domenica 13 novembre 2011

Perché l'Italia può farcela, di Bill Emmott

Guardare l’Italia negli ultimi anni è stato come guardare un incidente d’auto al rallentatore. O forse un’analogia migliore, più inglese sarebbe quella di paragonare il Bel Paese al Titanic. E’ forte, piena di gente ricca e ben costruita ma il proprio autocompiacimento la sta portando lentamente verso un iceberg. Ora, però, bisogna cambiare analogia. Dobbiamo chiederci che cosa può fare il professor Mario Monti per rianimare e curare il malato italiano. Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, ha sicuramente ragione quando ha detto, venerdì, che «l’Italia ha un rendimento economico potenzialmente elevato ma ha bisogno di enormi sforzi per realizzarli in modo strutturale e permanente».

Questo è molto simile ha quello che ha detto il professor Monti negli ultimi mesi nei suoi articoli e nei suoi discorsi sempre più schietti. In verità, la forza economica dell’Italia ha giocato un ruolo alquanto contraddittorio durante la lunga fase di preparazione a questa crisi. Molti economisti hanno giustamente detto che i «fondamentali» del Paese sono buoni: alti livelli di ricchezza e di risparmio delle famiglie, basso debito privato, un sistema bancario stabile e una bilancia commerciale favorevole per i manufatti. In questo senso, l’Italia non è come la Grecia. Eppure i politici hanno abusato di tale argomento usandolo per suggerire che non c’era bisogno di fare molto. Il limite dell’argomento dei «fondamentali» inizia con il fatto che quando il problema è una crisi di fiducia nel debito sovrano, questi punti di forza sono quasi irrilevanti. Il problema è il fatto che il governo italiano deve 1,9 trilioni di euro, una cifra pari al 120% del Pil, lo stesso livello del 1994 quando Silvio Berlusconi entrò in politica. Tutto ciò che importa a coloro che prestano denaro al governo italiano è se il governo è in grado di onorare i debiti. La ricchezza privata e il basso indebitamento delle imprese sono rilevanti sotto questo profilo solo se questo significa che il governo può raccogliere più tasse dal settore privato o convincere i risparmiatori ad acquistare più titoli di stato.

Eppure, il più significativo fatto «fondamentale» mostra perché ciò è difficile: l’economia in Italia è cresciuta appena del 3% nel decennio 2001-2010, mentre in Francia è cresciuta del 12%. In questo senso l’Italia non è come la Grecia: è peggio. Il reddito pro capite della Grecia è cresciuto in media di circa il 2% all’anno nel 2001-2010, mentre in Italia in realtà è precipitato. L’Italia si sentiva e in qualche modo sembrava forte e ricca, ma in realtà, non solo stagnava ma s’impoveriva. I redditi delle famiglie sono più bassi di quanto non fossero dieci anni fa. Il debito del governo è più grande di quanto non fosse allora. L’idea che il Paese fosse comunque in una bella posizione è stata utilizzata, dal Presidente del Consiglio, dai suoi ministri e, a volte, da dirigenti d’azienda anche come pretesto per evitare la necessità di decisioni difficili. Il buon argomento «fondamentale» è, comunque, corretto nel modo in cui l’ha usato il Presidente Van Rompuy: il potenziale dell’Italia rimane forte.

Questo è il motivo per cui questa crisi finanziaria è tanto una tragedia come un crimine: modesti ma costanti cambiamenti fatti anno dopo anno, negli ultimi dieci anni o più, avrebbero potuto sia ridurre il debito pubblico e rendere il Paese meno vulnerabile sia liberare la naturale forza economica del Paese, rendendo il debito più gestibile, il tutto senza causare troppa pena. Il compito del nuovo governo sarà di fare questo, e non in maniera graduale e modesta, ma rapidamente e ambiziosamente. Nessuno, meno di tutti il professor Monti, si aspetta che questo sia facile. La parte più facile, infatti, sarà tagliare il deficit di bilancio più rapidamente rispetto ai piani che sono ora passati in Parlamento. Il forte senso nazionale della crisi finanziaria farà in modo che questo sforzo ottenga supporto, almeno per i prossimi mesi, nonostante le inevitabili proteste contro questo o quel taglio. Idealmente, l’austerità iniziale dovrebbe essere anche parte di un quadro più a lungo termine per ridurre il peso del debito pubblico dell’Italia fino a, diciamo, l’80% del Pil nei prossimi dieci anni.

