sabato 12 novembre 2011

Liberismo in technicolor, di Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro

La preziosa eredità di Reagan oltre il mito mercatista e la realtà storica

Ronald Reagan quest’anno avrebbe cento anni. Ci ha lasciati nel 2004, dopo aver fatto vita ritirata per un decennio, ostaggio della demenza senile. Sapeva sorriderne: “L’Alzheimer ha anche dei lati positivi. Ogni giorno incontri nuove persone interessanti”. Questa battuta, estratta dal cilindro in un momento di dolore e difficoltà, è il ritratto perfetto dell’uomo come ci piace ricordarlo.
Il volto scottato dal sole e incorniciato da un cappello da cowboy, in una di quelle foto dal sapore epico e casalingo assieme scattate nel ranch che con la moglie Nancy si era scelto per buen retiro. Oppure in blu, i capelli scuri e monumentali, gli occhi brillanti e la faccia tutta contorta in un gigantesco sorriso, come amplificato da quel fiume di rughe delizia dei vignettisti di mezzo mondo. Reagan era un happy warrior, un ottimista indefesso, il presidente americano più vecchio di sempre e la più fiera incarnazione di un’idea di rivoluzionaria semplicità: domani andrà meglio. Grande comunicatore, lo fu davvero, lo sanno tutt’oggi i milioni che ne guardano e riguardano i discorsi su YouTube. Ma per capirlo, per rendersi conto di che cosa ha rappresentato Reagan per l’America e per noi, bisogna tornare indietro di sessant’anni, rispetto al novembre 1980 in cui sbaragliò Jimmy Carter e, con sorpresa del mondo, conquistò la Casa Bianca.
Bisogna tornare, per la precisione, al contrario di un comunicatore, a “Cal il taciturno”. Di Calvin Coolidge, presidente dal 1923 (era il vice di Warren Harding, quando questi morì) al 1929, Walter Lippmann ebbe a scrivere: “La Casa Bianca è particolarmente sensibile a qualsiasi avvisaglia del desiderio di ‘fare qualcosa’ da parte del Congresso o dei dipartimenti dell’esecutivo. Nessuno ha mai superato Mr. Coolidge nell’arte di sgonfiare gli interessi particolari. Lo statista ingenuo […] immagina che sia auspicabile interessare la popolazione alle attività del suo governo […] che indignarsi dinanzi al male sia utile […] Mr. Coolidge è più sottile. Egli ha scoperto quanto sia importante allontanare l’attenzione dal governo e, con una sagacia che si avvicina alla genialità, ha trasformato stolidità e noia in strumenti politici”. Noia e stolidità usati come strumenti politici: il placido Coolidge appare il contrario di Reagan, eppure alla sua capacità di “sgonfiare gli interessi particolari” si deve il miracolo economico degli anni Venti. Con tasse basse e un governo rigorosamente limitato, il pil cresce per dieci anni a circa il 3,4 per cento l’anno. Il modello T, le radio, i frigoriferi si moltiplicano: se nel 1923 solo il 20 per cento delle famiglie ha un telefono, nel 1928 sono il 40 per cento. All’alba della crisi del ’29, il 70 per cento delle imprese ha accesso alla rete elettrica, era solo il 30 per cento a conclusione della Prima guerra mondiale.
E’ al gusto di Calvin per la noia che si deve uno dei sortilegi meglio riusciti della storia politica americana: il governo federale passa dal pesare per il 4,35 per cento del pil nel 1923 al 3,68 per cento nel 1928.
Che cosa accada l’anno dopo, è storia nota. Coolidge lascia il posto a Herbert Hoover per le elezioni del 1929, pur non amandolo (“per sei anni mi ha propinato consigli non richiesti, tutti sbagliati”), e muore nel 1933 dopo aver assistito al trionfo di Roosevelt ma prima che il New Deal travolgesse la sua “politica della noia” e con essa un certo modo di pensare all’America.
E con la fine della presidenza di Cal il silenzioso, una grande traversata nel deserto. Non è questione di partiti, di democratici o repubblicani. Fra Coolidge e Reagan ci sono quattro Presidenti democratici e due repubblicani, ma, forse con l’eccezione dello scintillante JFK, si somigliano tutti.
E’ stato Coolidge l’ultimo a pensare che “the business of America is business”. Poi hanno fatto tutti un altro gioco: hanno consolidato, perfezionato, al limite riformato l’eredità di Franklin Delano Roosevelt. “Siamo tutti keynesiani”, disse Richard Nixon, ed era vero.
