sabato 19 novembre 2011

Scomode verità, di Michele Salvati

Comunque vada, dobbiamo gratitudine a Giorgio Napolitano e a Mario Monti. Al primo per aver organizzato un passaggio, rapido come esigevano le circostanze ma nel pieno rispetto della Costituzione, all’unico governo che ci dà qualche speranza di superare la crisi economica e politica in corso. Al secondo per aver accettato un incarico arduo, nello spirito di un moderno Cincinnato. Come il dictator romano, anche Monti, esaurito il suo compito, si ritirerà a vita privata. Ma a differenza di Cincinnato, non avrà i pieni poteri: la democrazia non è sospesa e la Camera e il Senato dovranno approvare ogni sua iniziativa. E questo rende il compito di Mario Monti assai più difficile. Sono poco più di titoli quelli enunciati da Monti nel discorso programmatico letto alle Camere, ma già chiarissimi: essi prospettano quella soluzione del trilemma tra rigore, crescita ed equità che la migliore riflessione economico-sociale sul caso italiano addita da tempo. Il diavolo sta però nei dettagli e le varianti di ogni riforma sono numerose. Come si comporteranno i politici, che siedono in Parlamento ma non al governo? Come collaboratori leali e in buona fede, pronti a rinunciare a soluzioni che ritengono più favorevoli ai loro interessi di partito? Dediti al compito di disegnare il contesto — elettorale e costituzionale — nel quale la politica competitiva dovrà tornare a svolgersi una volta che questo scorcio di legislatura si sarà esaurito? Difficile farsi illusioni: il governo sarà probabilmente esposto a trappole e ricatti, a tentativi di mercanteggiamento, a minacce di defezione. Come reagirà? Il desiderio di Monti di avere i grandi capipartito nel suo governo, o il suggerimento di Napolitano di includervi Amato e Letta rispondevano in diverso modo a questa evidente debolezza politica. Monti dispone di una sola arma, poderosa, troppo poderosa, ed efficace solo se è rimasto un poco di razionalità e responsabilità nazionale nei partiti: la minaccia di dimissioni se il suo programma viene sfigurato, ciò che precipiterebbe il Paese nel caos. Ma l’uso di questa arma comprometterebbe la stessa immagine del premier e sarebbe poco credibile per partiti usi a mercanteggiare su tutto. Quanto poi alla razionalità e al senso di responsabilità nazionale i partiti ne dispongono come lo scorpione del famoso apologo sull’attraversamento del fiume in groppa alla rana: è vero, se ti pungo affoghiamo entrambi, ma pungere è nella mia natura. La difficoltà maggiore è però di natura economica. Monti ha sottolineato con forza la gravità della crisi e affermato con altrettanta forza che l’unica soluzione è tornare a crescere. È però il primo a sapere che le misure mirate ad elevare la produttività e l’efficienza nei settori privati e pubblici che il suo programma identifica avranno rendimenti molto differiti nel tempo. Da dove proverrà, nei prossimi tre o quattro anni, la domanda che deve sostenere la crescita? Da un radicale mutamento di aspettative di famiglie e imprese, che le indurrà a consumare e investire di più? È una speranza piuttosto tenue.
Dallo Stato, ingabbiato in politiche di rigore, ovviamente non ci si può aspettare molto ed è anche irrealistico affidarsi a una rapida crescita delle esportazioni date le attuali condizioni di competitività delle nostre imprese e un contesto così fiacco di domanda mondiale e specialmente europea: la situazione è radicalmente diversa da quella della crisi del 1992-95, quando la lira venne pesantemente svalutata e le esportazioni conobbero un poderoso rimbalzo. Ciò che realisticamente ci attende, se le cose vanno bene, è il rigore e—speriamo—una buona dose di equità, ma per la crescita occorrerà attendere: questo è il discorso di verità che andrebbe fatto agli italiani, per evitare continue recriminazioni che la crescita non arriva. Ma soprattutto è un discorso che andrebbe fatto in Europa. Se la crescita stenta ad arrivare e se ad essa sono legate le aspettative degli acquirenti del nostro debito pubblico, siamo spacciati: possiamo permetterci qualche emissione al 7 per cento, ma non un onere medio del debito a quei livelli. Non ce la faremmo mai a ripagarlo e la crisi di liquidità si trasformerebbe in una crisi di solvibilità che travolgerebbe l’intero sistemamonetario: una grande riforma europea che elimini la stupida politica del too little, too late che ha già rovinato la Grecia è ancor più urgente delle riforme interne che il governo sta disegnando. Mario Monti è idealmente adatto per fare questo doppio discorso di verità. In Italia, per l’evidente assenza di interessi personali e partitici: da un tecnico, da un Cincinnato, ci si aspetta che parli chiaramente. In Europa per la stima da cui è circondato: se richiede un maggiore impegno della Bce o un serio Fondo salva Stati o una qualche forma di eurobond o altri strumenti che modifichino le aspettative dei mercati, i governi e le istituzioni europee sarebbero sicuri che non lo fa per evitare o allentare le riforme interne sulle quali giustamente l’Europa insiste. La fiducia, nei rapporti internazionali, è molto, se non tutto.



http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_19/salvati_scomode_verita_0bf18ece-1279-11e1-b297-12e8887ffed4.shtml

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