Il problema per il nuovo governo, tuttavia, sarà simile a quello della Grecia: la riduzione fiscale potrebbe essere necessaria per ripristinare la fiducia degli investitori e ridurre gli oneri finanziari in Italia, ma rischia di precipitare il Paese nella recessione, forse anche in modo grave tanto più che il resto dell’eurozona è destinato, secondo Mario Draghi nella sua prima conferenza stampa come presidente della Banca centrale europea, a una «lieve recessione». Una recessione italiana potrebbe deprimere ulteriormente le entrate fiscali, rendendo più difficili gli obiettivi di bilancio e innescando un circolo vizioso al ribasso. Quindi ciò che è necessario è una combinazione di austerità e di riforma che solleciti i veri punti di forza del Paese, agevolando la crescita. E’ probabile che la vita del governo Monti sarà troppo breve per poter attuare un programma di riforma davvero profondo. Ma potrebbe avviare le cose in quella direzione e porre le basi per le riforme.

Poi, qualunque sarà il governo eletto nel 2012 o nel 2013 sarebbe in una posizione migliore per realizzarle. L’Italia può davvero accettare la riforma? Questa è una domanda che mi viene spesso rivolta dai miei amici non italiani. Grazie al viaggio in giro per l’Italia che ho fatto per il mio libro, «Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi» (pubblicato un anno fa da Rizzoli) ho fiducia che la risposta sia sì. La mia fiducia comincia, infatti, a Torino. La riforma richiede la costruzione del consenso e una visione di un futuro migliore da condividere. Questo, mi pare, è ciò che il sindaco Valentino Castellani ottenne a Torino negli Anni 90, quando formò l’equivalente cittadino di un «governo tecnico», poi il piano è stato esteso e realizzato dal suo successore, un politico più convenzionale, Sergio Chiamparino. La crisi finanziaria e politica di Torino ha portato al cambiamento. Lo stesso può accadere a livello nazionale. La fede in un tale cambiamento richiede anche esempi di successo di aziende che si sono costruite un ruolo di leader non solo in campo nazionale ma anche mondiale e possono ispirare gli altri. Troppo spesso, i commenti sul successo italiano si limitano ai produttori di piccole e medie dimensioni.

Molti sono eccellenti, ma non è sufficiente avere l’eccellenza in un settore che rappresenta appena un quinto dell’economia. E le piccole imprese spesso non sono in grado di competere a livello globale. Quindi ciò che occorre è un successo più ampio, in tutti i settori del business del Paese, e la creazione di aziende più grandi. Gli esempi ci sono, in settori nuovi come in quelli vecchi: la leadership di Luxottica nel mercato mondiale negli occhiali da sole, Ferrero per il cioccolato, ma anche Technogym per i centri benessere, Autogrill nella ristorazione di massa e duty-free al dettaglio, e la Rainbow, nell’animazione per i bambini. Quello che queste aziende dimostrano anche, però, è che gli ostacoli alla crescita sono molti e vari. E, in quanto eccezioni, mostrano quanto gli ostacoli impediscano alle altre imprese di emularli. Primi della lista la legislazione in materia di lavoro che scoraggia le imprese dall’assumere lavoratori e le pratiche di lavoro che rendono le aziende italiane meno produttive rispetto ai Paesi vicini.

Ma così sono le regole restrittive e i cartelli che fanno aumentare i costi e impediscono alle imprese di entrare in nuovi campi, rendendo più gratificante espandersi all’estero che in patria, in Italia. Il tipo di programma di riforma necessario per innescare il potenziale d’Italia è quello che elimina diritti, tutele e privilegi da una gamma molto ampia di gruppi e organizzazioni. Come si arriverà a questo è molto controverso. Quindi sarà necessario costruire attentamente il consenso, un processo reso più difficile dalla legge elettorale vigente, che incoraggia la polarizzazione e si focalizza sulla personalità. Come è stato ampiamente discusso, è vitale una riforma di questa legge elettorale. Tale consenso sarà inoltre essenziale per la grande riforma delle leggi sul lavoro che è necessaria per realizzare un mercato unico del lavoro, coniugando flessibilità e sicurezza. Questo richiederà una collaborazione tra governo, sindacati e associazioni dei datori di lavoro che non è mai facile. Eppure è stato fatto in passato per eliminare la scala mobile, quindi potrà sicuramente essere fatto di nuovo. Il più grande, necessario sforzo dovrà essere l’accurata rimozione dei diritti e dei privilegi che ostacolano la concorrenza e l’innovazione. In «Forza, Italia», proponevo che il nuovo governo italiano si rivolgesse a un uomo che aveva appena compilato un rapporto per la Commissione europea sul modo di approfondire il mercato unico europeo, chiedendogli di fare lo stesso per l’Italia, e poi incaricarlo della sua applicazione. Il nome dell’uomo era professor Mario Monti. Egli ora dovrà trovare qualcun altro per fare quel lavoro, ma almeno sa cosa vuole che sia fatto.



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