Ronald Reagan non avrebbe mai potuto dirlo. E infatti entra alla Casa Bianca col santino di Coolidge sotto braccio: è quello il presidente cui s’ispira, eppure i tempi sono cambiati. L’idea del governo limitato all’epoca di Coolidge poteva essere trovare la sua bandiera nel silenzio, nella modestia ostentata di un uomo pubblico. Domani andrà meglio, se evitiamo di condizionare impropriamente l’iniziativa privata.
Le stesse idee, mezzo secolo dopo, hanno bisogno di un prestigiatore delle parole, di un venditore di genio. Sono passate dall’essere la norma all’essere l’eccezione. E se il miracolo di Coolidge era basato sul troncare e sopire, a Reagan toccò di rovesciare il tavolo, per realizzare – sia pure solo in parte – risultati paragonabili.
Anche per questo, Coolidge è una curiosità per storici, Reagan un’icona. Per la destra americana, per tutti quelli nel mondo che sono convinti che “lo stato è come un neonato: un canale alimentare con un grande appetito da una parte e nessun senso di responsabilità dall’altra”. Come noi dell’Istituto Bruno Leoni, che lunedì prossimo a Milano ricorderemo festosamente il centenario di Ronald Reagan, in occasione della nostra cena annuale.
L’icona nasce a Tampico (Illinois) il 6 febbraio 1911. Studia economia ma la sua vita professionale prende da subito una strada diversa da quella accademica o aziendale: conduce un programma radiofonico nell’Iowa, poi nel 1937 si sposta a Los Angeles e qui entra nel mondo del cinema. Non è John Wayne, ma è da sindacalista del grande schermo che comincia a bazzicare la politica. Nel secondo Dopoguerra ammira, come tutti, Roosevelt e non ancora Coolidge.
Le persone cambiano, le persone crescono. Negli anni Cinquanta, viene assunto dalla Camera di commercio di Los Angeles per incidere delle registrazioni di alcuni oscuri testi di autonomia, opera di un economista francese del secolo passato, Frédéric Bastiat. Chi può dirlo, forse è allora che qualche cosa s’incrina. Fatto sta che Reagan diventa Reagan nel 1964. Il 27 ottobre pronuncia un discorso incredibile, “A Time for Choosing”, a sostegno della campagna elettorale di Barry Goldwater. Quest’ultimo ha la missione impossibile di battere Lyndon Johnson, quando è ancora viva la memoria di JFK. Il senatore dell’Arizona non mira al centro. E’ il primo prodotto politico del movimento conservatore del Dopoguerra, in politica estera un falco, in politica interna un sognatore (“ci sono insulti peggiori di essere considerato sognatore”) col più ambizioso dei programmi: liquidare (non riformare) il lascito di Roosevelt, tornare all’America dei padri fondatori. Oggi i Tea Party sono un ampio movimento, nel 1964 erano una sola persona: Barry Goldwater.
Facciamo due: c’era anche Reagan. Che nel suo “coming out” repubblicano, affila le armi per la battaglia di una vita. “The Speech” comincia così: “Nella storia umana, nessuna nazione ha mai retto una tassazione che avesse raggiunto un terzo del reddito nazionale. Oggi, per ciascun dollaro guadagnato nel nostro paese, 37 centesimi vanno all’esattore delle imposte e, ciò nonostante, la spesa quotidiana del nostro governo continua a superare di 17 milioni di dollari le proprie entrate. Per 28 degli ultimi 34 anni non siamo stati in grado di raggiungere il pareggio di bilancio”.
E’ all’insegna di una piattaforma basata sulla riduzione della sfera dell’interventismo pubblico che Reagan di lì a due anni arriva a candidarsi governatore della California.
Ci resta per due mandati, e per tre volte ancora cerca la prima linea verso la Casa Bianca: nel 1968, nel 1976, sconfitto, e nel 1980, quando il suo partito è finalmente pronto per candidarlo.
Gli osservatori internazionali lo guardano di sottecchi, si sprecano i mezzi sorrisi. Eppure, non vince, stravince, umiliando il povero Carter cui resterà per sempre appiccicata un battuta che è vintage Reagan come nessuna: la recessione è quando il tuo vicino perde il suo lavoro, la depressione è quanto tu perdi il tuo, la ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo.
A sessantanove anni, Reagan è il più anziano presidente della storia americana, e dopo Coolidge è il primo che mira a limitare e non accrescere i poteri di Washington. Resta, a oggi, l’ultimo ad averci provato.
Con tutti i limiti e gli errori inevitabili nella politica vissuta e non solo pensata. Le politiche di Reagan, come quelle di Coolidge, sono liberiste: ma non perfettamente liberiste. Il liberista Coolidge era espressione di un partito affezionato, per tradizione, al protezionismo doganale. Il conservatorismo di Reagan coltiva il sogno irrisolto di uno stato che si ferma sulla soglia degli uffici, ma frequenta le camere da letto.
