lunedì 28 novembre 2011

Prigionieri europei del dogma tedesco, di Sergio Romano

LA LINEA DURA DELLA MERKEL

Non vado alla ricerca di attenuanti per la lentezza e la riluttanza con cui la Germania ha affrontato sin dall'inizio la crisi dell'euro. Ma dobbiamo almeno cercare di comprendere perché esista ormai una questione tedesca.

Dai primi decenni dell'Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918.

Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s'impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell'arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l'arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l'opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato.

Ma anche nel terzo atto, come nei due precedenti, questa virtù nasconde un rischio. Una Germania priva di certezze diventa inquieta e nervosa, se non addirittura nevrotica. Correggere il programma lungo la strada per tenere conto di eventi imprevisti è quindi molto più difficile per i tedeschi di quanto non sia per i loro maggiori partner europei. È accaduto durante le due grandi guerre mondiali e sta accadendo purtroppo anche durante la guerra dell'euro. I predecessori di Gerhard Schröder e Angela Merkel sarebbero forse riusciti a modificare il piano in funzione della realtà. Ma i vecchi cancellieri, da Konrad Adenauer a Helmut Kohl, erano convinti che al loro Paese occorresse, insieme al successo economico, una forte integrazione europea.

Per Merkel, come per Schröder, l'Europa è una eredità a cui non è né intellettualmente né sentimentalmente legata. Questo non significa che non abbia capito la gravità della crisi. Dopo la sua resistenza iniziale, il cancelliere ha cercato di spiegare ai suoi concittadini che il salvataggio dei Paesi a rischio è un obbligo a cui la Germania, nel suo stesso interesse, non può sottrarsi. Ma non ha mai osato mettere in discussione gli assiomi che fanno parte del dogma economico tedesco, dal ruolo della Banca centrale europea agli eurobond. Lo farà, prima o dopo, ma rischia di farlo troppo tardi. Forse Mario Monti può spiegarglielo meglio di quanto non possa e sappia fare Nicolas Sarkozy.

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