mercoledì 9 novembre 2011

Se il liberalismo non piace alle élite, di Piero Ostellino


Perché rispunta la mitica «Terza via»

L’eticizzazione della politica - che Benedetto Croce chiamava «risultante di un incrocio tra l’onestà e la competenza, come si dice, tecnica» - è il segno distintivo di «una certa idea della democrazia» che una parte influente della intellighenzia italiana chiama «sostanziale », contrapponendola a quella «formale» della democrazia liberale, alla quale rimprovera una serie di manchevolezze. Indifferenza etica, incompetenza, indulgenza per il populismo, disinteresse per il bene pubblico, particolarismo, appiattimento sul consumismo.
Croce ne aveva concluso che «quale sorta di politica farebbe codesta accolita di onesti uomini tecnici, per fortuna, non ci è dato di sperimentare, perché mai la storia ha attuato quell’ideale, e nessuna voglia mostra di attuarlo» (L’onestà politica, 1930, in Etica e politica, Adelphi).
Nel secondo dopoguerra, quell’ideale, da noi, tende, ad ogni crisi, a concretarsi in forme politiche - i cosiddetti «governi tecnici» - e rimane l’idea «forte» che permea la cultura politica dominante. È la persistente illusione - la mitica Terza via, conciliatrice di liberalismo e socialismo (e persino comunismo), già condannata dalla storia - della trasformazione del liberalismo da «dottrina delle libertà» a «dottrina dei diritti», descritta e criticata da Isaiah Berlin con la contrapposizione fra libertà negativa (liberale) e libertà positiva (democratica e socialista). Ai maggiori rappresentanti della «democrazia sostanziale» - Michelangelo Bovero, Luciano Canfora, Paul Ginsborg, Massimo Salvadori, Nadia Urbinati, Maurizio Viroli, Gustavo Zagrebelsky - la rivista «Paradoxa» ha dedicato un numero, assegnandone la critica a intellettuali di formazione liberale: Alberto Giordano, Tarcisio Amato, Mario Quaranta, Daniele Rolando, Daniela Coli, Maurizio Griffo, Dino Cofrancesco, cui si deve l’Introduzione.
Ne è sortito un confronto fra ideali diversi, che contraddistinguono le due scuole di pensiero. Da una parte, l’approccio empirico della conoscenza, liberale, che si chiede «come stanno le cose»; dall’altra, quello filosofico, «repubblicano», che spiega «come dovrebbero essere». Da parte liberale, il principio che «la sfera pubblica deve proteggere le libertà dei cittadini, prescindendo dal fatto (innegabile) che tali libertà producano ineguaglianze, stanti i diversi punti di partenza e le diverse dotazioni naturali degli individui»; dall’altra, la «costituzionalizzazione rigida dei diritti fondamentali», che impone «obblighi e divieti ai pubblici poteri», innestando «anche nella democrazia una "dimensione sostanziale" relativa a che cosa non può essere deciso o non deciso da qualunque maggioranza».
Le due scuole riflettono l’incrocio dove, nel XX secolo - dei totalitarismi e del costruttivismo democratico new dealer - le Costituzioni programmatiche si separarono dalle Costituzioni procedurali precedenti. Scrive Cofrancesco: così, cambia «il rapporto tra politica e diritto. Non è più il diritto a essere subordinato alla politica quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli a essa imposti dai principi costituzionali: vincoli negativi, quali quelli generati dai diritti di libertà che non possono essere violati; vincoli positivi, quali quelli generati dai diritti sociali che devono essere soddisfatti; politica e mercato si configurano come sfera del decidibile, rigidamente delimitata dalla sfera dell’indecidibile disegnata dall’insieme dei diritti fondamentali».
Lo ritengo, oltre che una regressione rispetto alla democrazia liberale, neppure un progresso in senso stretto democratico. Se il dettato costituzionale fissa, pregiudizialmente, gli obiettivi cui deve tendere il processo politico, gli esiti sono due. Primo: il Parlamento e il governo sono spogliati delle loro prerogative; secondo: la Costituzione si riduce a un puro esercizio retorico. Nel primo caso, scrive Cofrancesco, «si toglie all’uomo della strada anche quel potere minimo (di voto) che ancora conservava». Secondo: il dettato costituzionale, programmatico, è spesso vanificato dalle «dure repliche dell’economia». Nella Costituzione dell’ex Unione Sovietica la disponibilità della casa di abitazione era un diritto, ma, poi, lo Stato, per mancanza di risorse, non costruiva case e i sovietici vivevano in coabitazione. Il lavoro è un diritto, ma ciò non toglie che esso rimanga, in economia di mercato, merce soggetta alla legge di domanda e offerta, generatrice (anche) di disoccupazione a seconda dell’andamento del ciclo economico.

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