Gli otto anni alla presidenza si declinano secondo tre grandi aree: strong national defense e lotta senza quartiere al nemico sovietico; deregulation e riforme fiscali in economia; e scarsa considerazione per le libertà civili. La presidenza Reagan inaugura la “guerra alla droga”, che prosciuga le risorse dei contribuenti, riempie le carceri, crea tensioni in politica estera e non riduce il consumo di stupefacenti. Tuttavia, è la politica economica – praticata e predicata, e non sempre le due cose coincidono – che oggi più di ogni altra cosa rappresenta l’eredità di Reagan, e che ne ha fatto l’icona che sappiamo.
Soprattutto all’epoca, pareva naturale, scontato, che toccasse a un nemico di ogni forma di socialismo, più o meno edulcorata, invitare il signor Gorbaciov ad “abbattere questo muro”. Non c’era soluzione di continuità, fra la battaglia contro il comunismo (“la differenza tra democrazia e democrazia popolare è la stessa differenza che passa tra una camicia e una camicia di forza”) e la consapevolezza che “il governo non è la soluzione ai nostri problemi, il governo è il problema”. Affermazione che Reagan non fece in un contesto propagandistico, in campagna elettorale, o a fine carriera, ma nel momento più delicato e importante del suo incarico istituzionale, durante il primo discorso inaugurale il 20 gennaio 1981.
Certo la Reaganomics non è stata solo luci. La più grande lezione che se ne può trarre riguarda la forza implacabile con cui Reagan seppe prendere di petto le corporazioni. Quella è una cosa che fece lui, direttamente, assumendosene la responsabilità fino in fondo, quando il 5 agosto 1981 licenziò tutti i membri del sindacato dei controllori di volo che avevano continuato a scioperare in violazione della legge e non erano tornati al lavoro.
Fu un rischio calcolato? Reagan aveva convincimenti ideologici profondi, una squadra di collaboratori di cui si fidava, ma sapeva creare consenso.
I suoi indici di gradimento sono interessanti, a questo proposito: in media, negli anni alla Casa Bianca ottenne il 57 per cento di favorevoli e 39 per cento di contrari, con punte del 73 per cento alla prima elezione e crollo al 42 per cento durante la crisi dell’83. Man mano che gli anni passavano, però, la popolarità di Reagan cresceva: oggi in tutti i sondaggi è uno dei presidenti più amati di sempre.
Amato e riverito anche ora che è la Madonna di Lourdes dei Tea Party nemici dell’eccesso di spesa e di debito che si debbono a Bush e a Obama.
Uno studio di William Niskanen (che a un certo punto, sotto Reagan, fu presidente del Council of Economic Advisers) e Stephen Moore mostra che “in 8 delle 10 variabili macroeconomiche da noi esaminate, l’economia americana negli anni di Reagan è andata meglio che negli anni precedenti e successivi”. (Le variabili sono: crescita economica; crescita economica per adulto in età lavorativa; reddito della famiglia mediana; occupazione; ore lavorate; disoccupazione; produttività; inflazione; tassi di interesse; risparmi). Qualche numero: il Pil reale crebbe a un tasso medio del 3,2 per cento, quasi al livello raggiunto sotto Coolidge; il reddito reale mediano delle famiglie crebbe di 4.000 dollari, dopo un lungo periodo di stagnazione, e nei periodi successivi addirittura si ridusse; inflazione e disoccupazione crollarono. Le uniche due variabili dove gli anni Ottanta non rappresentarono una vera discontinuità furono il risparmio privato (che declinò) e la produttività (che negli anni di Reagan fu inferiore ai precedenti, ma superiore ai successivi).
Le ombre riguardano le finanze pubbliche. L’avvento di Reagan alla Casa Bianca è segnato dall’ascesa degli economisti “offertisti”. I fautori del lato dell’offerta insistevano che un robusto taglio delle aliquote fiscali e la riduzione della regolamentazione avrebbero rilanciato l’economia. So far so good. Reagan si era convinto, sulla scorta della famosa e bistrattata “curva di Laffer”, che la riduzione delle imposte ne avrebbe fatto crescere il gettito: infatti, la somma delle due componenti negativa (aliquote più basse generano gettito inferiore per ogni dollaro prodotto) e positiva (l’aumento dei dollari prodotti allarga la base imponibile) sarebbe stata almeno neutrale o addirittura positiva.
E’ qui che l’icona di Reagan s’incrina un poco. Il Reagan dei Tea Party e dei suoi appassionati ammiratori, noi inclusi, avrebbe tagliato le tasse, risolto le regolamentazioni, abbattuto la spesa pubblica. Così si sarebbe messa la parola “fine” all’epoca del New Deal.
