemplate. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quelle riforme ai cittadini. E tanto più saranno eque, tanto più ampia sarà la maggioranza che sosterrà il governo. Tutti sono favorevoli all'equità, ma verso chi, e come?
In passato i governi hanno cercato una certificazione dell'equità delle riforme al tavolo della concertazione: equità fra lavoratori dipendenti e autonomi, fra impiegati pubblici e privati, fra lavoratori e pensionati, ciascuno rappresentato e difeso da un sindacato o da un'associazione, professionale o industriale. Il problema è che a quei tavoli sono rappresentate solo le componenti relativamente forti della nostra società, quelle appunto che hanno la forza di associarsi. Il risultato è un'accozzaglia di privilegi che poi diventa molto difficile scalfire: impiegati pubblici che per decenni sono andati in pensione prima dei privati, e con salari che crescevano di più senza corrispondenti aumenti di produttività; sussidi a questo o quel settore industriale, privilegi per questa o quella categoria professionale; protezione contro la concorrenza per chi deteneva quote di mercato già ampie; sussidi al Sud che nulla hanno fatto se non consolidare l'assistenzialismo e scoraggiare l'attività imprenditoriale, creando al Nord un risentimento su cui la Lega ha fatto presa.
La concertazione ha creato l'esatto opposto dell'equità: i veri deboli non siedono a quei tavoli. Essere «equi» significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme sui giovani, sulle donne, sugli immigrati. Stiamo consegnando ai nostri figli una società indebitata, in cui il loro inserimento nel mondo del lavoro è sbarrato da mille ostacoli. Le donne italiane sono quelle che in Europa meno partecipano al mondo del lavoro, non solo per motivi culturali, ma anche fiscali. Perché non tassarle di meno per favorire questa fantastica risorsa sprecata? Il futuro di una società in cui nascono così pochi bambini dipende dalla capacità di integrare i nuovi cittadini: non trattarli equamente è un modo sicuro per rendere più difficile la loro integrazione.
Equità significa anche distribuire il carico fiscale in maniera giusta. Da più parti, immaginiamo quasi all'unanimità, si proporrà la scorciatoia di un'imposta una tantum sul patrimonio. Con due obiettivi. Primo: ridurre in fretta il debito. Secondo: aumentare l'equità colpendo i ricchi. Sarebbe un errore su entrambi i fronti. I mercati non si aspettano una riduzione immediata del rapporto fra debito e prodotto interno lordo (Pil): chiedono un cambiamento nella dinamica di quel rapporto, che dipende dalla differenza tra costo del debito e crescita. Un pacchetto di riforme credibile per la crescita abbasserebbe lo spread , invertendo la dinamica di tassi di interesse e crescita: il rapporto debito-Pil comincerebbe a scendere, lentamente, ma in modo durevole. Una patrimoniale invece avrebbe l'effetto opposto.
Una patrimoniale ammazzerebbe la crescita facendo probabilmente aumentare il rapporto debito-Pil, dopo una momentanea riduzione. È un'esperienza che abbiamo già vissuto dopo il 1992 con il governo Amato: in quegli anni le privatizzazioni ridussero il rapporto debito-Pil di oltre dieci punti, ma poiché non si fece nulla per la crescita, nel decennio successivo quel beneficio ce lo siamo mangiati. Non solo, una patrimoniale sarebbe come dire: «Siamo nel panico, parliamo tanto di crescita, ma la sola cosa che sappiamo fare è confiscare un po' di soldi agli italiani». Molto probabilmente gli spread salirebbero invece che scendere. Quanti condoni e misure una tantum abbiamo varato negli ultimi anni, con un approccio ragionieristico ai conti pubblici? Innumerevoli. Quale è stato il loro effetto sul rapporto debito-Pil? Nessuno.
La via per garantire equità non sono misure una tantum. Se si pensa che in Italia le tasse colpiscano più alcuni che altri (ed è certamente vero), si faccia una riforma fiscale spostando il peso delle imposte in modo permanente, non una tantum . E lo si faccia ostacolando la crescita il meno possibile. Per esempio si cominci allargando la base imponibile, riducendo elusione ed evasione (e anche molte detrazioni), si tassino meglio le rendite finanziarie, si reintroduca l'Ici sulla prima casa, lasciandone gestione e incasso ai Comuni. Si potrebbe pensare anche a una Ici progressiva, più alta per le case più costose. Si faccia una riforma fiscale, ma la si faccia con calma, coerenza e non una tantum lasciando inalterati i vizi strutturali del nostro sistema impositivo. Si tassino i ricchi certo, più dei meno abbienti, ma non si demonizzi la ricchezza, soprattutto quella costruita creando lavoro e benessere per la società. Gli imprenditori onesti, che sono la gran parte, non sono parassiti. Se mai lo sono quelli che si aggirano nei ministeri cercando questo o quel sussidio spesso mascherato come una misura di equità. Come scriveva Luigi Einaudi: «Nei Paesi dove le imposte sono davvero "democratiche", cioè esentano i redditi necessari all'esistenza, tassano poco, ma pur tassano, i redditi mediocri e tassano progressivamente sempre più fortemente i redditi grossi a mano a mano che si ingrossano, non si parla di imposte straordinarie patrimoniali».

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