mercoledì 30 novembre 2011

Lucio Magri, di Annalena Benini


Non può essere andata così, la socializzazione della morte non è una ricetta per l’aperitivo

Davanti alla volontà irrevocabile di morire non si può fare nulla, nemmeno se ci sono salute, parole, amici, figlie, una nipotina e bei ricordi. Nemmeno se un’amica più anziana e saggia prende l’aereo solo per dirgli: scuotiti, non farlo, vivi adesso e finché ci sei, e gli altri amici in coro pensano le stesse cose. Lucio Magri, uomo bellissimo, comunista con l’ossessione della perfezione (tutto doveva essere perfetto: una camicia, un uovo al tegamino, un pensiero) aveva da un po’ di tempo lo sguardo perso, gli occhi verdi di chi guarda ma non vede più il mondo.
Una brutta depressione, e nessuno in grado di convincerlo a curarsi, a prendere le medicine che servono, perché lui, diceva, aveva tutti i motivi per soffrire e non voleva soffrire di meno: la moglie, che era il suo faro e il suo collegamento con il mondo, era morta, e lui sentiva di non avere più una voce, un’opinione forte scolpita e vitale (anche le convinzioni sbagliatissime e dannose sono vitali: nella galleria fotografica su Lucio Magri c’è una foto che lo ritrae mentre legge il suo manifesto, e bisogna allargare un momento l’immagine per scoprire quel titolo assurdo e cubitale: “E anche a Primavalle sono stati i fascisti”). Magri voleva morire, e mentre non c’era nessuna autorevolezza affettiva capace di fargli cambiare idea, c’è un’associazione in grado di organizzare con efficienza la fine. Ci sono in Svizzera le roulotte della morte: dove preferisce che le facciano l’iniezione? Vista lago? O vuole guardare le montagne? Forse un boschetto è meglio? Vengono i brividi a immaginarlo, e anche se si deve comprendere la determinazione finale di morte, di quiete, ci si addolora sempre per la vita. Ma vengono i brividi, molto di più, a leggere su Repubblica una cosa che è una specie di reportage esclusivo della morte, la cerimonia degli addii senza l’addio, con la descrizione degli amici che bevono il Martini nel bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone (come piaceva a lui), e aspettano la telefonata che comunichi il suicidio annunciato, seduti sui divani bianchi, il tavolo di legno chiaro, il parquet, i libri sulla scrivania, e la cameriera sudamericana in cucina che chiede se si vogliono fermare a colazione. Non può essere andata davvero così, con quel gelo mondano e pago. “Il grande freddo” era un’altra cosa, “Le invasioni barbariche” anche.
La socializzazione della morte è privatissima, lacrimosa, importante, non può essere trasformata in un servizio per una rivista di arredamento, in una ricetta per l’aperitivo. Lucio Magri aveva vietato qualunque funerale o commemorazione, perché “si dicono sempre parole molto elogiative sulla persona scomparsa”. Non gli piaceva, non voleva sembrare mondano, vanesio, un rivoluzionario da salotto come spesso l’avevano ritratto (perché era bello, elegante, cucinava cose raffinate, voleva perfezioni raffinate). E allora adesso dovrebbe infuriarsi, per avere ricevuto non una commemorazione, non un funerale con il vento o il sole e la pioggia, i bambini che si rincorrono e gli amici che piangono e poi ridono e si consolano, ma la mondanizzazione estrema e cinica dei suoi ultimi istanti raccontati da chi non c’era, mentre lui era in Svizzera forse dentro una roulotte a guardare il panorama che si era scelto per ultimo.

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