C’è, insomma, un Reagan della storia e un Reagan della fede. Reagan taglia le tasse (l’aliquota marginale sul reddito scende dal 70 al 28 per cento, cioè di quarantadue punti percentuali, e l’imposta sul reddito d’impresa dal 46 al 34 per cento), dal punto di vista regolatorio la sua eredità è sfaccettata (abolisce alcuni programmi, non riesce a chiudere certe autorità indipendenti o semi-indipendenti, in generale della regolamentazione cambia la forma ma non riduce l’impatto), e soprattutto non abbassa l’asticella della spesa pubblica.
Come ha ricordato William Voegeli nel suo recente “Never Enough: America’s Limitless Welfare State” (Encounter Books), alla prova dei fatti i tagli alla spesa si rivelano semplicemente aumenti inferiori a quelli previsti. David Stockman, entrato nell’Amministrazione Reagan come direttore dell’Office of Managament and Budget, se ne andò sbattendo la porta. Nel suo libro di memorie, “Il trionfo della politica”, parla del reaganismo come rivoluzione fallita proprio perché negli anni di Reagan il bilancio non fu mai in bilancio.
A dispetto della retorica, la bestia non viene affamata, le porzioni crescono, solo un po’ meno di prima. Infatti, la spesa nell’89 era del 69 per cento superiore a quella dell’81. Le entrate fiscali erano aumentate, ma meno di quanto speravano gli architetti della reagonomics: crebbero del 65 per cento, sostanzialmente in linea con la spesa. Dunque, Reagan consentì che il deficit pubblico rimanesse sostanzialmente inalterato (in realtà crebbe e poi scese nuovamente), pur in presenza di un’economia che si sviluppava a tassi mai visti, dai tempi di Coolidge. Il peso dello stato, si ridusse rispetto al pil, seppure di poco: dal 22,2 per cento del 1981 al 21,2 per cento dell’89. Ma non calò in valore assoluto.
Nel suo “The Struggle to Limit Government” (Cato Institute) John Samples sostiene che “Reagan propose sia di minare, sia di riformare il vecchio regime. Reagan il riformatore fece la differenza”, e senza di lui “il governo federale sarebbe forse del 25 per cento più grande”. Ma in questo modo “salvò il vecchio regime introducendo riforme fiscali moderate” e prevenne così la crisi di quello stesso sistema che, a parole e con sincera convinzione, egli intendeva seppellire.
Anche il grande affossatore del New Deal lascia il lavoro a metà. Il Reagan della storia è stato uno dei due più popolari presidenti americani del secolo scorso, con Roosevelt, e, quali che fossero i suoi limiti, uno dei due presidenti più liberisti, con Coolidge. Ma il Reagan della fede, quello i cui discorsi politici sopravvivono ancor oggi, è stato uno straordinario profeta delle idee della libertà. Un presidente taciturno va ricordato per quello che fece, o meglio per quello che impedì ad altri di fare. Un grande comunicatore “resta” per quello che disse.
E in Reagan, come sapeva lui per primo, il mezzo è il messaggio. “Mi sono guadagnato il soprannome di grande comunicatore. Ma non ho mai pensato che fossero il mio stile o le mie parole a fare la differenza: era il contenuto. Io non ero un grande comunicatore, ma comunicavo grandi cose”.
Forse Reagan era guardato con sufficienza dai media mainstream, ma è altrettanto vero che seppe – unendo come uno dei più straordinari oratori della nostra epoca gravitas e levità – conquistarsi un rispetto che andava al di là della tradizionale cerchia conservatrice. Leonard Cohen gli dedica “Diamonds in the mine” in un concerto del 1980. Persino Barack Obama lo cita di tanto in tanto con rispetto.
Solo in Italia si stropicciarono assieme la parola “edonismo” e l’aggettivo “reaganiano”, geniale gag di “Quelli della notte” presa sul serio dal nostro più impegnato culturame. C’era proprio nulla di edonistico, in questo presbiteriano roccioso anche nella propria fiducia nella libertà d’impresa. Con Reagan non scintillavano i lustrini. Con disincanto e ironia (finito sotto i ferri dopo l’attentato di John Hinckley, guarda i chirurghi e dice: “Vi prego, ditemi che siete repubblicani”) riuscì a spiegare una verità banale e spesso ignorata: gli uomini di governo sono fallibili come tutti gli altri, e per questo è poco saggio consegnare loro un potere assoluto.
In altre parole: uno stato grande abbastanza da darti tutto quello che vuoi è uno stato grande abbastanza da toglierti tutto quello che hai.
Come dire che fra i principi dell’economia politica e il senso comune la distanza non è poi incolmabile. E’ così che Ronald Reagan ci ha lasciato un liberismo finalmente in technicolor.

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