lunedì 21 novembre 2011

La ricetta della destra sarà lacrime e sangue, di Luigi La Spina


Crisi e disoccupazione archiviano il “visionario” Zapatero

Per due volte aveva ricacciato le lacrime a fatica, ricordandosi di essere un politico di professione e, a un politico di professione, no, le lacrime non sono consentite. Ora, Mariano Rajoy, dal balcone di calle Genova, la sede dei popolari spagnoli, può sfogare la sua grande rivincita con un sorriso mai visto. Perché il successo, soprattutto quando arriva dopo tante amarezze, trasforma anche gli uomini di ghiaccio come lui. Intorno, la festa dei suoi seguaci, nella sera madrilena spruzzata a intermittenza dalla pioggia, non lascia spazio alle recriminazioni per una vittoria che si sperava ancor più grande e, soprattutto, ai timori per una prova difficilissima che, da stamattina, la Spagna deve affrontare.

Per qualche ora, possono aspettare quei maledetti numeri che all’apertura delle Borse, stamani, daranno un nuovo verdetto, magari meno trionfale per il barbuto galiziano che si appresta a scalzare il socialista Josè Luís Zapatero dalla Moncloa. Meglio godersela fino in fondo questa gioia, scacciare i fantasmi dell’occhiuta sorveglianza della Merkel, dei severi moniti della Banca europea, delle solite ricette rigoriste del Fondo monetario.

Meglio, soprattutto, far finta di non vedere i cinque milioni di disoccupati che ieri notte sono rimasti a casa, perché hanno poco da festeggiare. Sono stati loro a cacciare il «visionario», come ormai tutti definiscono l’ex capo del governo, quello Zapatero, che, come sempre accade nella spietata vita politica, ieri, è stato persino fischiato. Ma saranno loro, che domani aspetteranno da Rajoy la ricetta per trovare un posto e la speranza che la Spagna non distrugga i grandi progressi che, negli ultimi decenni, avevano alimentato l’illusione di un benessere sempre più esteso e di una protezione sociale sempre più garantita.

Sì, tra le urla, gli abbracci e i baci di un entusiasmo troppo grande per ammettere dubbi, c’è anche un sentimento poco nobile, ma, in queste ore, comprensibile, la vendetta. Per la sconfitta dei socialisti, che, nell’animo degli elettori popolari, colpisce giustamente chi aveva vinto per due volte senza meritarlo. La prima, nel 2004, per l’attentato alla stazione ferroviaria di Atocha, incautamente attribuito da Aznar all’Eta. Una furbizia elettorale che, sbugiardata, aveva determinato la sua imprevista sconfitta. E, quattro anni dopo, quando lo zapaterismo non aveva ancora fatto in tempo a svelare la sua fragilità, l’arrogante incompetenza ad affrontare una crisi economica di cui sia il capo del governo, sia, in fondo, gli stessi spagnoli, facevano finta di non vedere la gravità.

Non c’è bisogno degli sberleffi degli avversari per gustare fino in fondo il calice della disfatta, il peggior risultato nella storia democratica della Spagna. I socialisti possono ripetere, come un «mantra» consolatorio, che «poteva anche andare peggio» e che, in fondo, quel calvo professore di chimica, Alfredo Pérez Rubalcaba, ha perso con una dignità riconosciuta da tutti. Certo, come si poteva far dimenticare agli spagnoli che lui era ministro quando Zapatero si ostinava a negare la crisi, che lui era addirittura vicepresidente quando, troppo tardi, il suo capo congelava le pensioni, tagliava gli stipendi agli impiegati pubblici, rendeva più facili i licenziamenti. Ma le scuse, nella notte della disfatta socialista, non servono a prendere sonno.

Dovranno fare i compiti anche loro. Non come Rajoy, sui palcoscenici dell’Europa, ma nelle sezioni, nelle sedi sindacali e, forse, in un Congresso per trovare non solo nuove idee, ma soprattutto nuovi uomini e nuove donne.

Il rinnovamento della classe dirigente socialista sarà complicato. Perché la vecchia guardia è ormai imbolsita dal ricordo di successi troppo antichi, come da ferite ancora troppo brucianti. La stagione dei cinquantenni, rappresentata dall’eloquio seducente e dal sorriso smagliante di Zapatero, ha dimostrato una fragilità e un distacco dalla comprensione dei veri problemi degli spagnoli che la rendono ormai poco credibile per costruire le basi di una rivincita. Dietro a loro, la selezione avvenuta nella base del partito, ferreamente controllata da Zapatero, come spesso accade, ha «bruciato» o fatto emigrare lontano dal cuore del potere i giovani più promettenti e promosso i più servizievoli «signor sì».

Problemi, dubbi e difficoltà che, nella gioia dei vincitori come nell’amarezza dei perdenti, non devono far dimenticare, però, la dimostrazione di forza nella democrazia di questo Paese. Le elezioni hanno consentito non solo quel «cambio» fisiologico che, nell’alternanza degli schieramenti, segue la tradizione più matura del sistema politico bipolare. Ma hanno concesso quella maggioranza assoluta al partito popolare in Parlamento che permetterà al nuovo capo del governo una libertà d’azione non condizionata da compromessi con alleati.

Ma il simbolo migliore di questoturno elettorale è stato dato da quel candidato non nazionalista che, nei Paesi Baschi, è andato tranquillamente a votare con la sua bambina in braccio. Per 43 anni questa scena, lì, non si era mai potuta vedere. La rinuncia alla lotta armata compiuta dall’Eta, proprio un mese fa, è stata un fatto storico per questo Paese. Anche se la grande vittoria dell’ultranazionalismo rappresentato dalla nuova formazione Amaiur, in Euskadi, come i baschi chiamano il loro Paese, diventato il primo partito nella regione, può innescare qualche timore di tensioni politiche e sociali.

2 commenti:

Magus ha detto...

Non so quanto si possa gioire di questa vittoria dei Popolari... Certo Zapatero si è rovinato con le sue stesse mani....

Cosimo ha detto...

I Popolari hanno governato bene con Aznar e, se non si fossero autoinferti quell'autogol dopo l'attentato di Madrid, penso che sarebbero rimasti al governo a lungo. Gli stessi socialisti dissero di non essersi preparati a quella vittoria. Quanto alle ricette, oggi sono le stesse, a prescindere dalle ideologie o dai paesi...